1. L’inadempimento del
professionista (consistente anche nell'errore o
omissione di diagnosi) in relazione alla propria
obbligazione, e la conseguente responsabilità dell'ente
presso il quale egli presta la propria opera, deve
essere valutato alla stregua del dovere di diligenza
particolarmente qualificato inerente lo svolgimento
della sua attività professionale; sicché è configurabile
un nesso causale tra il suo comportamento, anche
omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente
qualora, attraverso un criterio necessariamente
probabilistico, si ritenga che l'opera del
professionista, se correttamente e prontamente svolta,
avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di
evitare il danno verificatosi
2. Ai fini della causalità
materiale la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in
applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt.
40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare
causato da un altro se, ferme restando le altre
condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua
non)., mentre ad un secondo momento va riferita la
regola dell'art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento
deve comprendere le perdite "che siano conseguenza
immediata e diretta" del fatto lesivo (c.d. causalità
giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la
norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla
determinazione del quantum del risarcimento,
selezionando le conseguenze dannose risarcibili.
3. Il rigore del principio
dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p.,
in base al quale, se la produzione di un evento dannoso
è riferibile a più azioni od omissioni, deve
riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova
il suo temperamento nel principio di causalità
efficiente, desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in
base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta,
solo se questa condotta risulti tale da rendere
irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di
fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto.
4. Nel contempo non è sufficiente
tale relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle
serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento
causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si
presentino come effetto non del tutto imprevedibile,
secondo il principio della c.d. causalità adeguata o
quella similare della c.d. regolarità causale
Cassazione, sez. III, 14 giugno
2011, n. 12961
(Pres. Preden – Rel. Segreto)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il
18 gennaio 2001 la sig.ra G.M. esponeva di essere stata
sottoposta in data …, presso l'Istituto Clinico
(omissis), ad un intervento chirurgico di lobectomia
sinistra a seguito di alcuni accertamenti da cui era
emersa una calcolosi della intraepatica di sinistra; che
in data (omissis), presso la medesima struttura, era
stato eseguito un esame istopatologico, il cui referto,
a firma del prof. Ro.Ma., non indicava l'eventualità di
una patologia tumorale; che peraltro successivi
accertamenti il (omissis) avevano individuato la
presenza di metastasi ed avevano portato a riconoscere
nei medesimi reperti istologici un cistadenocarcinoma
epatico e comunque la presenza di "atipie cellulari
suggestive di malignità". L'attrice lamentava che dal
grave errore diagnostico compiuto presso l’Istituto
(omissis) era derivata la mancata identificazione della
neoplasia e di conseguenza la mancata adozione di
provvedimenti specifici terapeutici, con miglioramento
della qualità e della durata della vita e rallentamento
della malattia. La sig.ra G.M. conveniva in giudizio
l'Istituto Clinico (omissis) e il prof. Ma.Ro. per
ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti
i danni (patrimoniali, morali e a carattere biologico)
subiti in conseguenza, del dedotto errore diagnostico,
oltre interessi e rivalutazione monetaria.
I convenuti si costituivano ed il
prof. Ro. chiedeva inoltre, e otteneva, di chiamare in
giudizio la Dott.ssa B.M.P., sul rilievo che era stata
quest'ultima ad eseguire l'esame istologico.
Deceduta l'attrice, intervenivano
nel giudizio il marito e i figli, R.G., D. e L., i
quali, con memoria ex art 183 c.p.c., estendevano alla
terza chiamata Dott.ssa B., che chiedeva anche il
rigetto o l'inammissibilità della chiamata. Veniva
disposta nel giudizio di appello una nuova c.t.u.
collegiale, affidata, a specialisti in medicina legale e
in anatomia patologica. Con sentenza del tribunale di
Milano del 10.5.2005 il tribunale dichiarava
l'estinzione del giudizio tra R.D. e L. , contro i
convenuti per l'avvenuto trasferimento dell'azione in
sede penale, e nel merito rigettava la domanda nei
confronti di G..R. . Questi proponeva appello davanti
alla corte territoriale di Milano.
