Con questa sentenza la Suprema Corte ha statuito che è
legittima la determinazione del risarcimento del danno
biologico in misura superiore a quella tabellare in base
al criterio della personalizzazione del risarcimento.
XXX, dipendente della s.p.a. XYXYXY, dopo avere a lungo
lavorato in condizioni di esposizione all'amianto, è
stato colpito da una forma tumorale maligna che, dopo
quasi tre anni di malattia, lo ha condotto alla morte.
Gli eredi hanno chiesto, tra l'altro, al Tribunale di
Genova di condannare l'azienda al risarcimento del danno
subito dal loro congiunto. Il Tribunale ha accolto le
domande e ha determinato il risarcimento in misura pari
al doppio di quanto previsto dalla tabella normalmente
applicata in materia di danno biologico. La decisione è
stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di
Genova. La Gestione Liquidazione dell'azienda ha
proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
della Corte genovese, tra l'altro, per avere determinato
il risarcimento in misura superiore a quella tabellare.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Con riferimento al nuovo modello risarcitorio
patrocinato dalle SU con la sentenza n. 26973 del 2008,
la Corte ricorda che, “nello specifico ambito
lavoristico, che costituisce da sempre terreno di
elezione per l'emersione ed il riconoscimento dei danni
alla persona, per tali intendendosi il complesso dei
pregiudizi che possono investire l'integrità fisica e la
personalità morale del lavoratore si riscontra "un
reticolato di disposizione specifiche volte ad
assicurare una ampia e speciale tutela alla "persona "
del lavoratore con il riconoscimento espresso dei
diritti a copertura costituzionale (art. 32 e 37
Cost.)", così come è frequente, al pari che in altri
settori processuali, l'uso di espressioni molteplici per
indicare pregiudizi e sofferenze, che possono essere
utilizzati con valore meramente descrittivo e non per
indicare tipi autonomi di danno, data l'unitarietà della
categoria del danno non patrimoniale, quale categoria
idonea a ricomprendere "tutti gli interessi inerenti la
persona non connotati da rilevanza economica".
Ne deriva che l'evocazione di definizioni che trovano la
loro origine essenzialmente nella pratica giudiziaria
non può servire, in ogni caso, per una duplicazione ai
fini liquidatori di danno di identico contenuto, fermo
restando la funzione del risarcimento, che è proprio
quella di assicurare una doverosa, giusta ed integrale
finalità recuperatoria (v. in particolare Cass. n.
10864/2009).
In tal contesto, la regola chiave dell'intervento delle
SU - che il risarcimento "deve ristorare interamente il
pregiudizio", a condizione che sia superata la soglia di
offensività, posto che il sistema richiede "un grado
minimo di tolleranza" - impone, in presenza di un
pregiudizio costituzionalmente qualificato, quale
criterio direttivo essenziale per la liquidazione del
danno, una volta esclusa ogni operazione di mera
sommatoria, un criterio di personalizzazione del
risarcimento, che risulti strumentale alla direttiva del
"ristoro del danno nella sua interezza".
Ciò implica, in primo luogo, che, esclusa ogni
duplicazione meramente nominalistica delle voci e dei
titoli di danno, a fronte dell'onnicomprensività che
assume la categoria del torto non patrimoniale, si
dovrà, comunque, tener conto dell'insieme dei pregiudizi
sofferti, purchè sia provata nel giudizio l'autonomia e
distinzione degli stessi, atteso che, ove non si
realizzasse tale condizione, verrebbe vanificata la
necessità di assicurare l'effettività della tutela, con
la piena reintegrazione della sfera giuridica violata.
Ne discende che, in presenza della lesione di un diritto
fondamentale della persona, la personalizzazione (id est
l'integrità) del risarcimento imporrà la considerazione
per ogni conseguenza del fatto lesivo, ivi compresi i
pregiudizi esistenziali (quali le sofferenze di lungo
periodo e il deterioramento obiettivamente accettabile
della qualità della vita, che pur non si accompagnino ad
una contestuale lesione dell'integrità psico - fisica in
senso stretto), che siano riflesso della gravità della
lesione e della sua capacità di compromettere bisogni ed
esigenze fondamentali della persona.
