In un
sinistro stradale rimane ucciso un ragazzo di 19 anni,
unico figlio di una coppia che chiede, quindi, il
risarcimento dei danni subiti. In appello i genitori
ottengono una liquidazione maggiore rispetto all’importo
stabilito in primo grado, ma propongono ricorso per
cassazione, sostenendo che i giudici di merito non hanno
accolto la loro domanda di risarcimento del danno
esistenziale.
Secondo i ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe
errato nell’affermare che il pregiudizio non
patrimoniale da loro rivendicato costituirebbe un
duplicato del danno biologico iure proprio, già
riconosciuto in sentenza.
Come le Sezioni Unite di questa
Corte hanno avuto modo di affermare nel 2008, il danno,
anche in caso di lesione di valori della persona, non
può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe
snaturata la funzione del risarcimento che verrebbe ad
essere concesso non in conseguenza dell’effettivo
accertamento di un danno bensì quale pena privata per un
comportamento lesivo (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008,
n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26975), ma va provato dal danneggiato
secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, (pure) il danno non
patrimoniale va dunque sempre allegato e provato, in
quanto, come osservato anche in dottrina, l’onere della
prova non dipende invero dalla relativa qualificazione
in termini di “danno-conseguenza”, tutti i danni
extracontrattuali dovendo essere provati da chi ne
pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non
patrimoniale nei suoi vari aspetti, e la prova può
essere data con ogni mezzo (v., in particolare,
successivamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del
2008, Cass., 5/10/2009, n. 21223; Cass., 22/7/2009, n.
17101; Cass., l/7/2009, n. 15405).
Trattandosi di pregiudizio (non
biologico) a bene immateriale, particolare rilievo
assume invero al riguardo la prova presuntiva (v. Cass.,
Sez. Un., 15/1/2009, n. 794; Cass., 19/12/2008, n.
29832). La prova del danno non patrimoniale da uccisione
(o anche solo da lesione: v. Cass., 6/4/2011, n. 7844)
dello stretto congiunto può essere invero data anche a
mezzo di presunzioni (v. Cass., 31/05/2003, n. 8827;
Cass., 31/05/2003, n. 8828; Cass., 19/08/2003, n. 12124;
Cass., 15/07/2005, n. 15022; Cass., 12/6/2006, n.
13546), che in argomento assumono anzi "precipuo
rilievo" (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572). Le
presunzioni valgono in realtà a sostanzialmente
facilitare l’assolvimento dell’onere della prova da
parte di chi ne é onerato, trasferendo sulla controparte
l’onere della prova contraria (v. Cass., 12 giugno 2006,
n. 13546).
In presenza di tale allegazione il
giudice deve quindi ritenere, sulla base della
presunzione fondata essenzialmente sulla tipicità di
determinati fatti alla stregua della regola di
esperienza di tipo statistico, provati gli effetti che
da tale fatto normalmente derivano, avendo riguardo ad
una “apparenza” basata sul tipico decorso degli
avvenimenti.
Incombe alla parte a cui sfavore
opera la presunzione dare la prova contraria idonea a
vincerla, con valutazione al riguardo spettante al
giudice di merito (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).
Se dunque il danneggiato
(quantomeno) alleghi il fatto base della normale e
pacifica convivenza del proprio nucleo familiare e che
il decesso del (o le gravi lesioni subite dal) proprio
congiunto all’esito del fatto evento lesivo hanno
comportato una sofferenza interiore tale da determinare
un’alterazione del proprio relazionarsi con il mondo
esterno, inducendolo a scelte di vita diverse, incombe
al danneggiante dare la prova contraria idonea a vincere
la presunzione della sofferenza interiore, così come
dello "sconvolgimento esistenziale" riverberante anche
in obiettivi e radicali scelte di vita diverse, dalla
perdita (o anche solo dalla "lesione": cfr. Cass.,
3/4/2008, n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass.,
31/5/2003, n. 8827; Cass., Sez. Un., 1/7/2002, n. 9556)
del rapporto parentale secondo l’id quod plerumque
accidit normalmente discendono per lo stretto congiunto
(v. Cass., Sez., Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass.,
12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez,, Un., 24/3/2006, n.
