DROGA. LA CRISI D'ASTINENZA PUÒ COMPROMETTE LA CAPACITÀ
DI INTENDERE E VOLERE?
Cassazione, sez. VI, 5 maggio 2011, n. 17305
1.
Non tutti gli stati di tossicomania, la quale è una
dipendenza meramente psichica alla droga, o di
tossicodipendenza, che è una assuefazione cronica alla
stessa, producono di per sé alterazione mentale o
disagio psichico rilevante agli effetti di cui agli
artt. 88 e 89 c.p., ma solo quegli stati di grave
intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in
grado di determinare un vero e proprio stato patologico
psicofisico dell’imputato, incidendo profondamente sui
processi intellettivi o volitivi di quest’ultimo.
2. La
situazione di tossicodipendenza, in grado di influire
sulla capacità di intendere e di volere, è solo quella
che, per il suo carattere ineliminabile e per
l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni
patologiche permanenti, cioè una patologia a livello
cerebrale implicante psicopatie e consistenti disagi che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
A strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci
si trovi di fronte a una vera e propria malattia
psichica.
3.
Per escludere (o diminuire) l’imputabilità,
l’intossicazione da sostanze stupefacenti non solo deve
essere cronica (cioè stabile), ma deve produrre
un’alterazione psichica permanente, cioè una patologia a
livello cerebrale implicante psicopatie e disagi che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti; lo stato di tossicodipendenza non
costituisce, pertanto, di per sé, indizio di malattia
mentale o di alterazione psichica.
4. In
ogni caso, in tema di intossicazione acuta dovuta
all’uso di sostanze stupefacenti, per la sussistenza del
vizio di mente (totale o parziale) non è sufficiente che
il giudice di merito riconduca l’azione dell’imputato ad
un modello di infermità apoditticamente affermata, ma,
proprio ai fini della corretta qualificazione del vizio,
è necessario che indichi e valuti motivatamente i dati
anamnestici, clinici, comportamentali, evincibili dalle
stesse modalità del fatto, ragionevolmente rivelatori
dell’asserito quadro morboso, agli effetti della sua
"graduabilità" rispetto all’imputabilità.
Cassazione, sez. VI, 5 maggio 2011, n. 17305
(Pres. De Roberto – Rel. Lanza)
Ritenuto in fatto
N..A.
ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 8
aprile 2009 della Corte di appello di Firenze che, in
parziale riforma della sentenza del Tribunale di
Livorno, ha ridotto la pena a mesi 10 di reclusione per
i reati ex art. 337 e 582 c.p., deducendo vizi e
violazioni nella motivazione nella decisione impugnata,
nei termini critici che verranno ora riassunti e
valutati.
1.)
le conformi sentenze dei giudici di merito in punto di
colpevolezza.
Con
sentenza del 9 gennaio 2007, all’esito di giudizio
abbreviato, il Tribunale di Livorno ha affermato la
responsabilità di A.N. in ordine ai delitti di lesioni
aggravate e resistenza a pubblico ufficiale, a lui
ascritti al capo A) della rubrica, nonché di
danneggiamento aggravato, di cui al capo B) e, concesse
le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle
contestate aggravanti, ed applicata la diminuente dei
rito, lo ha condannato alla pena di anni 1, mesi 4 di
reclusione, interamente condonata a sensi della legge
241/2006.
La
Corte di appello di Firenze con sentenza 8 aprile 2009
accertati i fatti, ha escluso la circostanza che
l’imputato fosse affetto da una permanente alterazione
dei processi intellettivi, assimilabile alla malattia
mentale ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli
atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu
determinato da un contingente stato di agitazione da
crisi di astinenza, in assenza di "psicopatie che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti".
La
corte distrettuale peraltro, avuto riguardo ai
complessivi criteri di valutazione di cui all’art. 133
c.p., ha ritenuto eccessiva la sanzione inflitta, pur
considerando la non trascurabile gravità dei fatti
ascritti, avuto riguardo: al particolare stato emotivo
del soggetto al momento dei fatti e l’incidenza dello
stato di agitazione determinato dalla crisi di astinenza
sulle sue condizioni intellettive e volitive in quella
situazione; all’omessa valutazione delle attenuanti
generiche non essendo stata contestata, relativamente al
più grave delitto di cui all’art. 337 c.p., alcuna
aggravante.