Così come ne deriva che il bisogno, segnalato dalle SU,
che i giudici accertino "l'effettiva entità del
pregiudizio" e provvedano "all'integrale riparazione"
rende il criterio della personalizzazione del danno
tendenzialmente incompatibile con metodologie di calcolo
puramente automatiche ed astratte (v. ad es. Cass. n.
29191/2008, per la quale "vanno esclusi i meccanismi
semplificativi di liquidazione di tipo automatico"), e
cioè che non tengano conto, nell'ambito di una
valutazione esaustiva e complessa e pur facendo ricorso
a criteri predeterminati, delle condizioni personali e
soggettive del lavoratore e della gravità della lesione
e quindi della particolarità del caso concreto e della
reale entità del danno.
Resta fermo, in ogni caso, che spetta al giudice di
merito accertare, ove il danno determini un vulnus per
interessi oggetto di copertura costituzionale, i criteri
che consentano, attraverso una adeguata
personalizzazione del risarcimento, l'integrale
riparazione del pregiudizio, e tale valutazione, se
assistita da motivazione adeguata, coerente sul piano
logico e rispettosa dei principi che regolano la
materia, resta esente dal sindacato di legittimità.
Deve, quindi, in sintesi affermarsi che, in presenza
della lesione di un diritto fondamentale della persona,
la regola per cui il risarcimento deve ristorare
interamente il pregiudizio impone di tener conto
dell'insieme dei pregiudizi sofferti, purchè sia provata
nel giudizio l'autonomia e distinzione degli stessi, e
che, a tal fine, il giudice deve provvedere
all'integrale riparazione secondo un criterio di
personalizzazione del danno, che, escluso ogni
meccanismo semplificato di liquidazione di tipo
automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri
predeterminati, delle condizioni personali e soggettive
del lavoratore e della gravità della lesione, e quindi
della particolarità del caso concreto e della reale
entità del danno. Nel caso in esame la corte
territoriale, facendo corretta applicazione di tali
principi, ha determinato la misura del risarcimento
(quantificato in misura pari al doppio del danno
biologico), tenendo conto delle ripercussioni,
"massimamente penalizzanti", che la malattia aveva avuto
sulla vita del danneggiato, e valorizzando, pertanto,
nell'ottica di un risarcimento personalizzato, la
penosità della sofferenza, le quotidiane difficoltà, le
cure estenuanti e l'assenza di ogni prospettiva di
guarigione, proprie di una persona affetta da una grave
forma tumorale maligna ad esito infausto, che lo aveva
condotto alla morte dopo quasi tre anni di malattia. La
motivazione adottata dei giudici di merito individua le
fonti di convincimento e giustifica in modo logicamente
plausibile ed in assenza di errori di diritto la
decisione, sicchè si sottrae ad alcuna censura in sede
di legittimità. 2.3 Con il quarto motivo la società
ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n.
3 ulteriore violazione dell'art. 2059 c.c., per
costituire duplicazione non consentita del danno la
attribuzione agli eredi di un danno non patrimoniale
iure hereditatis (per invalidità temporanea totale e
relativa personalizzazione) ed il contestuale
riconoscimento iure proprio di un danno non patrimoniale
per la morte del congiunto. Il motivo è infondato.
Ha ritenuto correttamente la corte territoriale che i
resistenti vennero ad essere direttamente danneggiati
per il fatto di essere stati privati rispettivamente del
marito e del padre, subendo la lesione di interessi
tutelati dalla legge, in quanto membri di un nucleo
familiare, privato dell'apporto affettivo ed economico
del capo famiglia, quando ancora quest'ultimo era in
giovane età e gli stessi si trovavano in una fase della
loro vita (il figlio aveva al tempo ventidue anni e
conviveva con i genitori) nella quale potevano, secondo
quanto normalmente avviene in casi simili, far conto
ancora a lungo della sua presenza.
Nessuna duplicazione di titoli risarcitori è, pertanto,
prospettabile, risalendo gli eventi di danno alla
violazione di interessi distinti.
In particolare viene qui in rilievo la tutela
riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i
diritti inviolabili della famiglia (artt 2 29 30 Cost )
a abbiano visto lesi i diritti inviolabili della
famiglia (artt. 2, 29, 30 Cost.) a seguito della perdita
del rapporto parentale; situazione dalla quale
palesemente possono emergere danni non patrimoniali
tutelabili ex art. 2059 c.c. e per la cui liquidazione
devono essere considerati un complesso di elementi (età
della vittima, grado di parentela, particolari
condizioni della famiglia, convivenza ed età dei
familiari) idonei a dimensionare il risarcimento
all'effettiva entità del pregiudizio sofferto (cfr. ad
es. Cass. n. 8827/2003, 8827/2003; Cass. n. 8828/2003,
8828/2003; Cass. n. 28407/2008).