6572).
Il principio di integralità del
risarcimento del danno impone che nessuno degli aspetti
di cui si compendia la categoria generale del danno non
patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso
concreto accertata, rimanga priva di ristoro. Essi
debbono essere invero presi tutti in considerazione a
fini della determinazione dell’ammontare complessivo del
risarcimento conseguentemente dovuto dal
danneggiante/debitore.
Le Sezioni Unite del 2008 hanno in
proposito significativamente affermato che a) in
presenza di reato, superato il tradizionale orientamento
che limitava il risarcimento al solo danno morale
soggettivo, identificato con il patema d’animo
transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non
patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il
pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter
fare (rectius, nella sofferenza morale determinata dal
non poter fare) é risarcibile, ove costituisca
conseguenza della lesione almeno di un interesse
giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento
positivo, ivi comprese le Convenzioni internazionali
(come la Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo), e cioé purché sussista il requisito
dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c., la
tutela penale costituendo sicuro indice di rilevanza
dell’interesse leso, b) in assenza di reato, e al di
fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di
tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti
alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Fattispecie quest’ultima considerata integrata ad
esempio in caso di sconvolgimento della vita familiare
provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da
perdita del rapporto parentale), in quanto il
“pregiudizio di tipo esistenziale” consegue alla lesione
dei “diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e
30 Cost.)” (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
In tali ipotesi, vengono in
considerazione pregiudizi che, attenendo all’esistenza
della persona, per comodità di sintesi possono essere
descritti e definiti come esistenziali, senza che
tuttavia possa configurarsi una “autonoma categoria di
danno” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972). Così
come altri pregiudizi di tipo esistenziale, attinenti
alla sfera relazionale della persona ma non conseguenti
a lesione psicofisica, e quindi non rientranti
nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo
giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. "danno
estetico" che del c.d. danno alla vita di relazione"),
sono risarcibili, si é ulteriormente sottolineato dalla
Sezioni Unite, ove conseguenti alla lesione di un
diritto inviolabile della persona diverso dal diritto
alla integrità psicofisica.
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Corte di Cassazione, sez. III
Civile, sentenza 25 febbraio – 13 maggio 2011, n. 10527
Presidente Preden – Relatore
Scarano
Svolgimento del processo
Con sentenza del 9/6/2005 la Corte
d’Appello di Bologna, reietto quello incidentale
dell’appellata società Milano Assicurazioni s.p.a., in
parziale accoglimento del gravame in via principale
interposto dai sigg.ri E.L. e A.D. nei confronti della
pronunzia Trib. Bologna 4/2/2000, condannava i sigg.ri
A., m. e M.L. - quali eredi del sig. Mi.La. - e la
società Milano Assicurazioni s.p.a. al pagamento, in
solido, di maggiori importi rispetto a quelli liquidati
dal giudice di prime cure a titolo di danno biologico
iure proprio, con rivalutazione ed interessi, sofferti
in conseguenza del decesso del figlio Mi. all’esito di
sinistro stradale avvenuto il 16/11/1996, allorquando
l’autovettura A.R. Giulietta, condotta dal proprietario
sig. Mi.La., dopo aver colliso con la struttura muraria
di un ponticello usciva di strada, ribaltandosi, con
esiti letali anche per il predetto conducente, mentre
l’altro trasportato sig. E.T. riportava gravi lesioni.
Avverso la suindicata pronunzia
della corte di merito il L.E. e la D. propongono ora
ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi.
Resiste con controricorso la
società Milano Assicurazioni s.p.a., cha ha presentato
anche memoria.
Motivi della decisione
Con unico complesso motivo i
ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione
degli artt. 2059 c.c., 2, 29, 30 e 31 Cost., in
relazione all’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c.; nonché
“erronea e contraddittoria” motivazione su punto
decisivo della controversia, in relazione all’art. 360,
1 co. n. 5, c.p.c..