Resisteva la L..B. , che proponeva
anche appello incidentale. Con sentenza depositata il
27.11.2008, la corte di appello di Milano, rigettava gli
appelli.
Riteneva la corte di merito, quanto
all'appello principale, che esse andava rigettato,
poiché all'esito della seconda consulenza tecnica
collegiale, disposta in appello, ed in conformità della
risultanze della prima consulenza e di quella resa in
sede penale, era emerso che non sussisteva alcun nesso
causale tra l'errore istopatologico effettuato dalla
chiamata B. e l'evento dannoso, nel senso che, ove pure
fosse stato tempestivamente nel gennaio 1998 effettuata
una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in
questo senso, l'intervento chirurgico non sarebbe stato
diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia
epatica sinistra radicale) né avrebbe dovuto avere, una
maggiore capacità demolitoria; che allo stesso modo, non
ne sarebbe seguita l'indicazione di alcun trattamento
radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel
particolare tipo di neoplasia; che era certo, tuttavia,
che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe
significativamente evoluta in melius e ciò a fronte
della severità della patologia neoplastica
(colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità
terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia
al momento della sua insorgenza (al di là della opzione
chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in
caso di comparsa di recidiva metastatica. Ritiene la
sentenza di appello, aderendo alle conclusioni della
c.t.u., che la condotta dei sanitari, oggetto del
presente giudizio, deve "essere ritenuta indifferente
sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto
all'invalidità ed alla successiva morte di M.G.".
Avverso questa sentenza ha proposto
ricorso per cassazione R.G..
Resiste con controricorso la dr.sa
P.B., che ha proposto anche ricorso incidentale, al
quale ha resistito il ricorrente con controricorso. La
B. ed il R.G. hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso
il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 n. 3
c.p.c., l'inosservanza e l'erronea applicazione degli
artt. 1218, 1321, 1382, 1453, 1460 e 2697 c.c., nonché
ai sensi dell'art. 360 n. 5, la mancanza e
contraddittorietà di motivazione su punti decisivi della
controversia, in ordine alle responsabilità di natura
contrattuale dedotte con l'azione svolta attraverso
l'allegazione dell'inadempimento ad esse correlate. Tale
motivo si conclude con il seguente quesito, a norma
dell'art. 366 bis c.p.c.: "dica la corte: se risulti
applicato al caso di specie l'insegnamento di codesta
S.C. a S.U., del quale alla sentenza n. 13533/2001, in
tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione,
secondo cui il creditore che agisca per il risarcimento
del danno deve soltanto provare la fonte (negoziale o
legale) del suo diritto ed il relativo termine di
scadenza, limitandosi alla mera allegazione della
circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre
il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova
del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito
dall'avvenuto adempimento, talché il creditore non ha
onere di dimostrazione che adempimento non vi sia stato,
essendo sufficiente che egli si limiti a tale
allegazione, in applicazione del principio della
riferibilità o vicinanza della prova, talché essa resti
caricata, in capo al soggetto nella cui sfera è prodotto
l'inadempimento e che è quindi in possesso degli
elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore
stesso, dimostrando eventualmente l'avvenuto
adempimento: tanto anche in quanto dedotto l'inesatto
adempimento, sia per mancata osservanza di doveri
accessori o dell'obbligo di diligenza".
2.1.Ritiene questa Corte che il
suddetto motivo è inammissibile. Quanto alla censura
proposta ex art. 360 n. 3 c.p.c., il motivo non presenta
un quesito di diritto adeguato al disposto di cui
all'art. 366 bis, applicabile ratione temporis al
ricorso in esame.
