La violenza richiesta ai fini del
delitto di violenza privata consiste in un'energia
fisica che può esercitarsi sulle persone o sulle cose e
che può essere realizzata con i mezzi più diversi, la
cui idoneità va valutata anche in rapporto alle
condizioni fisio-psichiche del soggetto passivo che si
intende privare della capacità di autodeterminazione
Cassazione, sez. V, 16 giugno 2011,
n. 24395
(Pres. Amato – Rel. Demarchi
Albengo)
Ritenuto in fatto
In parziale riforma della sentenza
di primo grado emessa dal tribunale di Napoli in data 12
marzo 2008, la Corte d'appello di Napoli, con sentenza
del 12 marzo 2010, assolveva A.F. e confermava la
condanna di A.G. per il reato di cui all'articolo 610
del c.p..
Secondo la sentenza di condanna
impugnata, il ricorrente aveva costretto il collega
F..R. a lasciare lo studio professionale associato "M.
A. Commercialisti Associati" con violenza e minacce
consistite: nello scollegare dalla rete il computer di
R.F., impedendogli così di svolgere regolarmente la sua
attività professionale; nel trattenere indebitamente le
chiavi della sua stanza, impedendogli in tal modo
l'accesso alla libera disponibilità di tutta la
documentazione relativa ai suoi clienti, nonché dei suoi
effetti personali; nel rappresentare al R. che avrebbe
ottenuto la consegna delle chiavi della sua stanza solo
se avesse firmato un atto con il quale si disponeva lo
scioglimento dell'associazione professionale nei suoi
confronti.
La Corte ha fondato la sua
decisione sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa,
R.F., e sui riscontri degli altri testimoni in ordine ai
rapporti di contrasto tra gli A. e il R., nonché in
relazione ai due episodi in cui si era manifestata la
violenza sulle cose e cioè: il distacco del computer del
denunciarne della rete e la chiusura della sua stanza;
inoltre, secondo la Corte, i testi riscontravano anche
le dichiarazioni della p.o. in ordine alla disponibilità
degli A. a riconsegnare le chiavi della stanza solo nel
caso che il R. avesse consentito a recedere
dall'associazione.
Contro la sentenza della Corte
d'appello ha proposto ricorso A.G., eccependo la
mancanza di motivazione ed in particolare il
travisamento delle prove e la motivazione apparente,
nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione
risultante dal testo del provvedimento ed infine
violazione di legge penale in relazione all'articolo 610
del codice penale.
Sintetizzando le doglianze
contenute un po' alla rinfusa nella parte motiva, si
rileva che il ricorrente si duole:
1. del travisamento della prova in
relazione all'atteggiamento prevaricatore dei soci di
maggioranza (gli A.) nei confronti del R.;
2. del travisamento della prova in
relazione alla chiusura della porta dello studio del R.:
in particolare, secondo la difesa, l'ordine temporale
degli eventi descritti dal teste M. sarebbe invertito
dalla Corte d'appello; il B. ed il T. affermerebbero che
le chiavi furono consegnate spontaneamente dalla
vittima;
la teste D. affermerebbe che il
teste R. già a giugno poté rientrare nel suo studio; lo
stesso R. avrebbe affermato che a giugno trovò il
cassetto chiuso, così implicitamente riconoscendo che
potè entrare nella sua stanza; il R., sempre secondo la
difesa, avrebbe consegnato le chiavi della sua stanza
per fatti concludenti, cioè recedendo e lasciando la
disponibilità della stanza e del suo contenuto;
3. — del travisamento della
deposizione del teste C., che non viene ritenuto a
discarico dell'imputato, nella parte in cui, sempre
secondo la difesa, smentisce l'impedimento all'accesso
alla camera e al ritiro dei documenti da parte del R.;
4. — Del travisamento della prova
relativa allo scollegamento del computer, in relazione
alle testimonianze di B., T., D. e C.. Illogicità della
motivazione per aver confuso una mera possibilità con
un'alta probabilità:
5. - dell'illogicità della
motivazione per aver ritenuto corroborato l'animus del
colpevole attraverso la prova dell'animus della vittima;
6. — della violazione dell'articolo
610 del codice penale, in relazione alla sussistenza
della violenza e non solo di una situazione di
costrizione. La violenza, secondo la difesa, avrebbe
dovuto essere idonea ad influire psichicamente sulla
vittima, mentre non sarebbe provata, nel caso concreto,
la volontà di indurre la vittima ad un certo
comportamento, che peraltro sarebbe impossibile, in
quanto, a detta della difesa, il recesso si era già
verificato:
7. - della mera apparenza
dell'intero complesso motivazionale in genere. Per tali
motivi il ricorrente chiede l'annullamento della
sentenza impugnata.
Considerato in diritto
Posto che il ricorso contiene quasi
esclusivamente censure relative alla motivazione, va
premesso che, nel controllo di legittimità, la Corte di
cassazione non deve stabilire se la decisione di merito
proponga la migliore possibile ricostruzione dei fatti,
né deve condividerne la giustificazione, ma deve
limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
logica e compatibile con il senso comune; l'illogicità
della motivazione, come vizio denunciabile, dev'essere,
inoltre, percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato
di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze.
In secondo luogo, per la validità della decisione non è
necessario che il giudice di merito sviluppi nella
motivazione la specifica ed esplicita confutazione della
tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente, per
escludere la ricorrenza del vizio di motivazione, che la
sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che
conduca alla reiezione anche implicita della deduzione
difensiva e senza lasciare spazio ad una valida
alternativa (cfr. Cassazione penale, sez. II, 05 maggio
2009, n. 24847). Dunque non è possibile per questa Corte
procedere ad una ricostruzione alternativa dei fatti,
sovrapponendo a quella compiuta dai giudici di merito
una diversa valutazione del materiale istruttorio.