Si dolgono che la corte di merito
abbia erroneamente ritenuto tardiva la domanda di
risarcimento del “danno non patrimoniale subito per la
prematura e violenta scomparsa dell’unico giovanissimo
figlio (G. anni 19), nella sua componente c.d.
esistenziale ovvero da perdita del rapporto parentale
e/o da lesione di interessi della persona tutelati a
livello costituzionale”, laddove “in primo grado ...
(cfr. conclusioni di 1^ grado) avevano richiesto il
risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non),
indicando come voci, il danno morale, il danno biologico
e il danno patrimoniale (c.d. classico sistema tripolare
del danno alla persona)”, mentre nell’“atto di appello
la richiesta era riferita a tutti i danni patiti e
patiendi (cfr. conclusioni atto di appello)”, sicché “é
evidente ... che il petitum attoreo comprendeva anche il
pregiudizio esistenziale non patrimoniale".
Si dolgono ulteriormente
dell’“errata riconduzione del danno non patrimoniale
c.d. esistenziale e/o da lesioni di valori essenziali
della persona costituzionalmente garantiti all’interno
della categoria del c.d. danno biologico iure proprio”.
Lamentano che la corte di merito
“erra clamorosamente quando afferma che il pregiudizio
non patrimoniale rivendicato dai genitori” costituisce
“un duplicato del danno biologico iure proprio
attribuito con riferimento a quella depressione
dell’umore e delle funzioni vitali indicate come
contenuto del preteso danno esistenziale”, giacché il
“pregiudizio esistenziale di natura non patrimoniale
(alias danno parentale), si distingue nettamente dal
danno biologico iure proprio (patologia depressiva
accertata dal CTU prof. A. )“ il cui “contenuto ... era
rappresentato dalla lesione ad un interesse giuridico
diverso sia dal bene salute in senso proprio... che
dall’interesse all’integrità morale”.
Lamentano, ancora, che “la domanda
... era diretta ad ottenere il risarcimento per
l’indubbia esterna modificazione peggiorativa subita
dalla loro sfera esistenziale/parentale, ampiamente
tutelata nella Carta Costituzionale (artt. 2, 29, 30 e
31), nella legislazione ordinaria (art. 143 e ss. c.c.)
e in quella speciale nazionale ed internazionale (artt.
1 e 2 L. 898/1970, art. 8 comm. 1 L. 845/1955 -
Convenzione europea diritti fondamentali dell’uomo -
Costituzione europea) ... pregiudizi che hanno
irrimediabilmente inciso e continueranno ad incidere
negativamente ed in modo devastante sulla qualità della
vita e quindi sull’esistenza dei ricorrenti, i quali a
causa dell’illecito hanno dovuto sopportare il totale
stravolgimento della loro "agenda esistenziale" e la
privazione di tutti i riti, anche piccoli (ma solo
apparentemente insignificanti) del vivere quotidiano,
quali potevano essere il cinema assieme alla sera,
l’alternarsi alla guida della macchina, le vacanze, le
telefonate durante la giornata, il caffè appena svegli,
il pranzo, la cena, i regali inattesi, la casa vuota,
l’assenza di rumore nella camera del figlio; pregiudizi
tutti, questi, che nulla hanno a che fare con la
patologia depressiva (danno biologico iure proprio)
subita dai genitori di G. . Questo era ed é il
"contenuto" del danno non patrimoniale richiesto dai
genitori di G., contenuto che non coincide ... con la
semplice "depressione dell’umore e delle funzioni
vitali", le quali, se idonee a sfociare in una vera e
propria patologia accertabile dalla scienza medica,
rientrano all’interno del danno biologico iure proprio”.
Il motivo é in parte inammissibile
e in parte infondato, nei termini di seguito indicati.