Nella elaborazione dei canoni di
redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di
questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a
ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun
motivo di ricorso deve consentire l'individuazione del
principio di diritto che è alla base del provvedimento
impugnato e, correlativamente, del diverso principio la
cui auspicata applicazione ad opera della Corte di
Cassazione possa condurre ad una decisione di segno
diverso: ove tale articolazione logico - giuridica
mancasse, il quesito si risolverebbe in un' astratta
petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il
nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che
si chiede venga affermato, sia ad agevolare la
successiva enunciazione di tale principio ad opera della
Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può
pertanto consistere in una mera richiesta di
accoglimento del motivo o nell'interpello della Corte in
ordine alla fondatezza della censura così come
illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma
deve costituire la chiave di lettura delle ragioni
esposte e porre la medesima Corte in condizione di
rispondere ad esso con l'enunciazione di una regula
iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere
applicazione in casi ulteriori rispetto a quello
sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di
legittimità deve poter comprendere dalla lettura del
solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della
questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto
dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del
ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n.
3519/2008). Nella fattispecie con il quesito suddetto il
ricorrente si è limitato a richiedere se nella
fattispecie la corte di merito avesse applicato il
principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n.
13533/2001.
2.2.Quanto alla doglianza relativa
al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la
sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato
un errore istopatologico presso l'Istituto (omissis) e,
quindi sotto questo profilo non pone in dubbio
l'inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto
accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato
dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla
prova dell'inadempimento, poiché la domanda non è stata
rigettata per l'esatto adempimento l'obbligazione
sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente,
essa era eziologicamente "indifferente" in relazione al
danno subito.
3. Con il secondo motivo di ricorso
il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 360 n. 3
c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt.
40, 41 589 c.p.c., e dell'art. 2236 c.c., nonché ai
sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112,
116 c.p.c., nonché ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c.,
il vizio di motivazione relativamente all'esclusione del
rapporto causale tra la condotta dell'imputata B. e
l'aggravamento della malattia a carico della G. .
Segnatamente il ricorrente lamenta
che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto
con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che
nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra
l'errore nella diagnosi istopatologica della B. e
l'evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata
tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito
dell'intervento non si fosse adottata la teoria
attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò
avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto
meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un
miglioramento della stessa nella fase terminale; che
tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio
"del più probabile che non"; che il secondo intervento
fu effettuato quando ormai la G. era completamente
defedata; che, in presenza di dette cure
chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca
significativamente posteriore; che l'omessa corretta
diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della
perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni
mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente
vissuti.
4.1. Il motivo è infondato.
Non risultano anzitutto violate le
norme di diritto, a cui si riporta il ricorrente.
Va poi premesso che, anche in tema
di risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento,
non è l'inadempimento in sé che è oggetto di
risarcimento, ma il danno conseguente.
Ciò comporta che deve essere in
concreto fornita la dimostrazione dell'esistenza del
pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale
dall'inadempimento (Cass. 20/11/2007, n. 24140 Cass.
15/05/2007, n. 11189; Cass. 10/01/2007, n. 238; Cass.
04/07/2006, n. 15274).
4.2. Mentre sul creditore della
prestazione non grava l'onere della prova
dell'inadempimento, dovendo il debitore provare - a
fronte dell'allegazione di inadempimento del creditore -
che egli ha esattamente adempiuto, giusto quanto si
ricava dalla struttura dell'art. 1453 c.c. (Cass. S.u.
n. 13533/2001), invece la prova del danno lamentato e
del nesso causale tra lo stesso e l'inadempimento, così
allegato, grava sull'attore secondo i principi generali
di cui all'art. 2697 c.c..
4.3. L’inadempimento del
professionista (consistente anche nell'errore o
omissione di diagnosi) in relazione alla propria
obbligazione, e la conseguente responsabilità dell'ente
presso il quale egli presta la propria opera, deve
essere valutato alla stregua del dovere di diligenza
particolarmente qualificato inerente lo svolgimento
della sua attività professionale; sicché è configurabile
un nesso causale tra il suo comportamento, anche
omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente
qualora, attraverso un criterio necessariamente
probabilistico, si ritenga che l'opera del
professionista, se correttamente e prontamente svolta,
avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di
evitare il danno verificatosi (Cass. 23/09/2004, n.
19133).