Tali elementi sono stati puntualmente esaminati dalla
corte territoriale con adeguata motivazione, ed il danno
è stato determinato in relazione alla gravità delle
conseguenze che la perdita del congiunto aveva
determinato per il contesto familiare.
Nessuna censura, pertanto, può essere mossa alla
sentenza impugnata, sia per ciò che attiene al
riconoscimento del diritto che ai criteri di
liquidazione adottati.”
Fatto
Con sentenza non definitiva in
data 6.12.2006/14.12.2006 la Corte di appello di Genova,
in riforma della sentenza resa
dal Tribunale di Genova il 19.2/18.5.2004, impugnata da
L. e R. D., nella qualità di
eredi di R.F., accertava l'esistenza di un nesso causale
tra
l'attività lavorativa svolta dal
R. e la malattia che ne aveva determinato il decesso e
dichiarava il diritto degli
eredi all'ammissione al passivo dell'amministrazione
straordinaria della I.A.M. R. P.
spa dei crediti di risarcimento dagli stessi fatti
valere, a
titolo proprio e a titolo
successorio, in relazione alla malattia e alla morte del
de cuius.
Osservava in sintesi la corte
territoriale che gli esiti dell'istruttoria, valutati
alla luce di
un doveroso criterio di
accentuata probabilità logica e di elevata credibilità
razionale,
conducevano a ritenere che, ove
non fosse stata posta in essere dal datore di lavoro la
situazione personale ed
ambientale di esposizione al rischio patogeno specifico
(esposizione ad amianto), non si
sarebbe verificato lo sviluppo nosologico che aveva
condotto al prematuro decesso
del lavoratore.
Con successiva sentenza del
6/23.5.2009 la Corte di appello di Genova, pronunciando
in
via definitiva, riconosceva, a
titolo di risarcimento, a L. e R.D., iure proprio,
l'importo
in favore di ciascuno di Euro
150.000,00 e ad entrambi in solido, iure hereditario,
l'ulteriore somma di Euro
76.000,00.
Per la cassazione delle sentenze
ha proposto distinti ricorsi la Industrie Aeronautiche e
Meccaniche R. P. spa, già in
amministrazione straordinaria ed attualmente in gestione
liquidatoria (di seguito la
società P.), affidandoli a svariati motivi.
Resistono con controricorso D. e
R.L., i quali hanno proposto anche ricorso incidentale,
avverso il quale resiste la
società P.. La società P. ha depositato memoria.
Diritto
I ricorsi vanno preliminarmente
riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
1. Con il primo motivo del
ricorso proposto avverso la sentenza non definitiva la
società
ricorrente, prospettando vizio
di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione di
legge
(art. 360 c.p.c., n. 3 in
relazione agli artt. 2697 e 2087 c.c.), osserva che
l'affermazione
della responsabilità del datore
di lavoro, che presupponeva, fra l'altro, la prova a
carico
del lavoratore della nocività
dell'ambiente di lavoro, era stata affermata dalla corte
territoriale senza che la stessa
trovasse riscontro nei documenti di causa e nella stessa
testimonianza (de relato)
assunta nel corso dell'istruttoria, sicchè la stessa
veniva, in
definitiva, a fondarsi su una
"arbitraria" ricostruzione dei fatti, inidonea ad
integrare una
prova nemmeno presuntiva ex art.
2729 c.c..
Il motivo è inammissibile per
mancata osservanza dell'art. 366 bis c.p.c. applicabile
nel
caso ratione temporis.