Come le Sezioni Unite di questa
Corte hanno avuto modo di affermare nel 2008, il danno,
anche in caso di lesione di valori della persona, non
può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe
snaturata la funzione del risarcimento che verrebbe ad
essere concesso non in conseguenza dell’effettivo
accertamento di un danno bensì quale pena privata per un
comportamento lesivo (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008,
n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26975), ma va provato dal danneggiato
secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, (pure) il danno non
patrimoniale va dunque sempre allegato e provato, in
quanto, come osservato anche in dottrina, l’onere della
prova non dipende invero dalla relativa qualificazione
in termini di “danno-conseguenza”, tutti i danni
extracontrattuali dovendo essere provati da chi ne
pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non
patrimoniale nei suoi vari aspetti, e la prova può
essere data con ogni mezzo (v., in particolare,
successivamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del
2008, Cass., 5/10/2009, n. 21223; Cass., 22/7/2009, n.
17101; Cass., l/7/2009, n. 15405).
Trattandosi di pregiudizio (non
biologico) a bene immateriale, particolare rilievo
assume invero al riguardo la prova presuntiva (v. Cass.,
Sez. Un., 15/1/2009, n. 794; Cass., 19/12/2008, n.
29832).
La prova del danno non patrimoniale
da uccisione (o anche solo da lesione: v. Cass.,
6/4/2011, n. 7844) dello stretto congiunto può essere
invero data anche a mezzo di presunzioni (v. Cass.,
31/05/2003, n. 8827; Cass., 31/05/2003, n. 8828; Cass.,
19/08/2003, n. 12124; Cass., 15/07/2005, n. 15022;
Cass., 12/6/2006, n. 13546), che in argomento assumono
anzi "precipuo rilievo" (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006,
n. 6572).
Le presunzioni valgono in realtà a
sostanzialmente facilitare l’assolvimento dell’onere
della prova da parte di chi ne é onerato, trasferendo
sulla controparte l’onere della prova contraria (v.
Cass., 12 giugno 2006, n. 13546).
Come anche in dottrina posto in
rilievo, la presunzione semplice o hominis si
caratterizza perché il fatto che la fonda va provato in
giudizio, mentre nella presunzione legale é stabilito
dalla legge che, attraverso lo schema logico della
presunzione, non vuole imporre conclusioni
indefettibili, ma introduce uno strumento di
accertamento dei fatti di causa che può anche presentare
qualche margine di opinabilità nell’operata
riconduzione, in base a regole (elastiche) di
esperienza, del fatto ignoto da quello noto; mentre,
quando queste regole si irrigidiscono, assumendo
consistenza di normazione positiva, si ha un fenomeno
qualitativamente diverso e dalla praesumptio hominis si
trapassa nel campo della presunzione legale (v. Cass.,
12/6/2006, n. 13546. E già Cass., 16 marzo 1979, n.
1564; Cass., 7 luglio 1976, n. 2525).
Una volta che la presunzione
semplice si sia tuttavia formata, e sia stata rilevata
(cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia
stata data o risulti la prova), essa ha la medesima
efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale
iuris tantum, in quanto l’una e l’altra trasferiscono a
colui contro il quale esse depongono l’onere della prova
contraria (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass.,
27/11/1999, n. 13291. Diversamente v. peraltro Cass.,
16/3/1979, n. 1564).
A tale stregua, la presunzione
solleva la parte che ex art. 2697 c.c., sarebbe onerata
di provare il fatto previsto, che, come posto in rilievo
in dottrina, deve considerarsi provato ove provato il
“fatto base” (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).
Quando ammessa, la presunzione, in
assenza di prova contraria, impone al giudice di
ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli
la valutazione ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (v. Cass.,
12/6/2006, n. 13546).
Anche nella giurisprudenza di
legittimità si é con riferimento alla prova per
presunzioni semplici sottolineato che, nel dedurre dal
fatto noto quello ignoto il giudice di merito incontra
il solo limite del principio di probabilità (v. Cass.,
12/6/2006, n. 13546).
Non occorre cioé che i fatti su cui
la presunzione si fonda siano tali da far apparire la
esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza
possibile dei fatti accertati secondo un legame di
necessità assoluta ed esclusiva (in tal senso v.
peraltro Cass., 6/8/1999, n. 8489; Cass., 23/7/1999, n.
