È costituzionalmente illegittimo
l’art. 62-bis, secondo comma, del codice penale, come
sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre
2005, n. 251 nella parte in cui stabilisce che, ai fini
dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo,
non si possa tenere conto della condotta del reo
susseguente al reato
Corte Costituzionale, 10 giugno
2011, n. 183
(Pres. Maddalena – Rel. Lattanzi)
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Perugia, con ordinanza del
28 aprile 2009, pervenuta a questa Corte il 24 dicembre
2009 (r.o. n. 174 del 2010), ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 62-bis, secondo comma, del codice penale, come
sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche,
di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), «nella parte in cui, nel caso di recidivo
reiterato ex art. 99, quarto comma, cod. pen., chiamato
a rispondere di taluno dei delitti di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), cod. proc. pen., per il quale sia
prevista una pena non inferiore nel minimo a cinque
anni, non consente di fondare sui parametri di cui al
secondo comma dell’art. 133 cod. pen., in particolare
sul comportamento susseguente al reato, la concessione
dell’attenuante di cui all’art. 62-bis, primo comma,
cod. pen.».
Come ricorda il giudice a quo, in
un giudizio abbreviato nei confronti, tra gli altri, di
M. S. R., imputato di numerosi reati (omicidio
premeditato, soppressione di cadavere aggravata, rapina
aggravata, detenzione e porto illegale di armi, anche
con matricola abrasa, ricettazione, incendio doloso,
tentato incendio doloso, contraffazione di documenti e
costituzione di associazione per delinquere armata),
commessi tra l’agosto del 2007 e l’aprile del 2008, il
pubblico ministero aveva chiesto l’applicazione a M. S.
R. delle attenuanti generiche, in considerazione della
collaborazione fornita nel corso delle indagini, e aveva
eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art.
62-bis, secondo comma, cod. pen. per violazione degli
artt. 27 e 3 Cost.
Il rimettente rileva che
effettivamente le attenuanti generiche non potrebbero
essere applicate perché l’imputato, “recidivo
reiterato”, deve tra l’altro rispondere di uno dei
delitti (quello di cui agli artt. 575 e 577 cod. pen.)
previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen., puniti con pena non inferiore nel minimo a cinque
anni, per i quali le attenuanti generiche possono essere
fondate solo sui parametri di cui all’art. 133, primo
comma, numeri 1) e 2), cod. pen., e non anche su quelli
di cui al secondo comma dello stesso art. 133,
comprendente tra l’altro la condotta susseguente al
reato, nel cui ambito può farsi rientrare (ove non
specificamente prevista come causa di attenuazione di
pena) la collaborazione prestata in fase di indagini.
La disciplina prevista dall’art.
62-bis, secondo comma, cod. pen. sembra al rimettente in
contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., in quanto, in
primo luogo, tanto il legislatore, nell’esercizio
dell’ampia discrezionalità di cui dispone nella
configurazione dei reati e delle circostanze aggravanti
o attenuanti e nella previsione dei limiti edittali,
quanto il giudice, che deve procedere alla
determinazione della pena da irrogare in concreto entro
i limiti stabiliti e nell’esercizio del suo potere
discrezionale, «non possono prescindere dalla
considerazione delle finalità della pena, in primis
dalla necessaria destinazione della sanzione penale alla
rieducazione del condannato». Muovendo dall’analisi
della sentenza n. 313 del 1990, il giudice a quo
richiama l’orientamento della giurisprudenza
costituzionale secondo cui la finalità rieducativa
rileva sia nella fase dell’esecuzione penale, sia in
quella della sua previsione e della sua irrogazione,
dovendosi ritenere che il terzo comma dell’art. 27 Cost.
vincoli sia il legislatore, sia il giudice della
cognizione, prima che il giudice della sorveglianza;
d’altra parte – soggiunge il rimettente – sul piano
della disciplina positiva, si era significativamente
stabilito che la finalità risocializzante dovesse essere
tenuta presente dal giudice già in sede di sostituzione
della pena detentiva, agli effetti degli artt. 53 e
seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, segno
evidente di «una diretta influenza, per così dire
ontologica, della rieducazione e della
risocializzazione».
In secondo luogo, nella
prospettazione del rimettente, viene in rilievo la
giurisprudenza costituzionale sulla legittimità delle
pene fisse (sentenze n. 50 del 1980 e n. 299 del 1992),
secondo cui «l’individualizzazione della pena, in modo
da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche
esigenze dei singoli casi, si pone come naturale
attuazione e sviluppo dei principi costituzionali tanto
di ordine generale (principio di uguaglianza) quanto
attinenti direttamente alla materia penale, tanto più
che lo stesso principio di legalità della pena ex art.
25, secondo comma, Cost. si inserisce in un sistema, in
cui si esige la differenziazione più che l’uniformità.
