1. La truffa, quanto all'elemento
materiale, ruota intorno ai seguenti elementi
costitutivi: 1) artifizi o raggiri; 2) ingiusto
profitto; 3) altrui danno.
2. Questi tre elementi, essendo la
truffa un reato di natura istantanea normalmente vengono
in evidenza contemporaneamente: fanno eccezione alla
suddetta regola le ipotesi in cui l'ingiusto profitto
venga conseguito in un momento successivo agli artifizi
o raggiri o in più momenti.
3. È incontestabile, però, che gli
artifizi o raggiri debbono essere messi in atto
dall'agente al momento in cui perpetra la truffa ai
danni della vittima proprio perché il suddetto reato è
caratterizzato da una ben precisa modalità ossia
l'elemento fraudolento (artifizi o raggiri) finalizzato
ad indurre in errore la parte lesa, come si desume,
letteralmente dall'art. 640/1 c.p. che esordisce
stabilendo “chiunque, con artifizi o raggiri inducendo
taluno in errore [...]”. Il che significa che, ove
l'agente si impossessi di un bene altrui senza modalità
fraudolente, la truffa non è giuridicamente
configurabile, né può assumere rilievo alcuno la
circostanza che, in un momento successivo, l'agente
faccia ricorso ad artifizi e raggiri finalizzati a
coprire la propria precedente illecita condotta.
4. Si verte nell'ipotesi di truffa
quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al
fine di impossessarsi del bene e, quindi,
l'impossessamento sia una conseguenza della condotta
fraudolenta; al contrario, quando gli artifizi o raggiri
vengono posti in essere successivamente, al solo fine di
coprire l'illecito già compiuto, allora si verte nelle
diverse ipotesi di peculato o appropriazione indebita.
5. Applicando gli enunciati
principi di diritto alla concreta fattispecie, è del
tutto evidente che: a) nessuna condotta fraudolenta
venne posta in essere dall'imputato nel momento in cui i
clienti gli conferirono il mandato professionale e gli
pagarono un acconto; b) la condotta fraudolenta venne
posta in essere in un momento successivo e cioè quando i
clienti cominciarono a chiedere conto dell'esito della
causa.
Cassazione, sez. II, 3 maggio 2011,
n. 17106
(Pres. Sirena – Rel. Rago)
Fatto
p.1. Con sentenza del 5/06/2009, la
Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza
pronunciata in data 18/06/2007 con la quale il Tribunale
della medesima città aveva ritenuto A.G. responsabile
dei reati di cui agli artt. 640 e 61 n. 11 - 485 - 380
c.p..
p.2. Avverso la suddetta sentenza,
l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto
ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
p.2.1. Violazione dell'art. 157
c.p. per avere la Corte territoriale erroneamente
ritenuto di far decorrere la prescrizione non dal
momento in cui l'imputato aveva conseguito il profitto
(ossia all'inizio degli anni novanta) ma dal momento in
cui le parti offese, scoperta la truffa, lo avevano
querelato (ossia in data 1/06/2004);
p.2.2. violazione dell'art. 485
c.p. per avere la Corte territoriale attribuito i crismi
di scrittura privata ad un documento sfornito di tale
qualità in quanto il suddetto documento non conteneva
una manifestazione di volontà o l'attestazione della
verità di uno o più fatti, non era conosciuto l'autore e
non era fornito di attitudine probatoria, contenendo
solo un invito a ritirare non meglio specificati mandati
di pagamento.
p.2.3. Violazione dell'art. 380
c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto la
configurabilità del suddetto reato non rilevando,
invece, che, secondo la giurisprudenza maggioritaria,
era necessaria l'instaurazione di un procedimento
innanzi all'autorità giudiziaria, quale elemento
costitutivo: il che non era mai avvenuto. In ogni caso,
il reato avrebbe dovuto essere dichiarato prescritto
perché la data di effettiva consumazione del reato “non
può che coincidere con lo spirare del termine ultimo per
instaurare il procedimento innanzi all'A.G.,
verificatesi certamente oltre dieci anni prima della
sentenza impugnata (cinque anni dal collocamento a
riposo)”.