7954; Cass., 28/11/1998, n. 12088), ma é sufficiente che
l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un
canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla
connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e
ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza
(v. Cass., 23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n.
13169; Cass., 13/11/1996, n. 9961; Cass., 18/9/1991, n.
9717; Cass., 20/12/1982, n. 7026), basate sull’id quod
plerumque accidit (v. Cass., 30/11/2005, n. 6081; Cass.,
6/6/1997, n. 5082).
In presenza di tale allegazione il
giudice deve quindi ritenere, sulla base della
presunzione fondata essenzialmente sulla tipicità di
determinati fatti alla stregua della regola di
esperienza di tipo statistico, provati gli effetti che
da tale fatto normalmente derivano, avendo riguardo ad
una “apparenza” basata sul tipico decorso degli
avvenimenti.
Incombe alla parte a cui sfavore
opera la presunzione dare la prova contraria idonea a
vincerla, con valutazione al riguardo spettante al
giudice di merito (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).
Costituendo un mezzo di prova di
rango non inferiore agli altri, in quanto di grado non
subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque
non “più debole” della prova diretta o rappresentativa,
ben possono le presunzioni assurgere anche ad unica
fonte di convincimento del giudice (v. Cass., Sez., Un.,
11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n.
6572, Cass., 12/6/2006, n. 13546, Cass., 6/7/2002, n.
9834), costituendo una "prova completa", sulla quale può
anche unicamente fondarsi il convincimento del giudice
(v. Cass., 12/6/2006, n. 13546. E già Cass., 22 luglio
1968, n. 2643).
Il giudice, si é peraltro al
riguardo precisato, attraverso il ricorso alle
presunzioni (nonché mediante l’esplicazione se del caso
dei poteri istruttori attribuitigli dall’art. 421
c.p.c.) può sopperire alla carenza di prova, ma non
anche al mancato esercizio dell’onere di allegazione,
concernente sia l’oggetto della domanda che le
circostanze in fatto su cui la stessa si fonda (cfr., da
ultimo, Cass., Sez. Un., 6 marzo 2009, n. 6454).
Se dunque il danneggiato
(quantomeno) alleghi il fatto base della normale e
pacifica convivenza del proprio nucleo familiare e che
il decesso del (o le gravi lesioni subite dal) proprio
congiunto all’esito del fatto evento lesivo hanno
comportato una sofferenza interiore tale da determinare
un’alterazione del proprio relazionarsi con il mondo
esterno, inducendolo a scelte di vita diverse, incombe
al danneggiante dare la prova contraria idonea a vincere
la presunzione della sofferenza interiore, così come
dello "sconvolgimento esistenziale" riverberante anche
in obiettivi e radicali scelte di vita diverse, dalla
perdita (o anche solo dalla "lesione": cfr. Cass.,
3/4/2008, n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass.,
31/5/2003, n. 8827; Cass., Sez. Un., 1/7/2002, n. 9556)
del rapporto parentale secondo l’id quod plerumque
accidit normalmente discendono per lo stretto congiunto
(v. Cass., Sez., Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass.,
12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez,, Un., 24/3/2006, n.
6572).
Il principio di integralità del
risarcimento del danno impone che nessuno degli aspetti
di cui si compendia la categoria generale del danno non
patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso
concreto accertata, rimanga priva di ristoro.
Essi debbono essere invero presi
tutti in considerazione a fini della determinazione
dell’ammontare complessivo del risarcimento
conseguentemente dovuto dal danneggiante/debitore.
