La "multa" comunitaria è deterrente di eventuali simili
illeciti, e non si può qualificare come fattore
produttivo
Le sanzioni irrogate dalla Commissione Ce, a seguito di
una pratica concordata volta a falsare in maniera
consistente la concorrenza sul mercato (nella specie,
sul mercato del cemento), non sono deducibili dal
reddito d'impresa. Lo ha statuito la Cassazione con
sentenza dell'11 aprile, la 8531.
La fattispecie
Con avviso di accertamento per l'anno di imposta 2000,
l'Agenzia ha recuperato i costi indebitamente dedotti
dalla società perché non inerenti e corrispondenti alla
quota parte della complessiva sanzione irrogata dalla
Commissione europea al gruppo societario, poi suddivisa
tra le società tenuto conto del concorso di ciascuna
nella complessiva produzione dell'illecito
anticoncorrenziale.
Diversamente dall'ufficio e dal collegio di primo grado,
la sezione bresciana della Commissione tributaria
regionale della Lombardia ha accolto l'appello della
contribuente, condannando l'Amministrazione finanziaria
al rimborso delle imposte versate in sede di
dichiarazione dei redditi 2000.
Ma la Cassazione, con sentenza 8135/2011, ha chiarito,
ancora una volta, che il pagamento di sanzioni
comunitarie antitrust non può essere considerato un
costo "inerente" all'attività d'impresa poiché tali
sanzioni non sono irrogate a seguito di una decisione
strategica aziendale volta all'incremento dei ricavi.
Osservazioni
Nonostante l'indeducibilità dal reddito delle sanzioni
antitrust costituisca un principio consolidato
(Cassazione, sentenza 5050/2010 e ordinanze 600, 601 e
2594 del 2011), con la sentenza in esame, la Corte,
prima, ha condotto un esame, in astratto, sulla
possibilità/liceità di dedurre le sanzioni in base ai
principi generali dell'ordinamento comunitario e
italiano; poi, ha escluso in concreto la deducibilità
delle sanzioni in quanto costi non inerenti.
Ma soprattutto, richiamando la pronuncia della Corte di
giustizia dell'11 giugno 2009, nel procedimento
pregiudiziale C-429/07, il Supremo collegio ha
sottolineato come la deducibilità fiscale (consentita
nel diritto olandese) di un'ammenda inflitta dalla
Commissione o da un'autorità nazionale garante della
concorrenza sia fatto idoneo a incidere negativamente
sull'efficacia della sanzione, poiché in tal modo si
consentirebbe la neutralizzazione, anche parziale,
dell'entità della sanzione stessa.
Che le sanzioni antitrust non possano ritenersi
deducibili dal reddito di impresa, infatti, emerge con
riferimento sia ai poteri della Commissione nell'ambito
del sistema di controllo delle intese e degli abusi
anticoncorrenziali, sia alla ratio delle stesse
sanzioni.
Attribuendo alla Commissione Ce il potere d'infliggere
ammende alle imprese che, dolosamente o colposamente,
trasgrediscono al divieto di condotte antitrust, il
diritto comunitario ha fornito a tale organo il potere
di svolgere il compito di sorveglianza in tale materia.
Di conseguenza, "… disgiungere il divieto generale di
pratiche anticoncorrenziali dalle sanzioni previste per
l'inosservanza dello stesso Trattato equivarrebbe, …, a
privare di efficacia l'azione delle autorità incaricate
di vigilare sul rispetto del divieto in parola e di
sanzionare siffatte pratiche …".
Se, inoltre, il diritto comunitario si limitasse a
riconoscere tale potere di controllo senza renderlo
effettivo con l'attuazione del relativo sistema
sanzionatorio, non sarebbe garantita l'applicazione
uniforme del trattato Ce poiché "… l'efficacia delle
sanzioni inflitte dalle autorità garanti della
concorrenza, nazionali o comunitarie, è … una condizione
per l'applicazione uniforme …".
Né l'indeducibilità fiscale italiana, a giudizio della
Corte di cassazione, è in contrasto con il diritto
comunitario: "soltanto nel caso in cui la ricostruzione
del diritto nazionale, secondo le regole sostanziali e
processuali ad esso proprie ivi compresa quella che
impone un'interpretazione conforme al diritto
comunitario, conduca all'applicazione dell'agevolazione
fiscale …" non consentita invece in ambito comunitario,
allora la Corte di giustizia dovrebbe essere investita
in via pregiudiziale dell'interpretazione delle norme
del Trattato, ai fini dell'articolo 234 (Cassazione,
sentenza 7883/2007).
Ma così non è. Anche nel sistema nazionale, infatti,
nessuna norma riconosce espressamente alle imprese
"l'agevolazione" di dedurre la sanzione dal reddito
d'impresa: ciò "significherebbe neutralizzare
interamente la ratio punitiva della penalità,
controbilanciandola con un corrispondente risparmio
d'imposta, che, in quanto espressione della violazione
di normativa imperativa, si rivelerebbe del tutto
ingiustificato…" (Cassazione, ordinanza 2594/2011).
Dopo aver riconosciuto che la deduzione delle sanzioni
antitrust sarebbe in contrasto con il diritto
comunitario, la Corte ne ha esaminato le caratteristiche
nell'ambito dell'ordinamento nazionale e, quindi, con
riferimento al principio di inerenza ex articolo 75,
comma 5, Tuir (ora articolo 109).
