(Pres. Amato – Rel. Fumo)
Rilevato in fatto
Il PG presso la Corte di appello di
Roma ricorre per cassazione avverso lo sentenza in
epigrafe indicata con lo quale S. R. è stato
riconosciuto colpevole del delitto di diffamazione in
ragione del contenuto denigratorio -nei confronti
dell'avv. A. A. - di una lettera da lui inviata al
Presidente del Consiglio dell'ordine degli avvocati di
Roma.
Deduce violazione di legge,atteso
che a missiva era diretta a una sola persona e il
mittente non è responsabile dell'ulteriore diffusione
del contenuto della stessa ad opera del destinatario.
Mancando dunque il requisito dello comunicazione con più
persone, il reato ex art 595 c.p. non resta integrato.
E' stato depositata memoria del
difensore del S., con lo quale si manifesta adesione
alle censure formulate dal ricorrente PG e si assume,
oltretutto, la natura non offensiva della comunicazione
e, subordinatamente, si invoca l'esercizio del diritto
di critica.
E' stato depositata anche memoria
dello PC, con lo quale si contrastano le argomentazioni
dell'impugnate PG e si cita giurisprudenza contraria a
quello richiamata dal ricorrente.
Considerato in diritto
Questa Sezione, con riferimento al
tema oggetto del ricorso, ha assunto decisioni
contrastanti.
La "corrente" giurisprudenziale cui
si rifà il ricorrente PG (ASN 20A919396-RV 243606) ha
sostenuto che non integra il delitto di diffamazione la
condotta di colui che invii uno lettera al Presidente
dell'ordine degli avvocati, contenente espressioni
offensive, nonché la segnalazione di comportamenti
deontologicamente scorretti tenuti dal proprio
difensore, trattandosi di un reclamo diretto
personalmente al titolare di un organo e mancando,
pertanto ,l'elemento dello comunicazione con più
persone, che, d'altro canto, non può ritenersi
sussistente ove tale comunicazione sia avvenuta per
esclusiva iniziativa del destinatario, considerato che
la tutela richiesta all'autorità non comporta
necessariamente la diffusione della doglianza
nell'ambito di una prevedibile procedura disciplinare e
che, comunque, di tale evento, non può rispondere colui
che si rivolge all'autorità, collegando la comunicazione
con più persone ad una sua imprudente condotta, non
essendo prevista l'ipotesi colposa della diffamazione.
La pronunzia sopra riportata giunge
-forse in maniera non rettilinea- a conclusione di un
iter di elaborazione giurisprudenziale, che aveva
centrato la sua attenzione sulla problematica relativa
alla ipotizzabilità del delitto di diffamazione, quando
la notizia "sfavorevole" sia propagata mediante una
missiva, indirizzata a una sola persona.
Si era, invero, già in precedenza
(ASN I99907551-RV 231780) stabilito che il requisito
della comunicazione con più persone non sussiste qualora
la propalazione dell'offesa, contenuta in una lettera
diretta a un determinato soggetto, non sia voluta
dall'agente, ma sia dovuta alla esclusiva iniziativa del
destinatario (trattavasi, anche in quel caso, di una
lettera indirizzata al Presidente del Consiglio
dell'ordine degli avvocati, contenente richiesta di
azione disciplinare per pretese violazioni
deontologiche)" Ma, nel caso allora in esame, la natura
offensiva degli addebiti era desumibile solo a seguito
della lettura degli allegati alla lettera stessa,
recante, per altro, la scritta "riservata - personale" e
recante, inoltre, la richiesta di ottenere, direttamente
dal destinatario, una nota di risposta.
Partendo da tale precisazione, la
giurisprudenza immediatamente successiva (ASN
1999O1794-PV 212516) aveva chiarito che il requisito
della divulgazione presso terzi dell'offesa sussiste
allorché si presenti impersonalmente alla autorità un
reclamo contro una determinata persona, affinché siano
presi provvedimenti contro di essa.
Aggiungeva, tuttavia, la sentenza
de qua che tale elemento costitutivo del delitto ex art.
595 c.p. non può, viceversa, ritenersi sussistente
nell'ipotesi in cui il reclamo sia diretto personalmente
al titolare di un ufficio, giacché, in tal caso, la
"comunicazione con più persone" non può dirsi voluta
dall'agente, neppure sotto il profilo del dolo
eventuale.
Si trattava, nel caso di specie, di
un esposto offensivo, indirizzato a un Commissario di
Pubblica sicurezza, con invito al predetto a convocare.
egli stesso, la destinataria del reclamo per le
conseguenti diffide.
L'esposto, per altro, era stato
consegnato "a mano", direttamente al titolare
dell'ufficio.
E allora, a ben vedere, il punctun
differentiationis, per le due sentenze del 1999,
consiste nella volontà del mittente.