Le Sezioni Unite del 2008 hanno in
proposito significativamente affermato che a) in
presenza di reato, superato il tradizionale orientamento
che limitava il risarcimento al solo danno morale
soggettivo, identificato con il patema d’animo
transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non
patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il
pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter
fare (rectius, nella sofferenza morale determinata dal
non poter fare) é risarcibile, ove costituisca
conseguenza della lesione almeno di un interesse
giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento
positivo, ivi comprese le Convenzioni internazionali
(come la Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo), e cioé purché sussista il requisito
dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c., la
tutela penale costituendo sicuro indice di rilevanza
dell’interesse leso, b) in assenza di reato, e al di
fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di
tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti
alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Fattispecie quest’ultima considerata integrata ad
esempio in caso di sconvolgimento della vita familiare
provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da
perdita del rapporto parentale), in quanto il
“pregiudizio di tipo esistenziale” consegue alla lesione
dei “diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e
30 Cost.)” (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
In tali ipotesi, vengono in
considerazione pregiudizi che, attenendo all’esistenza
della persona, per comodità di sintesi possono essere
descritti e definiti come esistenziali, senza che
tuttavia possa configurarsi una “autonoma categoria di
danno” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972). Così
come altri pregiudizi di tipo esistenziale, attinenti
alla sfera relazionale della persona ma non conseguenti
a lesione psicofisica, e quindi non rientranti
nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo
giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. "danno
estetico" che del c.d. danno alla vita di relazione"),
sono risarcibili, si é ulteriormente sottolineato dalla
Sezioni Unite, ove conseguenti alla lesione di un
diritto inviolabile della persona diverso dal diritto
alla integrità psicofisica.
In base al principio in base al
quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al
ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto
illecito o l’inadempimento ad essi causalmente
ascrivibile, si é per altro verso da questa Corte
ravvisata l’esigenza di evitarsi duplicazioni
risarcitorie.
Al riguardo, va precisato, non si
hanno invero duplicazioni risarcitorie in presenza della
liquidazione dei diversi aspetti negativi ravvisati
causalmente derivare dal fatto illecito o
dall’inadempimento ed incidenti sulla persona del
danneggiato/creditore. Duplicazioni risarcitorie vengono
invece a sussistere laddove lo stesso aspetto (o voce)
venga computato due o più volte, sulla base di diverse,
meramente formali, denominazioni (v. Cass., 6/4/2011, n.
7844).
É invero compito del giudice
accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio
allegato, a prescindere dal nome attribuitogli,
individuando quali ripercussioni negative sul valore
persona si siano verificate, e provvedendo alla loro
integrale riparazione (in tali termini v. Cass., Sez.
Un., 11/11/2008, n. 26972).
A tale stregua, i patemi d’animo e
la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente
assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico,
avente tendenzialmente portata “onnicomprensiva” (v.
Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
In tal senso é da intendersi invero
la statuizione secondo cui il ristoro della sofferenza
morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa
non rimanga allo stadio interiore o intimo ma si
obiettivizzi, degenerando in danno biologico o, come
nella specie, in pregiudizio prospettante profili di
tipo esistenziale.
In presenza di una liquidazione del
danno morale che sia cioé stata espressamente estesa
anche ai profili relazionali, nei termini propri del
danno c.d. esistenziale é allora senz’altro da
escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a
titolo di danno morale già determinato, venga attribuito
un ulteriore ammontare al (diverso) titolo di danno
esistenziale (cfr. Cass., 15 aprile 2010, n. 9040). Così
come deve del pari dirsi nell’ipotesi di liquidazione
del danno biologico effettuata avendosi riguardo anche a
siffatta negativa incidenza sugli aspetti
dinamico-relazionali del danneggiato.
Laddove tali aspetti relazionali
(del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente
connotanti il c.d. danno esistenziale) non siano stati
invece presi in considerazione, dal relativo ristoro non
può invero prescindersi (cfr. Cass., Sez. Un.,
11/11/2008, n. 26972, e, da ultimo. Cass., 17/9/2010, n.
19816).
Orbene, nel caso é rimasto
accertato che il G.L. é deceduto all’esito del sinistro
stradale in cui é stato coinvolto.
I genitori hanno domandato il
ristoro anche del lamentato danno non patrimoniale
conseguentemente sofferto.