In tale quadro, si è osservato che ha un ruolo centrale
la discrezionalità giudiziale, nell’ambito dei criteri
segnati dalla legge». Secondo il giudice a quo, in forza
dell’orientamento della Corte costituzionale,
l’adeguamento della pena ai casi concreti contribuirebbe
a rendere il più possibile personale la responsabilità
penale e ad assicurare la sua finalizzazione
rieducativa; sarebbe così perseguita anche l’uguaglianza
di fronte alla pena, intesa come proporzione della
stessa rispetto alle responsabilità personali e alle
esigenze di risposta che ne conseguono.
La possibilità di applicare le
attenuanti generiche rappresenterebbe lo strumento
tradizionalmente più duttile, per consentire al giudice
di adeguare la pena alle peculiarità del caso concreto,
al di sotto dei limiti edittali. Il giudice, infatti,
può prendere in considerazione circostanze diverse da
quelle tipizzate, qualora le ritenga tali da
giustificare una diminuzione della pena e a tal fine
deve avere riguardo, in linea di massima, ai parametri
indicati dall’art. 133 cod. pen., come ritiene, sia pure
sulla base di pronunce divergenti su alcuni aspetti, la
giurisprudenza della Corte di cassazione. L’art. 133
cod. pen., rimarca il giudice a quo, «delimita l’ambito
della discrezionalità del giudice, ancorandola alla
valutazione della gravità del reato e della capacità a
delinquere del reo, l’una e l’altra desumibili dalla
valutazione sintetica dei parametri all’uopo
individuati». In questa prospettiva si comprende come la
concessione o meno delle attenuanti generiche debba
basarsi su una valutazione globale della gravità del
fatto e della capacità a delinquere, se del caso
lumeggiata da un elemento che in concreto assume
carattere prevalente, sia pure ai fini del diniego
dell’applicazione.
In questo quadro si colloca la
disposizione del secondo comma dell’art. 62-bis cod.
pen., come sostituito dalla legge n. 251 del 2005:
ricorrendo l’ipotesi della recidiva reiterata in
relazione a taluno dei delitti indicati, sarebbe stata
introdotta, secondo il rimettente, una sorta di
presunzione di preponderanza del parametro negativo
costituito dai precedenti dell’imputato, presunzione che
può essere vinta solo dal riferimento alla natura, alla
specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e ad
ogni altra modalità dell’azione, ovvero dal riferimento
alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla
persona offesa dal reato. Secondo il rimettente questa
disciplina tradisce la ratio complessiva della norma
dettata dal primo comma dell’art. 62-bis cod. pen. e,
soprattutto, il senso del riferimento all’art. 133 cod.
pen., che implica una valutazione discrezionale dei
parametri delineati, in modo da adeguare al caso
concreto il giudizio sulla gravità del reato e sulla
capacità a delinquere del reo: la rigida preclusione
introdotta dalla novella del 2005 «espropria il giudice
del potere di valutare adeguatamente le peculiarità del
caso concreto e pervenire così alla definizione del
trattamento sanzionatorio più conforme alle esigenze di
risocializzazione e di rieducazione del reo (il che,
come nel caso di specie, finisce per dare luogo alla
predeterminazione della pena ex lege, in assenza di
altre ragioni di attenuazione)».
Nell’argomentare del rimettente, la
considerazione assumerebbe particolare rilievo quando,
rispetto al disvalore astrattamente desumibile dal
parametro costituito dai precedenti penali
dell’imputato, incidente sulla capacità a delinquere,
possono individuarsi altri parametri anch’essi rilevanti
ai fini della valutazione di tale capacità, che
risultano in concreto idonei a contrastare la valenza
negativa di quei precedenti: è il caso dell’imputato che
abbia tenuto una condotta susseguente al reato
particolarmente significativa, tale da far presumere che
egli abbia intrapreso un percorso di riconsiderazione
della condotta anteatta e da far apparire poco
significativo il dato personologico relativo alle
precedenti condanne. Basata solo su esigenze di difesa
sociale, la presunzione risulterebbe così in contrasto
con il principio di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.,
perché «irrigidisce il trattamento sanzionatorio, fino
ad allontanarlo dal concreto perseguimento delle
esigenze di risocializzazione e di rieducazione, che
postulano (non solo l’esecuzione, ma anche)
l’irrogazione di una pena adeguata al loro
soddisfacimento. In altre parole sembra incongruo
privilegiare in astratto solo uno dei parametri
valutativi della capacità a delinquere, disconoscendo a
priori la possibilità di individuare parametri
ugualmente o maggiormente idonei a lumeggiare quella
capacità ed a fondare una diminuzione di pena, in
termini conformi al dettato costituzionale».