In particolare, la Corte suprema ha ribadito che tale
sanzione ha natura:
amministrativa e non penale (articolo 15, legge
287/1990, e articolo 23 regolamento Ce 16 dicembre
2002), con conseguente indeducibilità ex articolo 14,
comma 4-bis, legge 537/1993, poiché tale disposizione
nega la detrazione delle spese per "fatti, atti o
attività" costituenti reato, mentre per gli altri casi,
non disciplinati dalla suddetta norma speciale, la
deducibilità dei relativi costi continua a essere
assoggettata alle ordinarie regole dettate dal Tuir. Le
sanzioni pecuniarie antitrust, proprio perché non sono
costi di origine illecita, bensì sono frutto della
reazione dell'ordinamento comunitario a un comportamento
antigiuridico, non rientrano nella citata disposizione
afflittiva e non risarcitoria, poiché la
Commissione, per determinare l'ammontare dell'ammenda,
tiene conto anche della gravità dell'infrazione, della
sua durata e dell'intenzionalità delle varie condotte,
ed effettua una graduazione di maggiore o minore
responsabilità dalla quale emerge concretamente la
funzione di punizione, e non di riparazione o confisca.
"Non può, dunque, essere negato il carattere punitivo ad
una sanzione che è inflitta a prescindere dal danno
concretamente ricevuto dai consumatori. L'eventuale
ristoro, infatti, non incide sulla tassabilità di
proventi, pur derivanti da fatti, atti o attività
qualificabili come illecito civile, penale o
amministrativo …, ricompresi nelle categorie di reddito
di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1 (Cass.
sez. 5, 09 novembre 2005 n. 21746)…". E che la sanzione
abbia natura afflittiva risulta anche dalla possibilità
di personalizzarla con la sua commisurazione al
fatturato dell'anno precedente alla commissione
dell'illecito: a parità di gravità dell'illecito,
infatti, uguale deve essere l'afflittività nei confronti
di diversi soggetti che lo hanno commesso. Se però
questi hanno dimensioni diverse, per aversi uguale
afflittività dovrà necessariamente irrogarsi una
sanzione quantitativamente diversa. Deve osservarsi che,
se invece la sanzione avesse natura risarcitoria, essa
dovrebbe essere commisurata al danno concorrenziale
arrecato alla comunità e alle altre imprese del settore,
a nulla rilevando la dimensione del soggetto che ha
commesso l'illecito (per il danno patrimoniale, infatti,
rileva la quantificazione del danno stesso, e non la
forza economica del danneggiante). Personalizzazione
della sanzione ma non sconti. Nella quantificazione
dell'ammenda, la Commissione non è tenuta a fissare un
minore importo della sanzione, né per la circostanza che
nel nostro Paese la sanzione antitrust è indeducibile,
né a seguito della richiesta della società di valutare
proprie situazioni particolari e contingenti, atteso che
"la Commissione ... non è obbligata, nel fissare le
ammende, a tenere conto delle differenze esistenti fra
le varie legislazioni fiscali nazionali (CGE, 15 luglio
1970, causa 44/69, Buchler/Commissione, Racc. pag, 733,
punto 51)…" (Cassazione, 8135/2011).
deflativa rispetto alla condotta consumata e non
produttiva del reddito, variabile nel suo ammontare
"fino al" 10% dei ricavi dell'anno precedente. Il
richiamo ai ricavi dell'esercizio precedente, infatti,
costituisce solo un parametro utilizzato nella normativa
comunitaria antitrust, ai fini della determinazione
della sanzione che, quindi, non incide in maniera
diretta su un incremento del reddito (ipoteticamente
configurabile a cagione proprio della commessa
violazione ma che, di fatto, potrebbe anche non esserci)
ma ha "… funzione di deterrente di futuri possibili
analoghi illeciti, e non potrà mai qualificarsi come
fattore produttivo, trattandosi di condotta non soltanto
autonoma ed esterna rispetto alla normale vita
dell'impresa, ma antitetica rispetto al corretto
svolgimento di tale attività …" (Cassazione, 8135/2011).
Quindi non inerente. In tema di reddito d'impresa,
infatti, un costo può essere ritenuto deducibile solo se
e in quanto risulti funzionale alla produzione del
reddito. A tale riguardo, la sentenza 8135/2011 ha
puntualmente sintetizzato i precedenti interventi della
Corte nei quali era senz'altro da escludere la
correlazione fra costi e ricavi, ai fini della
deducibilità dei costi. Rientrano in tale elenco: il
pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire
comportamenti illeciti del contribuente, ad esempio, le
infrazioni alle norme sulla circolazione stradale o gli
interessi moratori su somme pagate a titolo di sanzione
amministrativa; l'esborso effettuato per evitare
indagini fiscali nonostante la connessa interferenza con
la vita dell'impresa per preservare il risultato dei
fattori produttivi, su un piano autonomo ed esterno
rispetto agli atti e all'attività della gestione
d'impresa; il riscatto pagato per la liberazione di un
dirigente (Cassazione, 8818/1995); le sanzioni pagate
dall'imprenditore a titolo di condono edilizio (a
esclusione della parte delle spese non avente natura
sanzionatoria, come gli oneri di urbanizzazione).
E
ora nell'elenco possono includersi anche le sanzioni
irrogate dagli organismi garanti della concorrenza e del
mercato, comunitari e nazionali, a seguito di pratiche
concordate volte a falsare in maniera consistente la
concorrenza sul mercato. Tali sanzioni non sono
deducibili dal reddito di impresa, trattandosi di costi
che nascono "in un fatto o in un atto … antigiuridico,
che per sua natura si pone al di là della sfera
aziendale …" (Cassazione, 8135/2011). Non tutti i fatti
che possono comportare miglioramenti per le performance
aziendali, infatti, devono essere considerati inerenti.
Non di certo quelli che contrastano con principi
nazionali e comunitari perché vietati dai rispettivi
ordinamenti, bensì quelli che appartengono alla sfera
della gestione ordinaria dell'impresa e sono con questa
immediatamente e direttamente collegati.
Romina Morrone |