Considerato in diritto
1.) i
motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di
rigetto della Corte di legittimità.
Con
un primo motivo di impugnazione viene dedotta
inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché
vizio di motivazione sotto il profilo della mancata
applicazione nella specie del disposto dell’art. 89 c.p.
ed avuto riguardo alla pronuncia delle S.U. in tema di
disturbi gravi di personalità.
Il
motivo è infondato attesa la corretta motivazione del
giudice del gravame.
Come
già detto, la corte distrettuale - in punto di invocata
seminfermità di mente dell’imputato - ha ritenuto che
nella specie, non vi sia prova che l’imputato fosse
affetto da una permanente alterazione dei processi
intellettivi, assimilabile alla malattia mentale e
rilevante ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli
atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu
determinato da un contingente stato di agitazione da
crisi di astinenza, in assenza di "psicopatie che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti".
Premesso che per "crisi di astinenza", si intende
usualmente quello stato di sofferenza psicofisica
(idoneo a causare anche reazioni organiche) che colpisce
la persona la quale sospende oppure riduce bruscamente
il consumo abituale di sostanze (quali alcool, farmaci o
droga), idoneo a creare stati di dipendenza, il tenore
del gravame impone una breve rassegna delle regole
rilevanti sul tema ed avuto riguardo alle pronunce della
Corte di legittimità la quale ha più volte ribadito:
a)
che non tutti gli stati di tossicomania, la quale è una
dipendenza meramente psichica alla droga, o di
tossicodipendenza, che è una assuefazione cronica alla
stessa, producono di per sé alterazione mentale o
disagio psichico rilevante agli effetti di cui agli
artt. 88 e 89 c.p., ma solo quegli stati di grave
intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in
grado di determinare un vero e proprio stato patologico
psicofisico dell’imputato, incidendo profondamente sui
processi intellettivi o volitivi di quest’ultimo (Cass.
pen. sez. 6, 6357/1996 Rv. 205097);
b)
che la situazione di tossicodipendenza, in grado di
influire sulla capacità di intendere e di volere, è solo
quella che, per il suo carattere ineliminabile e per
l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni
patologiche permanenti, cioè una patologia a livello
cerebrale implicante psicopatie e consistenti disagi che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
A strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci
si trovi di fronte a una vera e propria malattia
psichica. (Cass. pen. sez. 3, 35872/2007 Rv. 237284);
c)
che per escludere (o diminuire) l’imputabilità,
l’intossicazione da sostanze stupefacenti non solo deve
essere cronica (cioè stabile), ma deve produrre
un’alterazione psichica permanente, cioè una patologia a
livello cerebrale implicante psicopatie e disagi che
permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione
strettamente collegata all’assunzione di sostanze
stupefacenti; lo stato di tossicodipendenza non
costituisce, pertanto, di per sé, indizio di malattia
mentale o di alterazione psichica (Cass. pen. sez.
6,7885/1999 Rv. 214757);
d)
che, in ogni caso, in tema di intossicazione acuta
dovuta all’uso di sostanze stupefacenti, per la
sussistenza del vizio di mente (totale o parziale) non è
sufficiente che il giudice di merito riconduca l’azione
dell’imputato ad un modello di infermità apoditticamente
affermata, ma, proprio ai fini della corretta
qualificazione del vizio, è necessario che indichi e
valuti motivatamente i dati anamnestici, clinici,
comportamentali, evincibili dalle stesse modalità del
fatto, ragionevolmente rivelatori dell’asserito quadro
morboso, agli effetti della sua "graduabilità" rispetto
all’imputabilità. Cass. pen. sez. 6, 31483/2004 Rv.
229793 );
Orbene, nella specie, la Corte di appello con un
giudizio di merito - rispettoso delle regole sub a), b)
e c) - in questa sede insindacabile, ha ritenuto che la
crisi di astinenza, nei termini rilevati nella condotta
dell’accusato, sia stata inidonea a realizzare quella
grave compromissione dei processi di intelligenza e
volontà richiesta dal legislatore, il quale ha dato
all’interprete un grado di misura espresso con
l’inequivoca espressione "scemare grandemente".