L’assunto, secondo il giudice a
quo, sembrerebbe tanto più fondato se confrontato con
l’irrazionalità della scelta, operata dal legislatore,
di attribuire rilievo alla recidiva reiterata solo nel
caso dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a),
cod. proc. pen. per i quali sia prevista una pena non
inferiore nel minimo a cinque anni. Invero, «il
significato personologico di un elemento di valutazione
non può essere diverso a seconda del tipo di delitti e
men che mai a seconda del minimo della pena edittale per
essi prevista», registrandosi, peraltro, la non
corrispondenza tra la previsione dettata dal quinto
comma dell’art. 99 cod. pen. e quella di cui al secondo
comma dell’art. 62-bis cod. pen.: la prima, infatti,
stabilisce l’obbligatorietà dell’applicazione della
recidiva nel caso di reati di cui all’art. 407, comma 2,
lettera a), cod. proc. pen., laddove la seconda aggiunge
l’ulteriore parametro della pena non inferiore a cinque
anni. La disciplina, secondo il rimettente, «disvela in
realtà il preponderante rilievo attribuito alle ragioni
di difesa sociale e di prevenzione generale, chiaramente
espresse attraverso il riferimento a quei parametri
aggiuntivi, ma risulta in concreto irrazionale».
Infatti, in primo luogo «si
determina un’incongrua commistione tra parametri
personologici e profili afferenti alla gravità del
fatto, attribuendosi rilievo decisivo ai primi in quanto
associati ai secondi, sulla base di valutazioni
predeterminate e astratte, senza considerare che il
profilo afferente alla personalità del reo non può che
concorrere alla formulazione di un giudizio sintetico
sulla concreta capacità a delinquere, solo all’interno
di tale valutazione potendo trovare l’eventuale
contemperamento». Inoltre, si prevede un trattamento
ingiustificatamente diverso di situazioni che, rispetto
all’applicazione delle attenuanti generiche e alla
rilevanza della recidiva reiterata, sono in realtà
identiche: al riguardo l’ordinanza di rimessione fa
riferimento, per un verso, ai reati parimenti compresi
tra quelli di cui all’art. 407, comma 2, lettera a),
cod. proc. pen. e con pena identica nel massimo ma non
nel minimo, come l’estorsione aggravata e la rapina
aggravata, rispetto ai quali l’art. 62-bis, secondo
comma, cod. pen. finisce per incidere in modo del tutto
diverso, e, per altro verso, a reati pur rilevanti, come
l’estorsione non aggravata, che hanno una pena non
inferiore nel minimo a cinque anni, per i quali tuttavia
la recidiva reiterata non impedisce l’applicazione delle
attenuanti generiche sulla base dei parametri di cui
all’art. 133, secondo comma, cod. pen.
La preclusione delle attenuanti
generiche, dunque, «viene fatta discendere da una
circostanza inerente alla persona del colpevole
associata ad un coacervo disomogeneo di titoli di reati,
delineati dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen., ulteriormente qualificato dal minimo della pena
edittale, peraltro non sempre indicativo neppure della
gravità del reato (la rapina aggravata con pena massima
di anni venti infatti finisce per essere trattata come
l’estorsione non aggravata con pena massima di anni
dieci, senza alcuna razionalità delle scelte neppure in
termini di prevenzione generale). Correlativamente si
produce l’anomalo effetto di condurre all’irrogazione di
pene identiche in presenza di situazioni che possono
considerarsi assolutamente diverse».
Secondo il giudice a quo si
allargherebbe a dismisura e ingiustificatamente la
distanza tra il regime di favore dettato da norme
speciali, come ad esempio quella di cui all’art. 8 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e
di trasparenza e buon andamento dell’attività
amministrativa), convertito dalla legge 12 luglio 1991,
n. 203, e la disciplina ordinaria relativa ai reati che
non riguardano la criminalità mafiosa: nel primo caso
non vi sono preclusioni di sorta pur a fronte di una
storia criminale cospicua, mentre nel secondo, in
presenza delle altre condizioni indicate, neppure
un’eccezionale collaborazione potrebbe trovare il
riscontro di una circostanza attenuante, recando altresì
pregiudizio all’attività di accertamento e repressione
dei reati, che non potrebbe giovarsi di collaborazioni
meritevoli di un riconoscimento premiale.