Deve, infatti, ribadirsi, in
conformità all'insegnamento di questa Suprema Corte, che
il
principio di diritto che la
parte ha l'onere di formulare espressamente nel ricorso
per
cassazione a pena di
inammissibilità deve consistere in una chiara sintesi
logico -
giuridica della questione
sottoposta al vaglio del giudice di legittimità,
formulata in
termini tali che dalla risposta
negativa o affermativa che ad essa si dia discenda in
modo
univoco l'accoglimento o il
rigetto del gravame, con la conseguenza che deve
ritenersi
inammissibile non solo il
ricorso nel quale il quesito manchi, ma anche quello nel
quale
sia formulato in modo
inconferente rispetto all'illustrazione dei motivi di
impugnazione
(cfr. ad es. SU n. 20360/2007;
Cass. n. 14385/2007), ovvero ove non vi sia
corrispondenza (o vi sia solo
parziale corrispondenza) fra quesito e motivo, sicché il
primo non sia esaustivamente
riferibile alla questione controversa posta col motivo
di
impugnazione, rappresentandone
la sintesi logico - giuridica. Ne resta confermato,
quindi, che il rispetto del
requisito della imprescindibile attinenza dei quesiti al
decisum
è condizione indispensabile per
la valida proposizione del quesito medesimo, sotto pena
della sua genericità e della
conseguente equiparazione, per difetto di rilevanza,
alla
mancanza stessa di un quesito.
Il quesito posto dall'Istituto (con cui si chiede "...se
sia
condizione della responsabilità
del datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 e 2697
c.c., la
prova, a carico del lavoratore,
della nocività dell'ambiente e, pertanto, di cassare la
decisione...anche per mancanza
di tale condizione necessaria") non risulta conforme ai
canoni interpretativi indicati,
in quanto generico, perchè inidoneo ad esprimere, in
termini riassuntivi, ma
esaustivi e concretamente pertinenti all'articolazione
delle
censure in relazione alla
fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo
addebitato alla
decisione, e tale da risolversi
essenzialmente in un quesito, del tutto astratto, sui
criteri
che presiedono
all'interpretazione della legge.
Si deve soggiungere che la
ricorrente prospetta, altresì, ai sensi dell'art. 360
c.p.c., n. 5
insufficiente e contraddittoria
motivazione in ordine a fatti processuali controversi e
decisivi per il giudizio, senza
che, tuttavia, risulti, per come richiesto dalla norma
indicata, un quid pluris
rispetto all'illustrazione dei motivi, e cioè una
autonoma e
sintetica rilevazione dei fatti
processuali rispetto ai quali si assume il vizio di
motivazione.
Deve, infatti, confermarsi, in
aderenza all'insegnamento di questa Suprema Corte, come
l'onere imposto in parte qua
dall'art. 366 bis c.p.c. deve essere adempiuto non solo
illustrando il motivo, ma anche
formulando, al termine di esso e , comunque, in una
parte del motivo a ciò
espressamente dedicata, una indicazione riassuntiva e
sintetica
che costituisca un quid pluris
rispetto all'illustrazione del ricorso e valga ad
evidenziare,
in termini immediatamente
percepibili, il vizio motivazionale prospettato, e
quindi
l'ammissibilità del ricorso
stesso (cfr. Cass. ord. n. 8897/2008; Cass. ord. n.
20603/2007; Cass. ord. n.
16002/2007).
1.2 Con il secondo motivo,
svolto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la società
ricorrente
prospetta vizio di motivazione
con riguardo alla diagnosi della malattia che aveva
condotto al decesso del
lavoratore, e quindi alla individuazione della causa del
decesso
stesso, ed, al riguardo, fra
l'altro rileva che la corte territoriale aveva
apoditticamente
privilegiato quella di
mesotelioma pleurico, pur in mancanza di adeguati
riscontri
sperimentali.
Anche tale motivo è
inammissibile, per difetto delle condizioni poste
dall'art. 366 bis
c.p.c., ultima parte con
riferimento alla prospettazione del vizio di
motivazione, che, per
quanto si è già detto, non può
risolversi nella mera illustrazione del motivo, né
desumersi dalla stessa.
1.3 Con il terzo motivo la
ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di
norme
di diritto (art 360 c.p.c., n. 3
in relazione agli artt. 2087 e 2697 c.c.) e vizio di
motivazione (art. 360 c.p.c., n.
5), rilevando che, nell'affermare la responsabilità del
datore di lavoro, la corte di
merito aveva trascurato gli elementi di segno contrario
emergenti nel corso del
giudizio, ed, in specie, dalla relazione di consulenza.
