Massima: “Il risarcimento del danno
da fatto illecito costituisce debito di valore e, in
caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non
costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma
svolgono una funzione compensativa tendente a
reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era
all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione
costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Ne
consegue che, impugnato il capo della sentenza
contenente la liquidazione del danno, anche ai fini di
una reformatio in melius delle somme attribuite a titolo
risarcitorio, non può invocarsi il giudicato in ordine
ai criteri di computo al capitale degli interessi
precedentemente attribuiti.
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Nel caso deciso con la sentenza in
commento, la vittima di un grave sinistro stradale
conveniva in giudizio i responsabili del fatto ed i
rispettivi assicuratori al fine di ottenere il
risarcimento del danno patito. La domanda era
parzialmente accolta dal Tribunale che riconosceva somme
a vario titolo - con interessi dalla data del sinistro -
ma non il danno patrimoniale sul presupposto che
mancasse la prova dell’incidenza della lesione sulla
capacità lavorativa specifica dell’infortunato. La Corte
di Appello, investita del gravame sul punto da parte
dello stesso infortunato, ampliava il risarcimento del
danno biologico e di quello morale riconoscendo il
pregiudizio alla capacità lavorativa. Il giudice del
gravame, però, modificava i criteri di computo degli
accessori al capitale in senso sfavorevole
all’appellante. Più precisamente riteneva che gli stessi
dovessero decorrere: a) sugli importi liquidati per
l’inabilità temporanea, da una data mediana tra l’evento
dannoso e la guarigione clinica; b) sulle somme
attribuite per l’invalidità permanente, dalla data di
stabilizzazione dei postumi e quindi di cessazione
dell’inabilità temporanea.
Il danneggiato proponeva ricorso
per cassazione lamentando che, in mancanza una specifica
impugnazione delle parti soccombenti sul capo della
sentenza riguardante la decorrenza degli interessi, la
corte di appello non avrebbe potuto rivedere in senso
peggiorativo il criterio utilizzato dal primo giudice,
stante il divieto di reformatio in peius.
A riscontro dei motivi di ricorso,
la Suprema Corte ha offerto un’interessante applicazione
del principio sancito in Cass. Civ., sez. Un. sentenza
n. 8520/2007, a mente del quale: “Il risarcimento del
danno da fatto illecito costituisce debito di valore e,
in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi
non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma
svolgono una funzione compensativa tendente a
reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual'era
all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione
costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Ne
consegue che, impugnato il capo della sentenza
contenente la liquidazione del danno, non può invocarsi
il giudicato in ordine alla misura legale degli
interessi precedentemente attribuiti e il giudice
dell'impugnazione (o del rinvio), anche in difetto di
uno specifico rilievo sulla modalità di liquidazione
degli interessi prescelta dal giudice precedente, può
procedere alla riliquidazione della somma dovuta a
titolo risarcitorio e dell'ulteriore danno da ritardato
pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più
appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del
creditore (riconoscendo gli interessi nella misura
legale o in misura inferiore, oppure non riconoscendoli
affatto, potendo utilizzare parametri di valutazione
costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o
dalla redditività media del denaro nel periodo
considerato), restando irrilevante che vi sia stata
impugnazione o meno in relazione agli interessi già
conseguiti e alla misura degli stessi“ .
Il giudice di legittimità,
riportandosi, in maniera succinta al precedente
surriportato, ha ribadito che gli interessi sul debito
di valore, condividendo con quest’ultimo la natura
compensativa, costituiscono una componente del
risarcimento per cui la statuizione che li riguarda non
è suscettibile di autonomo passaggio in giudicato.
Ha tuttavia trascurato di
considerare il profilo qualificante del motivo di
ricorso presentato dal danneggiato e cioè che la
modalità meno favorevole di computo degli accessori era
stata determinata dalla corte di appello a seguito
dell’impugnazione della parte vittoriosa in giudizio,
corrispondente con quella cui il risarcimento doveva
essere erogato.
In questi termini la sentenza
appare difficilmente coordinabile con i principi che
regolano l’interpretazione della domanda giudiziale.
Sul punto, la Cassazione, con la
sentenza del 28 agosto 2009 n. 18783 ha precisato che
“la domanda giudiziale deve essere interpretata tenendo
conto non solo della sua letterale formulazione, ma
anche del contenuto sostanziale delle sottese pretese
con riguardo alle finalità perseguite dalla parte,
secondo la natura delle situazioni dedotte in giudizio”.
Nel determinare l’estensione
dell’impugnazione - e delle statuizioni per converso
suscettibili di passare in giudicato – non si poteva
quindi prescindere, nella fattispecie, da una
considerazione della posizione rispetto ai fatti di
causa assunta dal soggetto che invocava la riforma della
sentenza.
Il risultato che la parte
impugnante intendeva perseguire attraverso il gravame
avrebbe dovuto apprezzarsi a maggior ragione nell’ottica
della valutazione dell’interesse ad impugnare, quale
species dell’interesse ad agire che, per esplicita
volontà del Legislatore, funge da presupposto per il
legittimo ricorso dei cittadini allo strumento
processuale.
L’appello spiegato dal danneggiato
in ordine all’entità del danno non avrebbe potuto
interessare anche il profilo relativo al computo degli
accessori al capitale, sussistendo sul punto la mancanza
di interesse rispetto ad una pronuncia meno favorevole.
Il suddetto profilo poteva, invero,
essere riesaminato solo in presenza di impugnazione del
quantum ad opera di una delle parti tenute ad erogare il
risarcimento.
Diversamente argomentando, e la
Cassazione pare trascurarlo, il danneggiato-appellante
che impugni la liquidazione del danno assumendone
l’inadeguatezza, correrebbe il rischio di veder
vanificato l’eventuale accoglimento del gravame
dall’applicazione, sulla sorta capitale rideterminata in
melius, di criteri di computo degli accessori più
penalizzanti rispetto a quello utilizzati in primo
grado. Paradossalmente, la rideterminazione del
pregiudizio potrebbe condurre alla negazione degli
interessi compensativi sul rilievo della insussistenza
di un danno da ritardo. (v. Cass. civ., 24 ottobre 2007,
n. 22347).
Sembra allora che, più
coerentemente, il giudice di legittimità avrebbe dovuto
escludere l’applicabilità al caso di specie del
principio espresso dalle Sezioni Unite, limitandone
l’operatività ai soli casi in cui la misura del danno
liquidato sia stata impugnata dal responsabile civile.
Questa è peraltro l’ipotesi esaminata dalle stesse
Sezioni unite nella fattispecie che ha dato luogo al
precedente.
Al limite, la riforma avrebbe
potuto riguardare il computo degli accessori sulle somme
ulteriori riconosciute in sede di gravame, lasciando
inalterate le modalità di calcolo stabilite per quelle
liquidate in primo grado.
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