Nella fattispecie la sentenza
impugnata ha ritenuto che era accertato l'inadempimento
dell'Istituto … costituito dall'errore istopatologico, e
quindi della mancata diagnosi della neoplasia alle vie
biliari, ma ha escluso che questo errore avesse
determinato - sia pure in termini probabilistici - un
danno alla paziente, nel senso che lo sviluppo
neoplastico che ella subì ed il successivo exitus non
furono influenzati, neppure nella durata della residua
vita o nella qualità degradata della stessa, dalla
mancata diagnosi precoce della malattia tumorale.
5.1. Per giungere a questa
conclusione la corte di merito ha correttamente
applicato i principi in tema di nesso causale da
condotta omissiva, fissati da questa Corte.
Infatti l'inadempimento ascritto ai
convenuti è di carattere omissivo, in quanto consiste
nel non avere fornito alla paziente una diagnosi di
neoplasia delle vie biliari (integrante appunto la
diagnosi esatta).
Ai fini della causalità materiale
la giurisprudenza (Cass. Sez. Unite, 11/01/2008, n. 581,
576 ed altre) e la dottrina prevalenti, in applicazione
dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41
c.p., ritengono che un evento è da considerare causato
da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il
primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo
(c.d. teoria della condicio sine qua non)., mentre ad un
secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223
c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le
perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del
fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui
esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso
causale e non piuttosto alla determinazione del quantum
del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose
risarcibili.
Il rigore del principio
dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p.,
in base al quale, se la produzione di un evento dannoso
è riferibile a più azioni od omissioni, deve
riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova
il suo temperamento nel principio di causalità
efficiente, desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in
base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta,
solo se questa condotta risulti tale da rendere
irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di
fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass.
8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass.
15.1.1996, n. 268).
Nel contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle
serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento
causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si
presentino come effetto non del tutto imprevedibile,
secondo il principio della c.d. causalità adeguata o
quella similare della c.d. regolarità causale (ex
multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n.
15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n.
17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).
5.2.Nel danno da inadempimento
omissivo il giudizio causale assume come termine
iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto
(Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass.
n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789).
La causalità è tuttavia accertabile
attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata,
ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini
non può riconoscersi la responsabilità per omissione
quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato
tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento
prospettato: la responsabilità non sorge non perché non
vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione
di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento
antigiuridico e nella responsabilità contrattuale
l'inadempimento è comportamento antigiuridico), ma
perché quell'omissione non è causa del danno lamentato.
5.3.11 Giudice pertanto è tenuto ad
accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione
(causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe
verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse
posto in essere la condotta doverosa impostagli, con
esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del
rapporto di causalità ipotetica passa attraverso
l'enunciato "controfattuale" che pone al posto
dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde
verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il
danno lamentato dal danneggiato.
5.4.Essendo questi i principi che
regolano il procedimento logico - giuridico ai fini
della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta
sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è
la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola
della prova “oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass.
Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre
nel secondo vige la regola della preponderanza
dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la
diversità dei valori in gioco nel processo penale tra
accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel
processo civile tra le due parti contendenti, come
rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità
di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti
occidentali, con la predetta differenza tra processo
civile e penale (in questo senso Cass. 16.10.2007, n.
21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; 11/05/2009, n. 10741;
Cass. 22837 del 2010; Cass. 16123 del 2010).
Detto standard di "certezza
probabilistica" in materia civile non può essere
ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa
- statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d.
probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe
anche mancare o essere inconferente, ma va verificato
riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli
elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di
altri possibili alternativi) disponibili in relazione al
caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).
Nello schema generale della probabilità come relazione
logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla
base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence
and inference nei sistemi anglosassoni).
Nella fattispecie la sentenza
impugnata si è conformata a detti principi.