Diritto
p.3. Nella sentenza impugnata, il
fatto è descritto nei seguenti termini: “le parti
civili, operatori tecnici presso l'Ospedale …, agli
inizi degli anni novanta, ritenendo di avere svolto
mansioni superiori nell'ambito del rapporto di lavoro
con l'Ente, si rivolsero all'avv. A. DR per avviare un
giudizio civile avente ad oggetto il relativo superiore
inquadramento. Detto legale accettava l'incarico e
riceveva da ciascuna parte la somma di lire
settecentomila quale acconto; le parti sottoscrivevano
regolare mandato. Dopo alcuni mesi, l'avvocato D.R.
convocava gli indicati clienti e presentava loro l'avv.
G..A., dicendo che aveva devoluto a questi l'incarico,
provvedendo a girargli gli acconti ricevuti; i clienti
firmavano un nuovo mandato. Il rapporto con i clienti si
protrasse per circa dieci anni, sino a quando,
l'avvocato A., incalzato dai ricorrenti, comunicava loro
che era stata emessa la sentenza e che questa era
favorevole. Di tale presunta sentenza le parti non
avevano per lungo tempo notizia malgrado le continue e
pressanti richieste. A seguito di ulteriori pressioni
dei clienti, l'avvocato A. si indusse ad andare con loro
in Pretura dove, a suo dire, il giudice avrebbe dovuto
emettere l'ordine alla ASL di pagare. L'avvocato non
fece entrare le parti e poco dopo uscì sventolando un
foglio sul quale asseriva esservi l'ordine di pagamento.
Ormai insospettiti, i clienti chiedevano di partecipare
con insistenza personalmente alle successive attività
necessarie alla riscossione, ma invano, perché con vari
stratagemmi e scuse (una bomba nel Tribunale;
impedimenti per motivi di salute etc.) il legale si
sottraeva sempre agli appuntamenti. Per alleggerire la
pressione, essendo ormai trascorsi molti anni, il legale
offriva a ciascuno un acconto di L. 3.500.000 ciascuno a
condizione che gli avessero firmato una carta. I clienti
rifiutavano la proposta. Ulteriori espedienti il legale
poneva in essere per tacitare i propri clienti fissando
un appuntamento presso l'Istituto bancario ove, a suo
dire, avrebbero potuto riscuotere i mandati, sennonché
ancora una volta, l'appuntamento fu disdetto per un
presunto contrattempo. Però la parte lesa V. si informò
dal direttore di banca ed apprese che non vi era alcun
mandato di pagamento. Le richieste da parte dei clienti
diventavano sempre più pressanti per vedere la sentenza.
Vi furono altri appuntamenti andati a vuoto o scuse come
l'assenza della segretaria, fino a quando il legale
esibì un fax presuntivamente proveniente dal San Paolo
Imi con il quale si comunicava che le somme erano state
messe in pagamento il successivo 14 aprile 2004. Le
parti lese pretesero che l'avvocato li accompagnasse
presso il Banco di Napoli sito nel Tribunale a
Castecapuano e, questa volta, mentre erano in fila, il
legale confessava che non vi era alcun mandato, che non
vi era stato alcun giudizio e che anche il fax era
fasullo”.
La querela venne sporta in data
1/6/2004.
p.3.1. Ritiene questa Corte che,
sulla base dei (pacifici) fatti così come descritti
dalla Corte, non sia ravvisabile il reato di truffa per
le ragioni di seguito indicate.
La truffa, quanto all'elemento
materiale, ruota intorno ai seguenti elementi
costitutivi: 1) artifizi o raggiri; 2) ingiusto
profitto; 3) altrui danno.
Questi tre elementi, essendo la
truffa un reato di natura istantanea normalmente vengono
in evidenza contemporaneamente: fanno eccezione alla
suddetta regola le ipotesi in cui l'ingiusto profitto
venga conseguito in un momento successivo agli artifizi
o raggiri (ad es. nel caso in cui gli assegni
fraudolentemente carpiti alla vittima del raggiro
vengano posti all'incasso in un momento successivo: ex
plurimis Cass. 24/01/2002 Riv 226745) o in più momenti
(ad es. nell'ipotesi di danno agli istituti
previdenziali, nel quale caso si parla di reato a
consumazione prolungata o frazionata: ex plurimis Cass.