Quanto alla rilevanza della
questione, il giudice a quo sottolinea come, su
richiesta del pubblico ministero, egli debba entrare nel
merito dell’applicabilità all’imputato M. S. R. delle
attenuanti generiche sulla base di una condotta
successiva al reato (mentre è ritenuta irrilevante la
diversa questione della preclusione ex art. 69, quarto
comma, cod. pen., del giudizio di prevalenza, a fronte
della qualità di “recidivo reiterato”); l’imputato,
infatti, ha ammesso gli addebiti e comunque quelli
principali, costituiti dall’omicidio e dall’occultamento
del cadavere e, nel corso delle indagini, ha tenuto una
condotta largamente collaborativa. In tal modo, secondo
il rimettente, l’imputato ha «palesato un contegno di
inequivoca discontinuità con il suo passato e di
rivisitazione della travagliata condotta anteatta. Va in
effetti osservato che il M. risulta condannato per
plurimi e gravi reati, peraltro commessi tutti in epoca
assai remota. Tra detti reati figura anche quello di
omicidio, ma in quel caso gli è stata riconosciuta
l’attenuante della minima partecipazione». In passato –
precisa il giudice a quo – l’imputato ha fruito
dell’attenuante ex art. 8 del decreto-legge n. 152 del
1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, e,
successivamente, ha riportato una modesta condanna per
fatti legati alla prostituzione, rendendosi poi artefice
della costituzione di un sodalizio finalizzato
soprattutto alla commissione di reati contro il
patrimonio, all’interno del quale è maturato l’omicidio
per il quale si procede. Osserva quindi il rimettente
che «l’elemento sopravvenuto, rappresentato dalla
prestata efficace collaborazione, al pari dei precedenti
penali – ma più di essi – si proietta verso il futuro e
dunque verso la definizione di un trattamento
sanzionatorio corrispondente alle concrete e attuali
esigenze di rieducazione e può dunque considerarsi
meritevole di considerazione quale comportamento
susseguente al reato, idoneo a giustificare
un’attenuazione di pena ai sensi dell’art. 62-bis, primo
comma, cod. pen., nel quadro di una globale valutazione
degli indici di cui all’art. 133, secondo comma, cod.
pen. Poiché l’imputato è recidivo reiterato e deve fra
l’altro rispondere del delitto di omicidio aggravato
dalla premeditazione, rientrante tra quelli evocati
dall’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., tale
elemento non potrebbe essere preso in considerazione
(non ricorrendo nella specie elementi tali da far
apparire rilevanti i parametri di cui all’art. 133,
primo comma, n. 1 e n. 2, cod. pen.)».
2. – E’ intervenuto nel giudizio di
costituzionalità il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, che ha chiesto una dichiarazione
di inammissibilità o di infondatezza della questione.
La difesa dello Stato ritiene che
l’ordinanza di rimessione sia priva di motivazione sulla
responsabilità dell’imputato, non contenendo alcuna
indicazione circa le ragioni per le quali il giudice
dovrebbe condannarlo; la questione sarebbe quindi
inammissibile per difetto di motivazione sulla
rilevanza, in quanto l’intenzione di applicare le
circostanze attenuanti generiche presuppone il
convincimento di responsabilità.
La questione, inoltre, sarebbe
infondata. La difesa dello Stato richiama la ratio della
disposizione censurata, chiaramente volta ad inasprire
il regime sanzionatorio per coloro che, versando nella
situazione di recidiva reiterata, hanno commesso reati
particolarmente gravi. Si tratterebbe di una scelta
discrezionale del legislatore immune dalle censure
denunciate dal rimettente; insieme con la riforma
dell’art. 99 cod. pen., la norma censurata vorrebbe
attuare una forma di prevenzione generale della recidiva
reiterata, con riferimento ai reati indicati nel secondo
comma dell’art. 62-bis cod. pen., inasprendo il
trattamento sanzionatorio. «La disciplina in esame non
può comportare una applicazione sproporzionata della
pena in quanto intende sanzionare maggiormente coloro
che pervicacemente hanno commesso un altro reato grave,
e che hanno così dimostrato un alto e persistente grado
di antisocialità».
Ancorandosi a un dato che
obiettivamente attesta la particolare pericolosità del
colpevole, la norma censurata opererebbe una legittima
deroga all’applicabilità generale dell’art. 62-bis cod.
pen., che non sarebbe in contrasto con il principio di
offensività e con la finalità rieducativa della pena, di
cui al terzo comma dell’art. 27 Cost.
La commisurazione della pena,
sottolinea la difesa dello Stato, è demandata al giudice
alla stregua dei princìpi fissati dal legislatore, che,
nel caso in esame, ha inteso sanzionare il fenomeno
della recidiva reiterata, collegata alla commissione di
gravi reati, puniti con pena edittale non inferiore nel
minimo a cinque anni, in quanto la persistenza nelle
condotte antisociali dimostra che la funzione
rieducativa non si è esplicata efficacemente nei
confronti dell’imputato ed è quindi necessario
assicurare la possibilità che, attraverso l’applicazione
della pena, tale funzione trovi una nuova occasione di
svolgimento. Ragionevolmente, quindi, la norma censurata
impedisce al giudice di valutare, ai fini
dell’applicazione delle attenuanti generiche, il
comportamento tenuto dal reo dopo la commissione del
reato, in quanto, trattandosi di “recidivo reiterato” e
della commissione di gravi reati, la prognosi sul suo
ravvedimento può non essere ancora giustificata e la
condotta successiva al reato può costituire un fatto
occasionale, determinato da motivi contingenti, con la
conseguenza che l’effettiva possibilità di ravvedimento
e di risocializzazione del reo sia in tali casi da
valutare nel corso dell’esecuzione della pena. Nella
prospettazione dell’Avvocatura generale dello Stato, ciò
significherebbe non già vanificare la funzione
rieducativa della pena, ma differire la valutazione del
comportamento del reo e, quindi, dell’esistenza e della
persistenza del suo ravvedimento, al momento
dell’accesso ai vari benefici previsti per la fase
esecutiva. D’altra parte, nell’esercizio dell’ordinario
potere di commisurazione della pena, il giudice è pur
sempre in grado di commisurare il trattamento
sanzionatorio tra il minimo e il massimo della pena
edittale, tenendo conto della effettiva gravità del
fatto e della reale necessità di rieducazione mostrata
dal colpevole.