Se la lettera, per esplicita
volontà di chi la ha formata - volontà, magari,
rafforzata e resa ancor più esplicita dalle modalità di
consegna del plico- è destinata a restare nella sfera di
disponibilità di chi la riceve, alloro l'ulteriore,
eventuale, propagazione della notizia diffamatoria si
dovrà unicamente alla iniziativa (o alla negligenza) di
costui.
Ne consegue che, ovviamente, se
l'autore - mittente, viceversa, vuole e ottiene che il
contenuto della lettera sia reso noto anche ad altri
(diversi dal destinatario), il requisito della
comunicazione con più persone non può che sussistere.
E così la I sezione di questa Corte
ha chiarito (ASN 200727624-PV ?37086) che il requisito
della comunicazione con più persone, necessario per
integrare il reato ex art. 595 c.p. sussiste anche
qualora le espressioni lesive dell'altrui reputazione
siano contenute in una lettera indirizzata a una
pubblica autorità, in forma impersonale, in una busta
non chiusa e, quindi, non in forma riservata.
E ciò per l'evidente motivo che
l'autorità. se competente in relazione alla materia per
la quale lo segnalazione è stata inviata, non potrà
certo "tenere per sé" la segnalazione stessa, ma dovrà
promuovere i necessari accertamenti ed, eventualmente,
assumere le opportune iniziative. E ciò comporta,
inevitabilmente, che anche terzi conoscano del contenuto
della missiva.
E così è stato ritenuto (ASN
200431728- RV 229331) sussistente il requisito dello
comunicazione con più persone con riferimento ad una
lettera, inviata dal Presidente del Tribunale al
Presidente della Corte di appello (lettere con la quale
si esprimevano valutazioni offensive nei confronti di
due sostituti della Procura presso il predetto
Tribunale). La missiva, invero, benché inviata in doppia
busta chiusa con la dicitura "riservata personale",
conteneva la sollecitazione ad inoltrare tale
comunicazione ad altra autorità, inoltro poi
effettivamente avvenuto.
Insomma: il requisito della
comunicazione con più persone può sussistere anche
quando la lettera sia indirizzata a una sola persona e,
tuttavia, il suo contenuto sia destinato o essere
portato a conoscenza almeno di un'altra persona; sempre,
si intende, che tale conoscenza vi sia, poi, di fatto,
stata.
Ma -e qui è il punto che interessa-
tale "destinazione alla divulgazione" può trovare il suo
fondamento nella esplicita volontà del mittente-autore,
ovvero nella natura stessa della comunicazione che, ad
es., in quanto propulsiva di un determinato procedimento
(giudiziario, amministrativo, disciplinare ecc.) deve ex
lege essere portata a conoscenza di altre persone.
diverse dall'immediato destinatario.
Ed è questo, sostanzialmente, la
ragione per cui questo Collegio ritiene di non
condividere la giurisprudenza citata dal ricorrente PG.
In tal senso "militano" altre
pronunzie di questa Sezione (ASN 200813549-RV 239825;
ASN 2008035ó5-RV 238909), che non hanno dubitato del
fatto che, ad es., un esposto indirizzato al titolare
del potere disciplinare nell'ambito dell'Arma dei
Carabinieri o al Presidente del Consiglio di un ordine
professionale abbia integrato il requisito della
comunicazione con più persone. E ciò, si ripete, in
quanto i destinatari delle predette missive avrebbero
dovuto rendere altre persone partecipi del contenuto del
"messaggio", essendo essi tenuti ad avviare accertamenti
e dovendo, eventualmente, promuovere procedimenti.
Tutto ciò, si intende, sul
presupposto che l'autore della missiva volesse e/o
prevedesse la circostanza che il suo contenuto sarebbe
stato reso noto a terzi.
Sulla base di quanto sinora
esposto, il ricorso del PG dovrebbe essere rigettato.
E, tuttavia, proprio le due
sentenze da ultimo citate, pur sostenendo, come si è
appena visto, sussistente l'elemento costitutivo del
delitto di diffamazione, consistente nella comunicazione
di più persone. hanno escluso che, nelle fattispecie
concrete allora sottoposte al vaglio della Corte, il
predetto reato sussistesse, in quanto hanno ritenuto
operante la scriminante ex art 51 c.p..
Invero, per ASN 200803565-RV
238909, non integra il delitto di diffamazione la
segnalazione al competente Consiglio dell'ordine di
comportamenti deontologicamente scorretti, tenuti da un
libero professionista nei rapporti con il cliente
denunciante, sempre che gli episodi segnalati siano
rispondenti al vero, perché il cliente, per mezzo della
segnalazione, esercita una legittima tutela dei suoi
interessi (negli stessi termini ASN 20103 3994-RV
248422).
Per ASN 200813549-RV 239825, non
integra il delitto di diffamazione la condotta di colui
cha indirizza un esposto -contenente espressioni
offensive nei confronti di un militare - all'autorità
disciplinare dell'Arma dei Carabinieri, in quanto, in
tal coso, ricorre la generale causa di giustificazione
di cui all'art. 51 c.p., sub specie dell'esercizio del
diritto di critico, costituzionalmente tutelato
dall'art. 2I Cost. e da ritenersi prevalente rispetto al
bene della dignità personale, pure tutelato dalla
Costituzione agli artt. 2 e 3, considerato che, senza la
libertà di espressione e di critica, la dialettica
democratica non potrebbe realizzarsi.