5.5.Sulla base di accertamenti
fattuali (sulla correttezza della cui motivazione ai
sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., si vedrà
successivamente) ha ritenuto accertato in punto di fatto
che l'inadempimento ascritto, (mancata diagnosi
istologica di neoplasia, a seguito dell'intervento
effettuato di lobectomia sinistra) non avrebbe né
evitato l'exitus finale né avrebbe prolungato
apprezzabilmente la vita della sig.ra G. né la stessa
sarebbe significativamente evoluta in melius. Pertanto,
avendo la corte ritenuto che un'eventuale prognosi più
precoce non avrebbe favorito un approccio terapeutico
più efficace né avrebbe migliorato la qualità e la
durata della vita della paziente, con giudizio contro
fattuale ha escluso anche in termini di prevalenza di
probabilità che i danni lamentati dai ricorrenti fossero
conseguenza della mancata tempestiva e corretta diagnosi
tumorale da errore istologico e che essi si sarebbero in
ogni caso verificati, trovando causa esclusiva nella
malattia neoplastica.
6.1.Ciò comporta che vanno
rigettate le censure di violazione di legge avanzate dal
ricorrente.
Diverso problema è quello relativo
all'esattezza, sotto il profilo motivazionale, di tale
ricostruzione fattuale. Questo costituisce il nucleo
centrale del ricorso del ricorrente principale il quale
appunto lamenta che erroneamente i consulenti prima e la
corte concludono che una diagnosi precoce della
neoplasia, ed eventualmente una terapia chemioterapia,
non avrebbe allungato e migliorato la vita della
paziente, pur nell'inevitabilità dell'esito infausto.
6.2.Sennonché tanto integra una
censura di vizio motivazionale della sentenza impugnata,
pur fatta valere con il secondo motivo di ricorso.
Essa, tuttavia, può avere ingresso
in questa sede di sindacato di legittimità negli stretti
limiti di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. Sotto questo
profilo non vi sono elementi per ritenere che la
motivazione della sentenza impugnata sia apparente (o
mancante), insufficiente o contraddittoria.
Va, anzitutto, osservato che la
sentenza impugnata è giunta alla conclusione di dover
rigettare l'appello (e quindi confermare il rigetto
della domanda) per mancanza di nesso causale tra la
suddetta condotta omissiva ascrivibile ai convenuti e
l'evento, sulla base della consulenza collegiale di
secondo grado (uno dei consulenti svolgeva la sua
attività presso l'Istituto nazionale dei Tumori di
Milano e l'altro presso Istituto di Medicina legale di
Milano), conforme sul punto a quella di primo grado ed
alle conclusioni cui erano giunti i consulenti del P.M.
in sede penale nel procedimento per omicidio colposo a
carico della appellata P..B. .
I consulenti in sede civile avevano
accertato che, ove pure fosse stata nel gennaio 1998
effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto
diagnostico in questo senso, l'intervento chirurgico non
sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad
una lobectomia epatica sinistra radicale) ne avrebbe
dovuto avere una maggiore capacità demolitoria; allo
stesso modo non ne sarebbe seguita l'indicazione di
alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non
indicati nel particolare tipo di neoplasia. E, pur
concedendosi dai consulenti che, in ipotesi di diagnosi
tempestiva, la paziente sarebbe stata sottoposta ad uno
stretto regime di follow-up, onde diagnosticare
precocemente eventuali recidive, e pur non potendosi
escludere la possibilità che la diagnosi di recidiva
neoplastica venisse raggiunta con un certo anticipo
(anche se gli stessi consulenti tecnici d'ufficio hanno
fatto rilevare, in proposito, come ancora - nell'aprile
2000 - sia i marcatori tumorali che la TAC preoperatoria
non fossero ancora affatto suggestivi in tal senso ed
una diagnosi certa venisse conseguita solo in sede
chirurgica), è certo, tuttavia, che la prognosi quoad
vitam della paziente non sarebbe significativamente
evoluta in melius e ciò a fronte della severità della
patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della
carenza di opportunità terapeutiche sicuramente
efficaci, sia verso la malattia al momento della sua
insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque
adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di
recidiva metastatica.