Il quesito formulato a
conclusione del motivo ("se sia condizione necessaria
della
responsabilità del datore di
lavoro, ai sensi dell'art. 2087 e 2697 c.c., la prova
rigorosa
del nesso causale tra noci vita
dell'ambiente di lavoro e danno, prova nella fattispecie
assolutamente carente") presenta
caratteri del tutto analoghi a quello relativo al primo
motivo, sicché vanno ripetute le
stesse considerazioni già svolte per escluderne la
conformità ai requisiti previsti
dall'art. 366 bis c.p.c..
1.4 Con il quarto motivo,
infine, denuncia ancora violazione delle stesse
disposizioni di
legge da ultimo indicate ed
osserva, in proposito, che la sentenza impugnata aveva
omesso di verificare quali
fossero le conoscenze scientifiche e tecniche che, al
momento
della presunta inalazione delle
fibre di amianto, risultavano idonee a dar contezza del
fenomeno, specificando
concretamente le misure atte ad evitare l'insorgere
della
malattia.
Il motivo è infondato.
I giudici di appello hanno,
infatti, correttamente osservato come già al tempo
dell'esposizione del lavoratore
al rischio morbigeno era nota la intrinseca pericolosità
delle fibre dell'amianto
impiegato nelle lavorazioni, tanto che l'uso delle
stesse era
sottoposto a particolari cautele
indipendentemente dalla concentrazione per centimetro
cubo.
Tale constatazione trova
conferma nella giurisprudenza di questa Suprema Corte,
la
quale ha reiteratamente
osservato (v. ad es già Cass. n. 4721/1998) come la
pericolosità
dell'amianto fosse sicuramente
nota da epoca ben anteriore al 1970, per come dimostra
un complesso significativo di
disposizioni normative in tal senso rilevanti, quali,
fra le
altre, il D.P.R. n. 303 del
1956, art. 21 il quale stabiliva che nei lavori che
danno
normalmente luogo alla
formazione di polveri di qualsiasi specie, il datore di
lavoro è
tenuto ad adottare provvedimenti
atti a impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo
sviluppo e la diffusione
nell'ambiente, precisando, altresì, che "le misure da
adottare a
tal fine devono tenere conto
della natura delle polveri e della loro concentrazione"
(e
cioè, devono avere
caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri
stesse), o
ancora, nell'ambito del medesimo
testo, l'art. 9, che prevedeva il ricambio di aria,
l'art.
15, che prevedeva che, anche
fuori dell'orario di lavoro, si dovesse ridurre al
minimo il
sollevamento delle polveri e,
proprio a tal fine, prescriveva l'uso di aspiratori,
l'art. 18,
che proibiva l'accumulo di
sostanze nocive, l'art. 19, che imponeva di adibire
locali
separati per le lavorazioni
insalubri, l'art. 25, che prescriveva, quando potesse
esservi
dubbio sulla pericolosità
dell'atmosfera, che i lavoratori fossero forniti di
apparecchi di
protezione. Correttamente,
pertanto, la corte territoriale ha ritenuto che, in un
ambiente
di lavoro esposto al rischio del
sollevamento delle polveri, la legge già esistente
all'epoca imponeva di impedire
che ciò avvenisse, facendo onere al datore di lavoro di
tener conto della natura (e
della specifica pericolosità) delle polveri al fine di
adottare
tutte le misure idonee a ridurre
il rischio da contatto.
2. Con il primo motivo del
ricorso proposto avverso la sentenza definitiva, la
società
ricorrente, lamentando
violazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 101 e
209
nonchè dell'art. 112 c.p.c.
rileva che la corte ligure aveva indebitamente
condannato la
procedura al pagamento di somme
in favore degli eredi del lavoratore, mentre avrebbe
dovuto limitarsi ad accertare
l'entità dei crediti da ammettersi al passivo, così come
statuito con la pronuncia non
definitiva.
Con riferimento alla censura in
esame, deve constatarsi che la sentenza definitiva ha,
in
realtà, erroneamente adottato
una statuizione di condanna, laddove con la sentenza non
definitiva si era solo
riconosciuto il diritto degli eredi del lavoratore
all'ammissione al
passivo della procedura dei
crediti di risarcimento dagli stessi fatti valere a
titolo
proprio e successorio.