Il fatto è, tuttavia, che con il
ricorso, il PG romano, nel chiedere la cassazione della
sentenza impugnata, non ha affatto rappresentato la
possibile sussistenza di una scriminante, ma, come
premesso, ha -senza fondamento- sostenuto la inesistenza
dell'elemento costitutivo della comunicazione con più
persone.
La questione, a tal punto, consiste
-di conseguenza- nel valutare se questa Corte possa, ex
officio, rilevare la ipotizzabile sussistenza di una
oggettiva causa di giustificazione e, su tale base,
annullare (con rinvio, ovviamente) la sentenza a suo
tempo impugnata, mediante articolazione di ben altra
censura (infondata).
La risposta al quesito deve essere
positivo, atteso che, sin tanto che il rapporto
processuale non si sia esaurito con la formazione del
giudicato, il giudice deve procedere ex officio a quelle
verifiche che la legge impone di operare in ogni stato e
grado del processo, quali il rispetto delle norme sulla
competenza funzionale e per materia , le pregiudizialità
obbligatorie, l'immediata applicazione di formule
assolutorie ex art. 129 c.p.p.. Invero, se la legge
dispone che determinate verifiche debbano essere
eseguite di ufficio e che specifiche nullità sempre
d'ufficio debbano essere dichiarate, in ogni stato e in
ogni grado del processo, l'eventuale acquiescenza,
rinunzia o transazione della parte non può sortire
effetti diversi da quelli voluti dalla legge (ASN
1992O0480-RV 188950).
Trattasi, evidentemente, di
principio generale, discendente dal superiore interesse
della collettività all'osservanza delle norme
fondamentali del "sistema", principio che, dunque, se
trova applicazione, come si è visto, in presenza di un
comportamento remissivo della parte (acquiescenza,
rinunzia, transazione). non può non trovare identica
applicazione in presenza di un potere di impugnazione
correttamente esercitato, ma che ha comunque rimesso in
discussione, sia pure in un'ottica inesatta, la
sussistenza del presupposto della punibilità
dell'imputato.
Né va trascurato che,
esplicitamente, anche il comma II dell'art 609 c.p.p.
impone, come è noto, al giudice di legittimità di
decidere sulle questioni rilevabili di ufficio in ogni
stato e grado del processo.
E tanto è desumibile, oltre che dai
principi generali che informano il sistema processuale
penale, anche in base alla pronunzia ASN 199807903-RV
211377, che ha affermato che, nel giudizio di
legittimità, la regula juris ex art. 129 c.p.p. è
certamente vincolante - appunto in virtù del richiamo di
cui al II comma dell'art. 609 - senza che possano esser
di ostacolo i limiti della eventuale formazione
progressivo del giudicato.
Tanto ciò è vero, che l'obbligo di
immediata declaratoria di cause di non punibilità
innanzi alla Corte di cassazione sussiste anche se il
giudizio di legittimità venga celebrato a seguito di
impugnazione di sentenza emessa nel giudizio di rinvio.
Orbene, la possibile sussistenza di
uno causa di giustificazione, vale dire di una
situazione atta a far venir meno il requisito della
antigiuridicità nella condotta dell'agente, non può non
rientrare nella predetta categoria delle questioni
rilevabili ex officio, anche da parte della Corte di
cassazione.
In realtà, anche la eventuale
presenza di una mera causa di non punibilità (quale
potrebbe essere, nel caso di specie, quella di cui
all'art. 598 c.p.) comporta, inevitabilmente, nei sensi
e per le ragioni sopra specificate, l'intervento di
questa Corte.
Si impone, pertanto l'annullamento
con rinvio.
Il giudice del rinvio, data per
certa -per le ragioni che si sono sopra chiarite - la
sussistenza dell'elemento costitutivo del delitto ex art
595 c.p. della comunicazione con più persone,
verificherà se lo condotta ascritta al S. sia stata
tenuta in presenza della causa di giustificazione ex art
51 c.p. (e, in tal coso, dovrà valutare )e il diritto
sia stato esercitato nel rispetto dei limiti previsti
dalla giurisprudenza, ivi compreso lo continenza delle
espressioni), ovvero se ricorra la causa di non
punibilità ex art. 598 c.p., ovvero, infine, se nessuna
esclusione della punibilità sussista.
Assumerà quindi le conseguenti
decisioni.
In presenze di ricorso per saltum,
giudice di rinvio è (ai sensi dell'art.569 comma II
c.p.p.) il Tribunale di Roma, il quale procederà a nuovo
esame nei termini sopra specificati.
P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza con
rinvio per nuovo esame al Tribunale di Roma. |