6.3.Lei corte di merito ha
condiviso le conclusioni dei c.t.u. in merito
all'irrilevanza di eseguire un trattamento
chemioterapico post-chirurgico in luogo di quella di
follow-up, osservando anche che: a)Presso l'Istituto
Nazionale dei Tumori la chemioterapia viene prescritta
nei pazienti operati radicalmente "soltanto se essi
vengono giudicati ad alto rischio di recidiva, cioè
quando presentano fattori prognostici oggettivi, che
però, nel caso in discussione, la paziente non possedeva
posto che in sede di intervento i linfonodi
locoregionali venivano descritti come normali; che in
nessuna delle varie revisioni istologiche veniva
rilevata invasione vascolare o linfatica; che i
marcatori tumorali non presentavano valori elevati.
b) Non può ammettersi che "una
eventuale diagnosi più precoce avrebbe favorito un
approccio terapeutico più efficace" e, soprattutto, non
può ammettersi, che quest'ultimo avrebbe migliorato la
qualità e la durata della vita della paziente". c) La
condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio,
doveva "essere ritenuta indifferente sotto il profilo
del rapporto di causalità rispetto all'invalidità ed
alla successiva morte di M..G. ".
Ne consegue che nella fattispecie
non presenta i lamentati vizi di motivazione l'impugnata
sentenza che ha aderito alle conclusioni dei C.T.U. di
secondo grado, che hanno ribadito quanto accertato dai
consulenti di primo grado e del p.m. in sede penale. A
tal fine, ed in relazione alle critiche riformulate dal
ricorrente nel ricorso al percorso argomentativo dei
consulenti prima e della sentenza poi, va ribadito il
principio secondo cui il giudice del merito, quando
aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che
nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei
rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo
della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo
convincimento; non è quindi necessario che egli si
soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di
fiducia che, anche se non espressamente confutate,
restano implicitamente disattese perché incompatibili
con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che
tendano al riesame degli elementi di giudizio già
valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal
caso in mere allegazioni difensive, che non possono
configurare il vizio di motivazione previsto dall'art.
360 n. 5 c.p.c. (Cass. 03/04/2007, n. 8355). Nella
fattispecie la seconda consulenza è stata disposta in
sede di appello proprio perché tenesse conto delle varie
critiche alla consulenza di primo grado svolte dai c.t.
di parte e dallo stesso appellante.
7.1. Infondata è anche la censura
con cui il ricorrente lamenta che non sia stata valutato
il danno sotto il profilo di perdita di chance, come
possibilità che la vita fosse allungata e migliorata in
presenza della chemioterapia.
Va condiviso il principio già
affermato da questa corte, secondo cui in tema di danno
alla persona, conseguente a responsabilità medica,
integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona
l'omissione della diagnosi di un processo morboso
terminale, allorché abbia determinato la tardiva
esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente
sia da praticare per evitare che l'esito definitivo del
processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo
normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del
ritardo, sia andata perduta dal paziente la "chance" di
conservare, durante quel decorso, una migliore qualità
della vita nonché la "chance" di vivere alcune settimane
od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi
effettivamente vissuti (Cass. 18/09/2008, n. 23846).
Ciò comporta che, quando sia stata
fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di
calcolo probabilistico, dell'esistenza di una chance di
consecuzione di un vantaggio in relazione ad una
determinata situazione giuridica, la perdita di tale
chance è risarcibile come danno alla situazione
giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla
dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance
avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la
consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la
sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della
chance a determinare presuntivamente o probabilmente
ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è,
viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta
individuazione e quantificazione del danno, da
effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che
nel primo caso il valore della chance è certamente
maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la
sua perdita, che, del resto, in presenza di una
possibilità potrà anche essere escluso, all'esito di una
valutazione in concreto della prossimità della chance
rispetto alla consecuzione del risultato e della sua
idoneità ad assicurarla.
7.2. Nella fattispecie la questione
in termini di perdita di chance, inteso come risultato
utile possibile, va ritenuta non affetta da
inammissibilità, conseguente alla novità della stessa in
questa sede di legittimità.
Infatti può superarsi la tesi
secondo cui esito positivo probabile e possibilità di
tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie
diverse ed accedere ad un risultato per cui probabilità
di esito favorevole dell'intervento medico e la sua sola
possibilità non siano che gradazioni di una stessa
affermazione di pregiudizio, risentito a causa
dell'omissione colposa del comportamento dovuto.