Nondimeno, il motivo appare
infondato, se si considera che, con riferimento ai
profili
diversi dalla determinazione del
quantum, l'unica statuizione rilevante è quella
contenuta nella sentenza non
definitiva, che ha accertato il diritto reclamato,
precisandone contenuto e limiti,
e che ciò appare del tutto coerente con il principio per
cui le statuizioni contenute
nella sentenza non definitiva non possono essere
modificate
o revocate con la sentenza
definitiva, in quanto i singoli punti della prima
possono
essere sottoposti a riesame solo
con le impugnazioni, dal momento che la non
definitività concerne soltanto
la non integralità della decisione della controversia,
ma
non anche la mutabilità, da
parte dello stesso giudice, di ciò che è stato deciso.
Quanto
ora detto trova conforto, oltre
che in un dictum più volte ribadito da questa Corte
(cfr.
Cass. n. 2332/2001; Cass. n.
4821/1999; Cass. n. 451/1981), anche nel principio
dell'economia processuale ed in
quello della ragionevole durata (art. 111 Cost., comma
2) dal momento che la
quantificazione ad opera della sentenza definitiva dei
danni,
ripetutamente rivendicati nel
corso del giudizio, per configurare la parte
consequenziale
e terminale della domanda
dispiegata, finisce per rendere la decisione finale
esaustiva
della intera iniziale domanda e
per esaurire in via definitiva ogni possibile
contenzioso
tra le parti.
2.2 Con il secondo motivo,
prospettando, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3
violazione
dell'art. 2059 c.c., la società
ricorrente osserva che la corte territoriale, operando
una
indebita ed immotivata
duplicazione del danno biologico, ne aveva, con non
consentito
automatismo, raddoppiato
l'ammontare.
Con il terzo motivo la società
ricorrente denuncia, altresì, vizio di motivazione (art.
360
c.p.c., n. 5) con riferimento
alla mancanza di una motivazione idonea a giustificare
l'asserita personalizzazione del
risarcimento riconosciuto, essendosi la corte
territoriale
limitata a svolgere, al
riguardo, solo generiche considerazioni.
Il secondo ed il terzo motivo
possono essere esaminati congiuntamente, in quanto
connessi, e vanno rigettati.
Giova, al riguardo, premettere
come, con riferimento al nuovo modello risarcitorio
patrocinato dalle SU con la
sentenza n. 26973 del 2008, questa Corte abbia già
osservato che, nello specifico
ambito lavoristico, che costituisce da sempre terreno di
elezione per l'emersione ed il
riconoscimento dei danni alla persona, per tali
intendendosi il complesso dei
pregiudizi che possono investire l'integrità fisica e la
personalità morale del
lavoratore si riscontra "un reticolato di disposizione
specifiche
volte ad assicurare una ampia e
speciale tutela alla "persona " del lavoratore con il
riconoscimento espresso dei
diritti a copertura costituzionale (art. 32 e 37
Cost.)", così
come è frequente, al pari che in
altri settori processuali, l'uso di espressioni
molteplici
per indicare pregiudizi e
sofferenze, che possono essere utilizzati con valore
meramente
descrittivo e non per indicare
tipi autonomi di danno, data l'unitarietà della
categoria del
danno non patrimoniale, quale
categoria idonea a ricomprendere "tutti gli interessi
inerenti la persona non
connotati da rilevanza economica".
Ne deriva che l'evocazione di
definizioni che trovano la loro origine essenzialmente
nella pratica giudiziaria non
può servire, in ogni caso, per una duplicazione ai fini
liquidatori di danno di identico
contenuto, fermo restando la funzione del risarcimento,
che è proprio quella di
assicurare una doverosa, giusta ed integrale finalità
recuperatoria
(v. in particolare Cass. n.
10864/2009).
In tal contesto, la regola
chiave dell'intervento delle SU - che il risarcimento
"deve
ristorare interamente il
pregiudizio", a condizione che sia superata la soglia di
offensività, posto che il
sistema richiede "un grado minimo di tolleranza" -
impone, in
presenza di un pregiudizio
costituzionalmente qualificato, quale criterio direttivo
essenziale per la liquidazione
del danno, una volta esclusa ogni operazione di mera
sommatoria, un criterio di
personalizzazione del risarcimento, che risulti
strumentale
alla direttiva del "ristoro del
danno nella sua interezza".
Ciò implica, in primo luogo,
che, esclusa ogni duplicazione meramente nominalistica
delle voci e dei titoli di
danno, a fronte dell'onnicomprensività che assume la
categoria
del torto non patrimoniale, si
dovrà, comunque, tener conto dell'insieme dei pregiudizi
sofferti, purchè sia provata nel
giudizio l'autonomia e distinzione degli stessi, atteso
che,
ove non si realizzasse tale
condizione, verrebbe vanificata la necessità di
assicurare
l'effettività della tutela, con
la piena reintegrazione della sfera giuridica violata.