11026/20% riv 231157).
È incontestabile, però, che gli
artifizi o raggiri debbono essere messi in atto
dall'agente al momento in cui perpetra la truffa ai
danni della vittima proprio perché il suddetto reato è
caratterizzato da una ben precisa modalità ossia
l'elemento fraudolento (artifizi o raggiri) finalizzato
ad indurre in errore la parte lesa, come si desume,
letteralmente dall'art. 640/1 c.p. che esordisce
stabilendo “chiunque, con artifizi o raggiri inducendo
taluno in errore [...]”. Il che significa che, ove
l'agente si impossessi di un bene altrui senza modalità
fraudolente, la truffa non è giuridicamente
configurabile, né può assumere rilievo alcuno la
circostanza che, in un momento successivo, l'agente
faccia ricorso ad artifizi e raggiri finalizzati a
coprire la propria precedente illecita condotta.
Infatti, non a caso, la
giurisprudenza di questa Corte, in modo assolutamente
costante, al fine di differenziare i delitti di peculato
e di appropriazione indebita dalla truffa, ha chiarito
che si verte nell'ipotesi di truffa quando gli artifizi
o raggiri vengono posti in essere al fine di
impossessarsi del bene e, quindi, l'impossessamento sia
una conseguenza della condotta fraudolenta; al
contrario, quando gli artifizi o raggiri vengono posti
in essere successivamente, al solo fine di coprire
l'illecito già compiuto, allora si verte nelle diverse
ipotesi di peculato o appropriazione indebita (ex
plurimis: quanto all'appropriazione indebita: Cass.
740/1970 Rv. 117150 - Cass. 1899/1968 Rv. 109801 - Cass.
1330/1966 Rv. 103332; quanto al peculato: Cass.
2384/1973 Rv. 123658 - Cass. 6753/1997 Rv. 211009 -
Cass. 3039/1989 Rv. 183538 - Cass. 17320/2006 Rv. 234133
- Cass. 35852/2008 Rv. 241186).
Ora, all'imputato è addebitato il
reato di truffa perché: a) incassò a titolo di onorario
somme di denaro dai signori [...]; b) pose in essere
artifizi e raggiri consistiti “nell'avere incontrato più
volte gli stessi al fine di informarli in merito allo
svolgimento ed all'esito della causa avviata sul loro
mandato contro l'ASL Na/X e nell'avergli fatto credere
di avere effettivamente avviato e curato detto
procedimento, al quale egli non aveva mai dato corso”.
Dunque, secondo l'ipotesi
accusatoria, l'ingiusto profitto consistette nell'avere
incassato gli acconti per iniziare la causa che mai
iniziò e gli artifizi e raggiri consistettero nell'aver
tenuto una condotta diretta a tranquillizzare i clienti
che chiedevano conto dell'esito della causa. Sennonché,
applicando gli enunciati principi di diritto alla
concreta fattispecie, è del tutto evidente che: a)
nessuna condotta fraudolenta venne posta in essere
dall'imputato nel momento in cui i clienti gli
conferirono il mandato professionale e gli pagarono un
acconto: sul punto il capo d'imputazione nulla dice e la
stessa Corte tace non evidenziando alcunché; b) la
condotta fraudolenta venne posta in essere in un momento
successivo e cioè quando i clienti cominciarono a
chiedere conto dell'esito della causa. Fu allora,
infatti, che l'imputato, per coprire la grave colpa
professionale in cui era incorso, cominciò a porre in
essere artifizi e raggiri finalizzati a tranquillizzare
i clienti ed a sviarli, cercando così di rinviare
l'inevitabile redde rationem. Ma, è del tutto evidente
che, poiché quella condotta fraudolenta venne posta in
essere non nel momento iniziale e cioè per carpire il
mandato professionale e gli acconti (l'ingiusto profitto
con altrui danno), ma in un momento successivo e fu
finalizzata al solo scopo di celare ai clienti il danno
che era stato loro provocato dalla negligente condotta
(non avere iniziato la causa per la quale era stato
conferito il mandato professionale), non è ipotizzabile
la truffa. Ciò è tanto vero che, come risulta dalla
descrizione del fatto riportato nella sentenza
impugnata, l'imputato, pur di chiudere la questione
offrì a ciascuna delle parti lese la somma di L.