Secondo la difesa dello Stato,
inoltre, la norma censurata non sarebbe in contrasto con
il principio di uguaglianza. Essa disciplina situazioni
soggettivamente ed oggettivamente gravi, tali da
giustificare il limite alla discrezionalità del giudice
nella commisurazione della pena al di sotto dei limiti
edittali. Né sarebbe previsto un trattamento
ingiustificatamente diverso di situazioni che sono
identiche: i reati indicati al riguardo, a titolo di
esempio, dal giudice a quo (i delitti di rapina
aggravata e di estorsione aggravata) non fanno
riferimento a situazioni identiche, in quanto il minimo
edittale previsto è diverso, e soltanto per il reato
punito con pena edittale non inferiore a cinque anni è
disposta la limitazione all’applicazione delle
circostanze generiche. Il legislatore ha individuato una
classe di casi nei quali, attesa la loro gravità
soggettiva ed oggettiva, è prematura, al momento della
commisurazione, la previsione che il reo non commetterà
ulteriori, gravi reati, e ha disposto che il grado di
risocializzazione del reo, rivelato dai suoi
comportamenti, venga valutato nell’ambito
dell’esecuzione di una pena applicata, intanto, nella
sua pienezza.
In conclusione, l’Avvocatura
generale dello Stato sottolinea che l’esercizio della
discrezionalità legislativa, così operato, non appare
manifestamente irragionevole, siccome volto ad
assicurare che la funzione premiale, insita nelle
attenuanti generiche applicate in ragione della condotta
successiva, non operi nei casi in cui il perseguimento
di tale finalità specifica appaia oggettivamente
problematico. Pertanto non sussisterebbe la violazione
dell’art. 3 Cost.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Perugia ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 62-bis, secondo comma, del codice penale, come
sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche,
di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), «nella parte in cui, nel caso di recidivo
reiterato ex art. 99, quarto comma, cod. pen., chiamato
a rispondere di taluno dei delitti di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), cod. proc. pen., per il quale sia
prevista una pena non inferiore nel minimo a cinque
anni, non consente di fondare sui parametri di cui al
secondo comma dell’art. 133 cod. pen., in particolare
sul comportamento susseguente al reato, la concessione
dell’attenuante di cui all’art. 62-bis, primo comma,
cod. pen.».
Secondo il rimettente, la norma
censurata sarebbe in contrasto con l’art. 27, terzo
comma, Cost., in quanto, introducendo «una sorta di
presunzione di preponderanza del parametro negativo
costituito dai precedenti dell’imputato», esproprierebbe
il giudice del potere di valutare adeguatamente le
peculiarità del caso concreto e di pervenire così alla
definizione del trattamento sanzionatorio più conforme
alle esigenze di risocializzazione e di rieducazione del
reo, laddove, a fronte dell’incidenza sulla capacità a
delinquere del parametro costituito dai precedenti
penali dell’imputato, sarebbe possibile individuare
altri parametri – come quello relativo alla condotta
susseguente al reato – rilevanti ai fini del medesimo
giudizio sulla capacità a delinquere che risultino in
concreto idonei a contrastare la valenza negativa dei
precedenti.
La norma censurata, inoltre,
violerebbe l’art. 3 Cost., sotto vari profili. Verrebbe
infatti attribuito irrazionalmente rilievo alla recidiva
reiterata solo nel caso dei reati di cui all’art. 407,
comma 2, lettera a), cod. proc. pen. per i quali sia
prevista una pena non inferiore nel minimo a cinque
anni, laddove «il significato personologico di un
elemento di valutazione non può essere diverso a seconda
del tipo di delitti e men che mai a seconda del minimo
della pena edittale per essi prevista».
Si determinerebbe poi «un’incongrua
commistione tra parametri personologici e profili
afferenti alla gravità del fatto, attribuendosi rilievo
decisivo ai primi in quanto associati ai secondi, sulla
base di valutazioni predeterminate e astratte, senza
considerare che il profilo afferente alla personalità
del reo non può che concorrere alla formulazione di un
giudizio sintetico sulla concreta capacità a delinquere,
solo all’interno di tale valutazione potendo trovare
l’eventuale contemperamento». Nel far discendere la
preclusione delle circostanze attenuanti generiche da
una circostanza inerente la persona del colpevole,
associata a un “coacervo disomogeneo” di titoli di
reato, delineati dall’art. 407, comma 2, lettera a),
cod. proc. pen., ulteriormente qualificato dal minimo
della pena edittale, la norma censurata determinerebbe,
secondo il rimettente, un trattamento
ingiustificatamente diverso di situazioni che, rispetto
all’applicazione delle attenuanti generiche e alla
rilevanza della recidiva reiterata, sono identiche e,
per contro, l’irrogazione di pene identiche in presenza
di situazioni assolutamente diverse, dando luogo inoltre
a un ingiustificato ampliamento della distanza tra il
regime di favore dettato da norme speciali, quali l’art.