Ne discende che, in presenza
della lesione di un diritto fondamentale della persona,
la
personalizzazione (id est
l'integrità) del risarcimento imporrà la considerazione
per ogni
conseguenza del fatto lesivo,
ivi compresi i pregiudizi esistenziali (quali le
sofferenze di
lungo periodo e il
deterioramento obiettivamente accettabile della qualità
della vita, che
pur non si accompagnino ad una
contestuale lesione dell'integrità psico - fisica in
senso
stretto), che siano riflesso
della gravità della lesione e della sua capacità di
compromettere bisogni ed
esigenze fondamentali della persona.
Così come ne deriva che il
bisogno, segnalato dalle SU, che i giudici accertino
"l'effettiva entità del
pregiudizio" e provvedano "all'integrale riparazione"
rende il
criterio della personalizzazione
del danno tendenzialmente incompatibile con
metodologie di calcolo puramente
automatiche ed astratte (v. ad es. Cass. n. 29191/2008,
per la quale "vanno esclusi i
meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo
automatico"), e cioè che non
tengano conto, nell'ambito di una valutazione esaustiva
e
complessa e pur facendo ricorso
a criteri predeterminati, delle condizioni personali e
soggettive del lavoratore e
della gravità della lesione e quindi della particolarità
del caso
concreto e della reale entità
del danno.
Resta fermo, in ogni caso, che
spetta al giudice di merito accertare, ove il danno
determini un vulnus per
interessi oggetto di copertura costituzionale, i criteri
che
consentano, attraverso una
adeguata personalizzazione del risarcimento, l'integrale
riparazione del pregiudizio, e
tale valutazione, se assistita da motivazione adeguata,
coerente sul piano logico e
rispettosa dei principi che regolano la materia, resta
esente
dal sindacato di legittimità.
Deve, quindi, in sintesi
affermarsi che, in presenza della lesione di un diritto
fondamentale della persona, la
regola per cui il risarcimento deve ristorare
interamente
il pregiudizio impone di tener
conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti, purché sia
provata nel giudizio l'autonomia
e distinzione degli stessi, e che, a tal fine, il
giudice
deve provvedere all'integrale
riparazione secondo un criterio di personalizzazione del
danno, che, escluso ogni
meccanismo semplificato di liquidazione di tipo
automatico,
tenga conto, pur nell'ambito di
criteri predeterminati, delle condizioni personali e
soggettive del lavoratore e
della gravità della lesione, e quindi della
particolarità del
caso concreto e della reale
entità del danno. Nel caso in esame la corte
territoriale,
facendo corretta applicazione di
tali principi, ha determinato la misura del risarcimento
(quantificato in misura pari al
doppio del danno biologico), tenendo conto delle
ripercussioni, "massimamente
penalizzanti", che la malattia aveva avuto sulla vita
del
danneggiato, e valorizzando,
pertanto, nell'ottica di un risarcimento personalizzato,
la
penosità della sofferenza, le
quotidiane difficoltà, le cure estenuanti e l'assenza di
ogni
prospettiva di guarigione,
proprie di una persona affetta da una grave forma
tumorale
maligna ad esito infausto, che
lo aveva condotto alla morte dopo quasi tre anni di
malattia. La motivazione
adottata dei giudici di merito individua le fonti di
convincimento e giustifica in
modo logicamente plausibile ed in assenza di errori di
diritto la decisione, sicché si
sottrae ad alcuna censura in sede di legittimità. 2.3
Con il
quarto motivo la società
ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n.
3 ulteriore
violazione dell'art. 2059 c.c.,
per costituire duplicazione non consentita del danno la
attribuzione agli eredi di un
danno non patrimoniale iure hereditatis (per invalidità
temporanea totale e relativa
personalizzazione) ed il contestuale riconoscimento iure
proprio di un danno non
patrimoniale per la morte del congiunto. Il motivo è
infondato.