3.500.000. In altri conclusivi termini, la vicenda non
ha alcun risvolto penalistico ma va ritenuta solo come
un episodio di inadempimento contrattuale del quale
l'imputato non può che rispondere solo in sede
civilistica. Pertanto, la sentenza, in ordine al
suddetto reato, va annullata senza rinvio perché il
fatto non sussiste.
p.4. Quanto al reato di cui
all'art. 380 c.p., la Corte territoriale ha ritenuto di
seguire quella parte - minoritaria e risalente - della
giurisprudenza secondo la quale non occorre, per la
configurabilità del suddetto reato, la pendenza di una
causa: “presupposto del reato di infedele patrocinio
(art.380, comma 1, c.p.) è l'esercizio della difesa,
rappresentanza ed assistenza davanti all'autorità
giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di
partecipazione professionale e non come estrinsecazione
effettiva di attività processuale, per cui ad integrare
l'elemento oggettivo del delitto è sufficiente che
l'esercente la professione forense si renda infedele ai
doveri connessi alla accettazione dell'incarico di
difendere taluno dinanzi all'autorità giudiziaria,
indipendentemente dall'attuale svolgimento di
un'attività processuale e finanche dalla pendenza della
lite, giacché il pregiudizio in danno della parte può
concretarsi nella dolosa astensione dalla doverosa
attività processuale”: Cass. 856/2004 Rv. 230877.
Questa Corte, invece, in
considerazione del tenore testuale della citata norma
che individua la condotta materiale punibile nei casi in
cui il patrocinatore arreca nocumento “agli interessi
della parte da lui difesa, assistita o rappresentata
dinanzi all'Autorità Giudiziaria [...]”, ritiene di
adeguarsi alla giurisprudenza maggioritaria, secondo la
quale “per la sussistenza del reato di patrocinio
infedele è necessaria, quale elemento costitutivo del
reato, la pendenza di un procedimento nell'ambito del
quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi
assunti con il mandato, anche se la condotta non deve
necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti
processuali”: Cass. 21160/2009 Rv. 244182 - Cass.
41370/2006 Rv. 235548 - Cass. 6382/2008 Rv. 239436. Di
conseguenza, anche per tale capo, la sentenza impugnata
va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
p.5. Infondata, invece, deve
ritenersi la censura in ordine al reato di cui all'art.
485 c.p. perché, secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte “ai fini della sussistenza del delitto di
cui all'art. 485 c.p., nella nozione di scrittura
privata devono essere ricompresi non solo quegli atti
che contengono dichiarazioni o manifestazioni di volontà
idonee a costituire ovvero modificare diritti e
posizioni oggettive, ma altresì tutte le scritture
formate dal privato che si riferiscono a situazioni da
cui possono derivare effetti giuridicamente rilevanti
per un determinato soggetto”: Cass. 42578/2009 Rv.
244851. E, non vi è dubbio che il documento formato
falsamente dall'imputato e consegnato ad una delle
parti, contenente un preteso ordine di pagamento a loro
favore, integri la fattispecie di cui all'art. 485 c.p.
proprio perché quella scrittura si riferiva ad una
situazione (mandato di pagamento) da cui poteva derivare
un effetto giuridicamente rilevante per le parti.
p.6. In conclusione, essendo
addebitarle all'imputato il solo reato di cui all'art.
485 c.p., gli atti vanno trasmessi ad altra sezione
della Corte di Appello di Napoli per la relativa
determinazione della pena.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata in ordine ai reati di cui agli artt. 640 e 380
c.p. perché i fatti non sussistono rigetta nel resto e
dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della
Corte di Appello di Napoli per la determinazione della
pena in ordine al residuo reato di falsità in scrittura
privata.
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