In relazione alla contestazione
della violazione di omessa comunicazione dei dati del
conducente di un veicolo di cui all’art. 126 bis CdS,
ove la contestazione della violazione principale sia
avvenuta tardivamente (per superamento del termine di
cui all’art. 201 comma 1 CdS), va esclusa la sussistenza
dell’obbligo, per il proprietario del veicolo, di
comunicare gli estremi del conducente del veicolo al
momento del rilevamento dell’infrazione; con la
conseguenza che risulta illegittima la pretesa
sanzionatoria connessa alla violazione per omessa
comunicazione, contestata, successivamente alla prima,
con apposito verbale di accertamento
Cassazione, sez. II, 20 maggio
2011, n. 11185
(Pres. Settimij – Rel. D’Ascola)
Fatto e diritto
1) Si apprende dalla sentenza
impugnata - e in parte dal ricorso - che il 6 settembre
2005 veniva accertata dalla Polizia Municipale di
Trieste un’infrazione stradale commessa dal conducente
di un veicolo di proprietà di K. S..
Il relativo verbale veniva
notificato alla proprietaria del veicolo il 18 febbraio
2006, con l’invito a comunicare i dati di identità e di
patente di guida dell’effettivo trasgressore. La S.
provvedeva al pagamento della sanzione per l’infrazione
contestata.
Con raccomandata spedita il 5
maggio 2006 (pur se datata 20 aprile 2006, cfr sentenza
d’appello, pag. 3, terz’ultimo rigo) comunicava di non
essere in grado di fornire i dati richiesti per le
seguenti ragioni: a) perché la contestazione era
pervenuta cinque mesi dopo la notifica del verbale
relativo alla prima violazione; b) perché era cittadina
austriaca che si trovava all’epoca del fatto presso la
famiglia di origine; c) perché coniugata con un avvocato
italiano al quale aveva lasciato in uso il veicolo per
le esigenze di lui e degli altri professionisti dello
studio legale. Il 25 settembre 2006 veniva notificato
alla S. verbale di contestazione "elevato l’8 settembre
2006", relativo alla violazione commessa con la mancata
positiva risposta all’invito a comunicare i dati del
conducente effettivo trasgressore. L’opposizione
proposta a questa sanzione con atto del 26 ottobre 2006
veniva respinta dal giudice di pace di Trieste il 23
gennaio 2007.
L’appello della opponente, che
ribadiva le tesi circa la non addebitabilità della
omissione e l’incostituzionalità della pretesa, veniva
rigettato dal tribunale di Trieste il 4 novembre 2008,
con sentenza notificata il 21 novembre successivo.
Il giudice d’appello riteneva che
la ricorrente non aveva ottemperato all’invito a
comunicare nel termine di legge i dati richiestile,
perché, pur prescindendo dalla idoneità della
comunicazione di mancata identificazione del conducente,
la comunicazione stessa era avvenuta fuori termine,
essendo stata eseguita il 5 maggio 2006 e non entro il
venti marzo 2006, allo scadere dei trenta giorni dalla
data della notifica del primo verbale, avvenuta, come
detto, il 18 febbraio. Escludeva poi la sussistenza di
un giustificato motivo dell’omissione.
La S. ha proposto tempestivo
ricorso per cassazione, al quale il Comune di Trieste ha
resistito con controricorso.
Il giudice relatore ha avviato la
causa a decisione con il rito previsto per il
procedimento in camera di consiglio. È stata depositata
memoria. L’adunanza camerale, tenutasi il 5 novembre, è
stata riconvocata il 3 maggio 2011.
2) La relazione preliminare ha
rilevato che il ricorso è inammissibile e comunque
manifestamente infondato. Parte ricorrente, che non
individua in apposita rubrica i motivi di censura e le
norme violate, formula due quesiti di diritto.
Il primo attiene alla ritenuta
tardività della comunicazione ed è così formulato:
"Caducato il DL 21 settembre 2005 n. 184, che modificava
secondo le indicazioni della Corte Costituzionale,
l’art. 126 bis c. 2 CdS, nel senso che la comunicazione
dei dati del conducente doveva essere fornita all’organo
di polizia procedente entro sessanta giorni dalla data
di notifica del verbale di contestazione, può dirsi
rimasta in vigore la precedente formulazione
dell’articolo di cui sopra, già rilevata in contrasto
con la Costituzione, secondo cui detta comunicazione
doveva essere invece effettuata entro trenta giorni?".
Il secondo quesito concerne "un
secondo errore ed una motivazione gravemente carente"
che parte ricorrente ascrive alla sentenza impugnata e
che sono riferiti alle ragioni per le quali il
proprietario del veicolo ignorava il nome del conducente
trasgressore, ragioni ritenute inadeguate dal tribunale,
con sentenza che secondo la ricorrente non sarebbe
motivata specificamente.