Ha ritenuto correttamente la
corte territoriale che i resistenti vennero ad essere
direttamente danneggiati per il
fatto di essere stati privati rispettivamente del marito
e
del padre, subendo la lesione di
interessi tutelati dalla legge, in quanto membri di un
nucleo familiare, privato
dell'apporto affettivo ed economico del capo famiglia,
quando
ancora quest'ultimo era in
giovane età e gli stessi si trovavano in una fase della
loro vita
(il figlio aveva al tempo
ventidue anni e conviveva con i genitori) nella quale
potevano,
secondo quanto normalmente
avviene in casi simili, far conto ancora a lungo della
sua
presenza.
Nessuna duplicazione di titoli
risarcitori è, pertanto, prospettabile, risalendo gli
eventi di
danno alla violazione di
interessi distinti.
In particolare viene qui in
rilievo la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano
visto lesi
i diritti inviolabili della
famiglia (artt 2 29 30 Cost ) a abbiano visto lesi i
diritti
inviolabili della famiglia
(artt. 2, 29, 30 Cost.) a seguito della perdita del
rapporto
parentale; situazione dalla
quale palesemente possono emergere danni non
patrimoniali
tutelabili ex art. 2059 c.c. e
per la cui liquidazione devono essere considerati un
complesso di elementi (età della
vittima, grado di parentela, particolari condizioni
della
famiglia, convivenza ed età dei
familiari) idonei a dimensionare il risarcimento
all'effettiva entità del
pregiudizio sofferto (cfr. ad es.
Cass. n. 8827/2003; Cass. n.
8828/2003; Cass. n. 28407/2008).
Tali elementi sono stati
puntualmente esaminati dalla corte territoriale con
adeguata
motivazione, ed il danno è stato
determinato in relazione alla gravità delle conseguenze
che la perdita del congiunto
aveva determinato per il contesto familiare.
Nessuna censura, pertanto, può
essere mossa alla sentenza impugnata, sia per ciò che
attiene al riconoscimento del
diritto che ai criteri di liquidazione adottati.
2.4 Con l'ultimo mezzo del
ricorso proposto avverso la sentenza definitiva, la
società
ricorrente, infine, denuncia
vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), per essere
la
liquidazione compiuta dalla
corte territoriale sulla base dei valori massimi delle
tabelle
in uso presso l'ufficio
giudiziario "sostanzialmente immotivata".
Il motivo è inammissibile per
mancanza dei requisiti prescritti dall'art. 366 bis
c.p.c. con
riferimento al vizio di
motivazione (v. punto 1).
3. Con l'unico motivo del
ricorso incidentale gli eredi di R. F. lamentano, ai
sensi
dell'art. 360 c.p.c., n. 3
violazione dell'art. 32 Cost. osservando come, sulla
base della
prospettiva di tutela offerta da
tale precetto, devono ritenersi suscettibili di
risarcimento
tutti gli esiti lesivi
dell'integrità psico -fisica, ivi compresi gli effetti
lesivi aventi natura
di postumi permanenti.
Il motivo è infondato.
La corte territoriale ha, in
realtà, fatto corretta applicazione dei principi posti
dalle SU
con la sentenza n. 26973 del
2008 e, tenuto conto dell'esigenza di evitare la
duplicazione dei titoli di
risarcimento, ha dato atto di come, nel caso,
l'invalidità
temporanea si fosse protratta
dalla diagnosi della malattia al decesso del lavoratore,
con
la conseguenza che, mancando una
cesura temporale fra il periodo di invalidità
permanente e quello di
invalidità temporanea, non seguita dalla cessazione
della
malattia e dalla stabilizzazione
dei relativi postumi, il riconoscimento di entrambi i
titoli
di danno avrebbe, in effetti,
comportato il ristoro, non consentito, di un identico
pregiudizio, dovendo il danno
permanente rapportarsi allo stesso periodo di incidenza
dell'invalidità temporanea.
4. Entrambi i ricorsi vanno,
pertanto, rigettati.
In considerazione dell'esito
complessivo del giudizio, ricorrono giusti motivi per
compensare fra la parti 2/3
delle spese di causa, ponendole, per il resto, a carico
della
società ricorrente.
P.Q.M.
LA CORTE riunisce i ricorsi e li rigetta, condanna la
società ricorrente al pagamento di
1/3 delle spese, che liquida
nell'intero in Euro 38,00 per esborsi ed in Euro
4.000,00 per
onorari di avvocato, oltre a spese generali, IVA e
CPA. Così deciso in Roma, il 14
gennaio 2011. |