8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito
dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e la disciplina
ordinaria relativa ai reati che non riguardano la
criminalità mafiosa.
2. – L’Avvocatura generale dello
Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione.
Secondo l’Avvocatura difetta, infatti, la motivazione
sulla rilevanza perché «nell’ordinanza di remissione
manca (…) qualsiasi motivazione sulla preliminare
ritenuta colpevolezza dell’imputato», mentre «la volontà
di applicare le circostanze attenuanti generiche
presuppone che il Gip abbia ritenuto l’imputato
responsabile».
L’eccezione è priva di fondamento.
Il rimettente ha precisato che
l’imputato ha ammesso gli addebiti e che proprio per
questa ragione, e per la collaborazione data nel corso
delle indagini, il pubblico ministero ha chiesto
l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, e
ciò è sufficiente per ritenere la questione rilevante
nel giudizio a quo.
3. – Nel merito la questione è
fondata nei limiti che seguono.
4. – Il secondo comma dell’art.
62-bis cod. pen., che forma oggetto della questione di
legittimità costituzionale, stabilisce che, ai fini
dell’applicazione delle circostanze attenuanti
generiche, non si tiene conto dei criteri di cui
all’art. 133, primo comma, numero 3), cod. pen., e dei
criteri commisurativi afferenti alla capacità a
delinquere (art. 133, secondo comma, cod. pen.), «nei
casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in
relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma
2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso
in cui siano puniti con la pena della reclusione non
inferiore nel minimo a cinque anni».
I criteri considerati dalla norma
censurata sono vari, ma la formulazione della questione
e gli argomenti addotti a sostegno fanno ritenere,
nonostante alcune genericità della motivazione, che il
dubbio del rimettente investa esclusivamente il divieto,
nei casi suddetti, di tenere conto, ai fini delle
circostanze attenuanti generiche, della condotta del reo
successiva al reato.
La regola preclusiva stabilita si
collega al consolidato orientamento della giurisprudenza
comune che, ai fini dell’applicazione delle circostanze
attenuanti generiche, fa leva su una valutazione
incentrata sugli elementi presi in considerazione dai
criteri commisurativi dettati dall’art. 133 cod. pen.,
benché diversi indirizzi si confrontino sul tema se, ai
fini indicati, il riferimento a tali criteri, attesa la
loro “onnicomprensività”, possa esaurire l’ambito
dell’apprezzamento rimesso al giudice ovvero se la
decisione possa essere fondata anche su altri elementi.
In ogni caso, è certo che il secondo comma dell’art.
62-bis cod. pen. offre nuove conferme della valenza
generale rivestita, ai fini delle circostanze attenuanti
generiche, dai parametri stabiliti dall’art. 133 cod.
pen. D’altra parte, con riferimento al criterio
commisurativo della condotta successiva al reato, va
osservato che la valorizzazione, a tali fini, del
ravvedimento dell’imputato trova conferma nella
giurisprudenza della Corte di cassazione, che tende ad
instaurare un legame tra il valore sintomatico del
ravvedimento e l’applicazione delle circostanze
attenuanti generiche (Cass. pen., sez. V, n. 33690 del
14 maggio 2009).
La norma censurata introduce dunque
una deroga rispetto a un principio generale che governa
la complessa attività commisurativa della pena da parte
del giudice, saldando i criteri di determinazione della
pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un
processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27,
terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie
anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze.
Per un compiuto inquadramento della
portata della preclusione introdotta dalla norma
censurata, deve rilevarsi che il richiamo congiunto alla
recidiva reiterata («… nei casi previsti dall’articolo
99, quarto comma, …») e al catalogo dei «delitti
previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del
codice di procedura penale», cui rinvia anche il quinto
comma dell’art. 99 cod. pen., fa sì che il secondo comma
dell’art. 62-bis cod. pen. debba intendersi riferito a
un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che preclude al
giudice l’accertamento della concreta significatività
del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura
e al tempo di commissione dei precedenti e avuto
riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. –
«sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e
della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 192
del 2007).