Ciò comporta optare, nelle
situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma
anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per
una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica
risarcitoria della chance e quindi nel senso di
distribuire il peso del danno tra le parti in misura
proporzionale all'apporto causale della colpa e dei
fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass.
16.1.2009, n. 975).
Ritenuta la richiesta del
risarcimento del danno da perdita di chance come
riduzione dell'originaria domanda di risarcimento
dell'intero pregiudizio assunto, da una parte essa non
determina una mutatio libelli e dall'altra tale
riduzione può essere effettuata direttamente anche dal
giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della
parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n.
4003).
7.2.Sennonché nella fattispecie la
corte ha escluso sulla base delle conclusioni dei vari
consulenti tecnici, che la tempestiva diagnosi tumorale
abbia comportato con l'apprestamento di una terapia
diversa da quella del follow-up e segnatamente quella
chemioterapica, la possibilità per la sig.ra G. di avere
un qualche miglioramento apprezzabile di durata o
qualità della vita. Con ciò è esclusa in fatto
l'avvenuta perdita di chance.
8. Con il terzo motivo di ricorso
il ricorrente lamenta ai sensi dell'art. 360 n. 5
c.p.c., la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116
c.p.c., per omessa motivazione sul punto relativo
all'esclusione della colpa nella condotta del medico.
9. Il motivo è inammissibile.
Infatti la domanda (e quindi
l'appello) è stato rigettato per mancanza di nesso
causale tra la condotta omissiva e l'evento e non per
difetto dell'elemento psicologico colposo dalla dr. B.P.
, nell'esecuzione dell'esame e diagnosi istologica. La
consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti,
statuito che la proposizione, con il ricorso per
cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al
"decisum" della sentenza impugnata è assimilabile alla
mancata enunciazione dei motivi richiesti dall'art. 366
c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del
ricorso, rilevabile anche d'ufficio (ex multis, Cass.
07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass.
23/05/2001, n. 7C46). L'inconferenza del motivo comporta
che l'eventuale accoglimento della censura risulta
comunque privo di rilevanza nella fattispecie, in quanto
inidoneo a risolvere la questione decisa con la sentenza
impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n.11650).
10. Con il ricorso incidentale la
ricorrente P..B. lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 116, 106, 167, 269 c.p.c. e la
tardività ed inammissibilità dell'estensione del
contraddittorio da parte degli eredi dell'attrice nei
confronti della chiamata dr. B. .
Secondo la ricorrente incidentale
nel caso in cui il convenuto chiami in causa un terzo
(come nella fattispecie è avvenuto nei suoi riguardi),
senza domandare direttamente la condanna di questi nei
confronti dell'attore, tale domanda può essere
qualificata di garanzia impropria, per cui l'estensione
del contraddittorio che l'attore faccia per provocare la
condanna del terzo direttamente nei suoi confronti nella
memoria ex art. 183 c.p.c., va considerata tardiva.
11. Il motivo è infondato.
Allorquando — come nella specie —
il convenuto chiami in causa un terzo, assumendo che
questi, e non lui, è il soggetto tenuto a rispondere
della pretesa dell'attore, la domanda di quest'ultimo,
amene in mancanza di espressa istanza, si intende
automaticamente estesa al terzo in quanto si tratta di
individuare il vero responsabile, nel quadro di un
rapporto oggettivamente unico; con l'effetto del
determinarsi di un ampliamento della controversia
originaria, sia in senso oggettivo - perché la nuova
obbligazione dedotta dal convenuto viene ad inserirsi
nel tema della controversia, in via alternativa con
quella che l'attore ha assunto a caricò del convenuto —
sia in senso soggettivo, perché il terzo chiamato in
causa diventa un'altra parte di quella controversia e
viene a trovarsi con il convenuto in una situazione
tipica di litisconsorzio alternativo (cfr. ex plurimis,
Cass. 14.3.2008, n. 6883; 21.3. 2003, n. 4145).
12. I ricorsi vanno pertanto
rigettati. Stante la reciproca soccombenza va disposta
la compensazione delle spese processuali di entrambe le
difese.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta.
Compensa le spese del giudizio ci cassazione.
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