La corte di merito, in riforma sul
punto della decisione di primo grado, ha riconosciuto
loro il risarcimento pure del danno biologico, negando
viceversa il ristoro (anche) del “danno esistenziale,
inteso come irreversibile peggioramento del loro
precedente standard di vita”.
Tale pronunzia la corte di merito
ha adottato “indipendentemente dalla tardività di tale
domanda”, ritenendola “costituire, nella fattispecie
concreta, un duplicato del danno biologico iure proprio,
attribuito proprio con riferimento a quella depressione
dell’umore e delle funzioni vitali indicate come
contenuto del preteso danno esistenziale”.
A fronte di tale statuizione gli
odierni ricorrenti, senza denunziare error in procedendo
ex art. 112 c.p.c., e in violazione invero del principio
di autosufficienza, giacché non riportano debitamente
nel ricorso la domanda originaria e la censura mossa con
l’atto d’appello alla sentenza di primo grado, del tutto
apoditticamente lamentano di aver subito un danno che ha
irrimediabilmente inciso “in modo devastante” sulla
“qualità” della loro vita e della loro “esistenza”, a
causa del “totale stravolgimento della loro agenda
esistenziale“ in ragione della “privazione di tutti i
riti, anche piccoli (ma solo apparentemente
insignificanti) del vivere quotidiano, quali potevano
essere il cinema assieme alla sera, l’alternarsi alla
guida della macchina, le vacanze, le telefonate durante
la giornata, il caffè appena svegli, il pranzo, la cena,
i regali inattesi, la casa vuota, l’assenza di rumore
nella camera del figlio; pregiudizi tutti, questi, che
nulla hanno a che fare con la patologia depressiva
(danno biologico iure proprio) subita”.
“Questo era ed é”, essi concludono,
“il contenuto del danno non patrimoniale richiesto”, che
“non coincide ... con la semplice depressione dell’umore
e delle funzioni vitali, le quali, se idonee a sfociare
in una vera e propria patologia accertabile dalla
scienza medica, rientrano all’interno del danno
biologico iure proprio”.
Orbene, quanto alla doglianza mossa
dai ricorrenti relativamente alla tardività della
domanda di risarcimento del danno esistenziale nel caso
erroneamente ravvisata dalla corte di merito, va
anzitutto sottolineato, da un canto, che essa non
risulta invero correttamente formulata, non risultando
nemmeno indicata la norma (processuale) di cui si
intende nel caso denunziare la violazione (cfr. Cass.,
16/1/2007, n. 828), oltre a non risultare osservato il
principio di autosufficienza laddove viene fatto
richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito
senza che i medesimi risultino debitamente riportati nel
ricorso [“In primo grado gli attori (cfr. conclusioni di
1^ grado) avevano richiesto il risarcimento di tutti i
danni (patrimoniali e non) ... In atto di appello la
richiesta era riferita a tutti i danni patiti e patiendi
(cfr. conclusioni atto di appello)]. Per altro verso,
che dal tenore del riportato passo della motivazione
emerge invero evidente che la ritenuta tardività della
domanda non é stata in realtà l’unica ratio decidendi al
riguardo posta a base dell’impugnata decisione, essendo
stata dalla corte di merito (“indipendentemente dalla
tardività di tale domanda”) la doglianza in questione
ritenuta altresì “priva di pregio” in quanto costituente
“nella fattispecie concreta un duplicato del danno
biologico iure proprio, attribuito proprio con
riferimento a quella depressione dell’umore e delle
funzioni vitali indicate come contenuto del preteso
danno esistenziale”.
Deve quindi al riguardo osservarsi
che, pur affermando di aver tenuto conto - nella
complessiva liquidazione del danno non patrimoniale -
anche dei "profili relazionali" dei danneggiati, la
corte di merito, nel fare poi riferimento alla
“depressione dell’umore e delle funzioni vitali”
indicandoli come integranti il “contenuto” del preteso
“danno esistenziale”, si esprime in termini
effettivamente erronei, giacché alla stregua della
regola vigente in base al principio di effettività tale
aspetto o voce del danno non patrimoniale consiste
invero propriamente nell’alterazione/cambiamento della
personalità del soggetto.