5. – L’ordinanza di rimessione, nel
censurare i limiti introdotti con il secondo comma
dell’art. 62-bis cod. pen., muove dalla rilevanza che,
nel quadro dei principi costituzionali e con particolare
riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., è
riconosciuta al potere discrezionale del giudice per la
determinazione della pena e aggiunge che «lo strumento
tradizionalmente più duttile» a tal fine «è
rappresentato dalla possibilità di concedere
all’imputato le attenuanti generiche». E’ in questa
prospettiva che, secondo il giudice rimettente, dovrebbe
essere valutata la norma in questione, per l’impedimento
che ne deriva alla valutazione di alcuni elementi a
favore dell’imputato, altrimenti utilizzabili per il
riconoscimento delle attenuanti generiche.
In proposito però può osservarsi
che se è vero che il potere discrezionale del giudice
nella determinazione della pena forma oggetto,
nell’ambito del sistema penale, di un principio di
livello costituzionale, è anche vero che il meccanismo
preclusivo realizzato attraverso la norma in questione
limita solo parzialmente tale potere, il quale continua
ad avere un ampio ambito di esplicazione, attraverso la
possibilità di spaziare tra il minimo e il massimo
edittale relativi allo specifico reato, con
l’integrazione degli aumenti o delle diminuzioni per le
altre circostanze eventualmente esistenti e per le
stesse attenuanti generiche, che rimangono applicabili
in base a elementi diversi da quelli «di cui
all’articolo 133, primo comma, numero 3), e secondo
comma». Si tratta quindi di una limitazione che non si
pone in contrasto con i principi costituzionali
richiamati dal rimettente.
Pure insussistente è la pretesa
violazione dell’art. 3 Cost., denunciata, sotto il
profilo dell’irragionevolezza e della disparità di
trattamento, perché la norma censurata farebbe
discendere la preclusione della concessione delle
circostanze attenuanti generiche «da una circostanza
inerente la persona del colpevole, associata a un
coacervo disomogeneo di titoli di reati, delineati
dall’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.,
ulteriormente qualificato dal minimo della pena
edittale». In proposito infatti è sufficiente osservare,
da un lato, che in linea di principio la considerazione,
ai fini del trattamento penale, della recidiva reiterata
in unione con alcuni gravi reati non contrasta con
l’art. 3 Cost. e, dall’altro, che l’individuazione di
questi reati rientra nella discrezionalità del
legislatore e non può essere messa in questione, come ha
fatto l’ordinanza di rimessione, solo perché le pene
comminate per l’uno o per l’altro reato presentano delle
differenze.
Deve quindi concludersi che non dà
luogo a una disparità di trattamento, né è di per sé
irragionevole prevedere un regime di maggior rigore nei
confronti di una persona che ha commesso un grave reato
trovandosi in una situazione di recidiva reiterata;
resta però da stabilire se – come pure prospetta
l’ordinanza di rimessione – sia in contrasto con gli
artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. lo specifico
trattamento previsto dall’art. 62-bis, secondo comma,
cod. pen., e più in particolare il divieto di
riconoscere all’imputato le attenuanti generiche per la
condotta, positivamente apprezzabile, tenuta dopo la
commissione del reato. E’ in relazione a tale divieto
che il giudice rimettente ha denunciato l’incongruenza
di «privilegiare in astratto solo uno dei parametri
valutativi della capacità a delinquere, disconoscendo a
priori la possibilità di individuare parametri
ugualmente o maggiormente idonei a lumeggiare quella
capacità ed a fondare una diminuzione di pena, in
termini conformi al dettato costituzionale».
6. – Sotto questo aspetto la
questione è fondata perché contrasta con il principio di
ragionevolezza la scelta normativa di escludere,
nell’ipotesi del secondo comma dell’art. 62-bis cod.
pen., il potere del giudice di valutare ed apprezzare la
condotta tenuta dal colpevole nel periodo successivo
alla commissione del reato.
La disposizione impugnata, infatti,
precludendo al giudice di fondare il riconoscimento
delle attenuanti generiche sulla condotta successiva al
reato, privilegia uno dei parametri indicati dal secondo
comma dell’art. 133 cod. pen. – la precedente attività
delittuosa del reo – come sintomatico della capacità a
delinquere rispetto agli altri e in particolare rispetto
alla condotta successiva alla commissione del reato,
benché questa possa essere in concreto ugualmente, o
addirittura prevalentemente, indicativa dell’attuale
capacità criminale del reo e della sua complessiva
personalità.
La preclusione è fondata su una
valutazione preventiva, predeterminata e astratta, che
non risponde a un dato di esperienza generalizzabile, in
quanto la rigida presunzione di capacità a delinquere,
presupposta dalla norma censurata, è inadeguata ad
assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che
possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta
susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha
alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva
rinviene nel fatto di reato il suo termine di
riferimento, la condotta susseguente si proietta nel
futuro e può segnare una radicale discontinuità negli
atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali,
che, pur potendo essere di grande significato per
valutare l’attualità della capacità a delinquere, sono
indiscriminatamente neutralizzati ai fini
dell’applicazione delle circostanze attenuanti
generiche.