Nella
vicenda comunque, provata l’esistenza di una crisi di
astinenza, difetta invece la diversa prova di una realtà
di cronica intossicazione o comunque di un disagio
psichico capace di indurre una infermità di mente
grandemente efficace sulla funzionalità dell’intendere
e/o di volere.
Conclusione questa che non può essere invalidata dalla
richiamata decisione delle S.U. 9163 del 25 gennaio
2005.
In
termini va subito premesso che, secondo la più
accreditata e sensibile dottrina psichiatrico - forense
e medico legale, nonché per le scienze del comportamento
in genere, è ormai pacifico che le nozioni di "capacità
di intendere e di volere" e quella di "vizio di mente"
non corrispondono a categorie
scientifico-naturalistiche. Esse altro non sono che
convenzioni giuridiche, nate in un periodo storico
dominato dall’ideologia positivista ed ancorato a una
psichiatria biologica che non è conforme alle moderne
correnti psicodinamiche e fenomenologiche: esse peraltro
hanno un contenuto sostanziale che la dottrina e la
prassi giurisprudenziale necessariamente si sforzano di
adeguare ai tempi, come avvenuto in tema di disturbi
gravi di personalità.
Su
tale tema infatti un punto nodale di riferimento è
notoriamente dato dalla sentenza n. 9163 del 25 gennaio
2005 delle Sezioni Unite, la quale ha stabilito che
anche i "disturbi della personalità", come quelli da
nevrosi e da psicopatie, possono costituire causa idonea
ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e
specifica, la capacità di intendere e di volere del
soggetto agente, ai fini degli articoli 88 e 89 c.p.,
sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e
gravità tali da concretamente incidere sulla stessa.
Peraltro la portata dell’affermazione è stata dalla
stessa Corte tarata e ridimensionata con le ulteriori
precisazioni che sono state date dalle regole-corollario
secondo cui non assumono rilievo ai fini della
imputabilità le altre “anomalie caratteriali" o gli
"stati emotivi e passionali", i quali non rivestano i
suddetti connotati di incisività sulla capacità di
autodeterminazione del soggetto agente. È inoltre
necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di
reato sussista un nesso eziologico, che consenta di
ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.
Per
riassumere: i disturbi della personalità (nevrosi e
psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle
norme degli artt. 88 ed 89 C.P., con conseguente
pronuncia di totale o parziale infermità di mente
dell’imputato, a condizione che essi abbiano, riferiti
alla capacità di intendere e di volere, le seguenti
qualità, globalmente in grado di incidere sulla capacità
di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito e
cioè:
consistenza e intensità, intese come valore concreto e
forte; rilevanza e gravità pesate come dimensione
importante del disagio stabilizzato; c) rapporto
motivante con il fatto commesso, apprezzato come
correlazione psico - emotiva rispetto al fatto illecito
(cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6, 43285/2009 Rv.
245253).
Orbene, venendo al caso di specie, l’affermata mera
condizione di un generico stato di agitazione da crisi
da astinenza, in capo all’autore della condotta illecita
(di resistenza violenta, di lesioni e di
danneggiamento), non accompagnata da altre provate
indicazioni in termini di grande e grave disassamento,
da infermità, delle funzioni noetiche e volitive
dell’agente, non integra lo schema dogmatico dell’art.
89 c.p., dato che essa realizza una mera condizione di
stato emotivo e passionale, non incidente ex art. 90
c.p. sugli ambiti dell’intendere e del volere, anche se
utilizzabile, come avvenuto nella gravata sentenza in
termini di graduazione del trattamento sanzionatorio.
Il
motivo va quindi rigettato.
Con
un secondo motivo si lamenta la mancata applicazione nel
massimo delle ritenute e riconosciute circostanze
attenuanti generiche.
Il
motivo per come formulato è inammissibile: i giudici di
merito, con argomentazione non censurabile in questa
sede, hanno applicato le circostanze attenuanti
generiche per il reato più grave in misura diversa da
quella massima, avuto riguardo ai reati satelliti e ai
pesanti precedenti penali dell’imputato.
Il
ricorso pertanto risulta infondato, valutata la
conformità del provvedimento alle norme stabilite,
nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza
strutturale della giustificazione che è stata formulata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
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