É lo sconvolgimento foriero di
“scelte di vita diverse”, in altre parole, lo
sconvolgimento dell’esistenza obiettivamente accertabile
in ragione dell’alterazione del modo di rapportarsi con
gli altri nell’ambito della vita comune di relazione,
sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare,
nello “sconvolgimento” che, pur senza degenerare in
patologie medicalmente accertabili (danno biologico), si
rifletta in un’alterazione della sua personalità tale da
comportare o indurlo a scelte di vita diverse, in
conseguenza della perdita del rapporto parentale, ad
assumere essenziale rilievo ai fini della
configurabilità e ristorabilità di siffatto profilo del
danno non patrimoniale (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre
2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez.
Un., 24/3/2006, n. 6572).
A tale stregua, non può allora
sostenersi che allorquando ai fini della liquidazione di
danno biologico vengono presi in considerazione anche i
c.d. aspetti relazionali per ciò stesso tale aspetto o
voce di danno possa considerarsi invero sempre e
comunque assorbente il c.d. danno esistenziale (in tal
senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass.,
30/11/2009, n. 25236), essendo in realtà necessario
verificare quali aspetti relazionali siano stati
valutati dal giudice, e se sia stato in particolare
assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di
vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del
soggetto in cui dell’aspetto del danno non patrimoniale
convenzionalmente indicato come danno esistenziale si
coglie il significato pregnante.
In tal senso deve pertanto
correggersi, ai sensi dell’art. 384, 1 co., la
motivazione dell’impugnata sentenza.
Per altro verso, non potendo - come
sopra esposto - considerarsi in re ipsa, il danno non
patrimoniale iure proprio del congiunto [che i
ricorrenti indicano come “pregiudizio esistenziale di
natura non patrimoniale (alias danno parentale)”] é
ristorabile laddove venga quantomeno allegata la
degenerazione della sofferenza o patema d’animo in
obiettivi profili relazionali.
Solamente in tal caso si determina
invero l’inversione dell’onere della prova, con
trasferimento sulla parte a cui sfavore essa opera
dell’onere di dare la prova contraria idonea a vincerla.
Orbene, diversamente da quanto
sostenuto dagli odierni ricorrenti, il suindicato
pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto
parentale non consiste invero nella mera perdita delle
abitudini e dei riti propri della quotidianità della
vita, ma in fondamentali e radicali cambiamenti dello
stile di vita, in scelte di vita diversa, di cui gli
odierni ricorrenti non hanno invero fornito alcuna
precisa ed obiettivamente riscontrabile indicazione, non
assolvendo pertanto (quantomeno) al su di essi
incombente onere di allegazione idonea a determinare
l’inversione probatoria propria e tipica delle
presunzioni.
L’allegazione a tal fine
necessaria, va sottolineato, deve in realtà concernere
fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioé
circostanziata, non potendo invero risolversi in mere
enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto,
eventuale ed ipotetico.
A tale stregua, non può allora al
riguardo valorizzarsi nemmeno la deduzione (come detto
relativa invero alla quotidianità della vita) dai
ricorrenti operata alla privazione “del piacere di
condividere gioie e dolori col figlio” e dei “riti,
anche piccoli ... del vivere quotidiano, quali potevano
essere il cinema assieme alla sera, l’alternarsi alla
guida della macchina, le vacanze, le telefonate durante
la giornata, il caffè appena svegli, il pranzo, la cena,
i regali inattesi”. E a fortiori l’evocazione della
“privazione del diritto e dovere di esercitare la
potestà genitoriale” e del “diritto e dovere di educare
un figlio”, trattandosi di figlio già maggiorenne ed
introdotto nel mondo del lavoro (in qualità di operaio).
All’infondatezza dei motivi
consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle
spese del giudizio di cassazione, che liquida in
complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 2.300,00 per
onorari, oltre a spese generali ed accessori come per
legge. |