A ben vedere il secondo comma
dell’art. 62-bis cod. pen. dà luogo a un duplice
automatismo, basato su presunzioni: il primo deriva dal
quinto comma dell’art. 99 cod. pen., che nel caso di
commissione da parte di un recidivo di uno dei reati
previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc.
pen. rende obbligatoria l’applicazione della recidiva
(mentre negli altri casi si ritiene che sia rimessa alla
valutazione discrezionale del giudice: sentenza n. 192
del 2007; ordinanze n. 171 del 2009, n. 257, n. 193, n.
90 e n. 33 del 2008); il secondo concerne la presunta
prevalenza della recidiva rispetto alla condotta
dell’imputato susseguente al reato.
Com’è noto, secondo la
giurisprudenza della Corte, «le presunzioni assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della
persona, violano il principio di eguaglianza, se sono
arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati
di esperienza generalizzati, riassunti nella formula
dell’id quod plerumque accidit. In particolare,
l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie
tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a
base della presunzione stessa» (sentenze n. 164 del
2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
Ciò posto, non può disconoscersi
che nel caso in esame una siffatta formulazione sia
agevole, considerando, da un lato, che la recidiva può
basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante
gravità e, dall’altro, che la decisione può intervenire
anche a distanza di anni dalla commissione del fatto per
cui si procede e che successivamente l’imputato potrebbe
aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una
risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e
potrebbe anche essere divenuto una persona completamente
diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il
reato.
E’ da aggiungere che
l’impossibilità di dare rilevanza, ai fini delle
circostanze attenuanti generiche, alla condotta del
condannato successiva alla commissione del reato risulta
ancor più irragionevole se si considera il limitato
effetto che l’applicazione di tali circostanze potrebbe
determinare, dato che, per la disposizione del quarto
comma dell’art. 69 cod. pen., esse continuerebbero a
trovare un limite nella recidiva, rispetto alla quale
potrebbero essere ritenute equivalenti ma mai
prevalenti; avrebbero cioè il solo effetto di
neutralizzare il rilevante aumento di pena previsto per
la recidiva, ma non potrebbero anche determinare una
diminuzione della pena base.
7. – Escludere che possa assumere
rilevanza, ai fini delle attenuanti generiche, una
condotta, successiva al reato, indicativa di una
positiva evoluzione in atto della personalità del
condannato significa anche porsi in contrasto con l’art.
27, terzo comma, Cost. Infatti l’obiettivo della
rieducazione del condannato, posto da questa norma
costituzionale, non può essere efficacemente perseguito
negando valore a quei comportamenti che manifestano una
riconsiderazione critica del proprio operato e
l’accettazione di quei valori di ordinata e pacifica
convivenza, nella quale si esprime l’oggetto della
rieducazione.
Come questa Corte ha già avuto
occasione di affermare, la finalità rieducativa della
pena non è limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma
costituisce «una delle qualità essenziali e generali che
caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione
normativa, fino a quando in concreto si estingue»
(sentenza n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze
n. 129 del 2008, n. 257 del 2006, n. 341 del 1994). E’
da aggiungere che «tra le finalità che la Costituzione
assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione
generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di
afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di
prevenzione speciale e di rieducazione, che
tendenzialmente comportano una certa flessibilità della
pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del
reo – non può stabilirsi a priori una gerarchia statica
ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni
condizione. Il legislatore può cioè – nei limiti della
ragionevolezza – far tendenzialmente prevalere, di volta
in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a
patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Per un
verso, infatti, il perseguimento della finalità
rieducativa (…) non può condurre a superare
l’afflittività insita nella pena detentiva determinata
nella sentenza di condanna. Per altro verso, il
privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di
difesa sociale non può spingersi fino al punto da
autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa
espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto
dell’istituto della pena» (sentenza n. 306 del 1993; si
veda anche la sentenza n. 257 del 2006).
Posti questi princìpi, si deve
concludere che con l’inasprimento del trattamento
sanzionatorio per i “recidivi reiterati”, autori di
determinati reati, senza la possibilità di tenere conto
del loro comportamento successivo alla commissione del
reato, anche quando è particolarmente meritevole ed
espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, o
addirittura già concluso, la norma in esame, in
violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost.,
privilegiando un profilo general-preventivo, elude la
funzione rieducativa della pena.
8. – Deve essere, pertanto,
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
62-bis, secondo comma, cod. pen., come sostituito
dall’art. 1, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n.
251, nella parte in cui stabilisce che, ai fini
dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo,
non si possa tenere conto della condotta del reo
susseguente al reato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, del
codice penale, come sostituito dall’art. 1, comma 1,
della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice
penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia
di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi,
di usura e di prescrizione), nella parte in cui
stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo
comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto
della condotta del reo susseguente al reato.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7
giugno 2011.
Depositata in Cancelleria il 10
giugno 2011.
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