Ciò premesso, molto sinteticamente
si rileva, con riferimento agli asseriti vizi di
motivazione, che la sentenza della Corte d'Appello di
Napoli risulta motivata in modo approfondito, con esame
di tutti gli elementi costitutivi del reato e con
valutazione congrua degli elementi istruttori.
Quanto all'asserito travisamento
della prova in relazione all'atteggiamento prevaricatore
dei soci di maggioranza (gli A.) nei confronti del R.,
la censura non coglie nel segno, giacché l'esistenza di
elementi di segno contrastante non rende di per se
stessa contraddittoria o illogica la motivazione, se la
stessa - come inevitabile - da prevalenza ad alcuni
elementi rispetto ad altri, indicandone i motivi. Sulla
supremazia degli A. e sul loro atteggiamento
prevaricatore, peraltro, risultano talmente tante
testimonianze che anche nel merito, non si capisce come
la circostanza possa essere oggetto di dubbio.
Anche sulla chiusura della porta
dello studio del R., da parte dell'imputato, non paiono
esservi seri dubbi, data la univocità delle deposizioni
non solo della parte lesa, ma anche degli altri testi
esaminati in dibattimento. Né si deve dimenticare che
non si ha travisamento per il solo fatto che esistono
elementi di prova di segno opposto a quelli ritenuti dal
giudice di merito, posto che la scelta di quest'ultimo
in ordine a specifiche situazioni emergenti dal
processo, tra di loro in tutto o in parte di segno
diverso, non è censurabile in sede di legittimità,
essendo tale attività di scelta la manifestazione più
tipica di quella "discrezionalità vincolata" propria del
giudizio di merito (cfr. Cassazione penale, sez. un., 18
febbraio 1988).
Il travisamento della prova,
comunque, richiede che un dato di essa sia stato letto
da parte del giudice di merito in modo tale da condurre
all'affermazione dell'esistenza di una specifica
circostanza oggettivamente esclusa dal risultato
probatorio o alla negazione della sussistenza di una
circostanza sicuramente risultante dalla prova. Deve
trattarsi, quindi, di un errore che inquini la trama
motivazionale dell'intero provvedimento stravolgendola
al punto di disarticolarla, con la conseguenza di
rendere "ictu oculi" errato il risultato decisorio
raggiunto su un punto rilevante e perciò decisivo ai
fini della decisione. Solo in tal caso, e sempre che
dell'errore il ricorrente abbia fatto una precisa e
specifica individuazione tra gli atti del processo,
indicando alla Corte, con assoluto rigore, la sua
precisa collocazione "topografica", è possibile al
giudice di legittimità esaminare quell'atto e procedere
all'annullamento della sentenza, ove sia rilevata
l'esattezza della deduzione del ricorrente (Cassazione
penale, sez. VI, 13 marzo 2009, n. 26149). Quanto
premesso consente a questa Corte di affermare la piena
legittimità, sotto il profilo della motivazione, della
sentenza impugnata; pur senza addentrarsi nell'esame
delle prove, è sufficiente dare una veloce scorsa ai
verbali di causa, per comprendere come le censure
contenute nel ricorso siano fondate su singoli pezzi
della deposizione, estrapolati dal contesto e
reinterpretati a tutto comodo della difesa, essendo
evidente in una valutazione complessiva e coerente del
materiale istruttorio che al R. fu impedito di accedere
alla propria stanza, di utilizzare il proprio computer,
di accedere alla rete dello studio (e non certamente per
problemi di sicurezza, che non erano certo mutati a quel
momento) e financo di ritirare i propri effetti
personali; il ruolo del C. fu appunto quello di tentare
una pacificazione tra le parti, ma la sua deposizione è
chiara nell'affermare che l'accordo non fu mai raggiunto
e che l'offerta al R. di accedere alla propria stanza fu
sempre condizionata alla sottoscrizione dell'accordo che
prevedeva il suo recesso volontario ed unilaterale
dall'associazione professionale. Anche sul dolo non è
dubbio che le condotte dell'imputato furono volontarie e
finalizzate ad ottenere, mediante coartazione della
volontà del R., il suo recesso. Quanto, infine, alla
asserita violazione dell'articolo 610 del codice penale,
in relazione alla sussistenza di una violenza idonea ad
influire psichicamente sulla vittima, vale la pena di
rilevare che la violenza richiesta ai fini del delitto
di violenza privata consiste in un'energia fisica che
può esercitarsi sulle persone o sulle cose e che può
essere realizzata con i mezzi più diversi, la cui
idoneità va valutata anche in rapporto alle condizioni
fisio-psichiche del soggetto passivo che si intende
privare della capacità di autodeterminazione (cfr.
Cassazione penale, sez. 1,19 gennaio 1990). Nel caso di
specie il R. fu privato della possibilità di proseguire
efficacemente nella sua attività lavorativa, con ciò
determinando in lui una costrizione psicologica non solo
ingiusta e odiosa, ma altresì difficilmente
contrastabile. Anche su questo punto, peraltro, la
sentenza impugnata ha correttamente motivato, con
argomenti assolutamente condivisibili (cfr. pag. 7).
Al rigetto del ricorso consegue la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento, nonché alla rifusione delle spese
sostenute dalla parte civile, liquidate come da
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alle spese processuali ed a
quelle sostenute dalla parte civile che liquida in
complessivi Euro 2000, oltre accessori come per legge.
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