Il primo quesito è viziato da
carenza di concretezza, mancando ogni riferimento alla
fattispecie esaminata.
In proposito le Sezioni Unite hanno
insegnato che "a norma dell’art. 366 "bis" c.p.c., è
inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui
quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di
carattere generale e astratto, priva di qualunque
indicazione sul tipo della controversia e sulla sua
riconducibilita1 alla fattispecie in esame, tale da non
consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel
senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il
quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo
con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del
suddetto articolo (SU 6420/08; 11210/08).
Orbene, il quesito in
considerazione è del tutto inidoneo a soddisfare i
requisiti previsti dall’art. 366 bis cod. proc. civ.,
per la cui osservanza avrebbe dovuto compendiare: a) la
riassuntiva esposizione degli elementi di fatto
sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica
indicazione della regola di diritto applicata dal quel
giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso
del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di
specie (Cass. 19769/08).
Il tutto doveva essere esposto in
termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica
della questione, finalizzata a porre il giudice della
legittimità in condizione di comprendere - in base alla
sola sua lettura - l’errore di diritto asseritamente
compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo
enunciando una "regula iuris", (Cass. 2658/08), così
rispondendo al miglior esercizio della funzione
nomofilattica della Corte di legittimità (Cass.
26020/08).
La mancanza di concretezza del
quesito si desume, nel caso in esame, non solo dalla
assenza nel quesito di ogni riferimento alla
fattispecie, ma anche dalla inidoneità a risolvere in
concreto la controversia in favore dell’istante. Va
infatti osservato che ove fosse possibile ritenere il
quesito autoindividuante in relazione al caso deciso
(per il fatto di avere il giudice di merito preferito la
tesi della necessità di rispondere entro trenta giorni
come previsto dal testo originario dell’art. 126 bis, e
non sessanta come sostenuto dall’opponente rifacendosi
alle modifiche normative successive), parimenti la
questione non sarebbe risolutiva. Le date riportate in
sentenza evidenziano infatti che la comunicazione venne
effettuata ben oltre i sessanta giorni, atteso che la
spedizione avvenne il 5 maggio 2006, cioè 76 giorni dopo
il 18 febbraio, data in cui era stata contestata la
prima violazione ed era stato contestualmente intimato
l’invito di comunicare ì dati del conducente.
Pertanto la censura, al di là della
norma applicabile ratione temporis nella specie (per via
del sovrapporsi di tre versioni dell’art. 126 bis e di
Corte Cost. n. 27/05) è comunque inammissibile, perché
priva di aderenza alla realtà fattuale accertata in
sentenza e non impugnata.
In proposito mette conto
evidenziare che l’accertamento in ordine all’invio della
comunicazione contenuto nel passo (citato supra) della
sentenza d’appello non è stato oggetto di critica, né è
stato smentito con gli opportuni riferimenti
documentali. Neppure si è dato atto in ricorso della
produzione del documento attestante una diversa data di
spedizione della comunicazione. Vale in proposito
evidenziare, come ha già fatto il giudice relatore, che
parte ricorrente ha anche omesso la specifica
indicazione degli atti processuali e dei documenti sui
quali il ricorso si fonda (art. 366 cpc, come
interpretato da Cass. 23019/07). La specifica
indicazione, quando riguardi un documento prodotto in
giudizio, postula che sì individui dove sia stato
prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art.
369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., anche che esso
sia prodotto in sede di legittimità (SU 28547/08 e, più
dettagliatamente SU 7161/2010). Le omissioni di cui
all’art. 366 cpc comportano, giova ricordare,
l’inammissibilità del ricorso, ove quest’ultimo si debba
fondare su tali atti e documenti.
3) Il secondo quesito posto è stato
formulato (pag. 5 del ricorso) con due alternative: la
prima versione è la seguente: "Può il proprietario del
veicolo dirsi obbligato a comunicare i dati personali e
della patente del conducente al momento della
contravvenzione, in conformità all’art. 126 bis CdS.,
anche se il verbale gli viene notificato oltre i 150
giorni previsti per la validità della notifica?".
La seconda versione è la seguente:
"Deve considerarsi l’apprezzato ritardo della notifica
della violazione oltre i cinque mesi concessi dalla
legge, eventualmente in concomitanza ad altri fattori
causali di rilievo, "giustificato e documentato" motivo
di omissione della comunicazione di cui all’art. 126 bis
CdS?".
Anche questo quesito è
inammissibile. Rilevano in questo caso non solo le
carenze individuate con riguardo al primo, relative: a)
alla mancanza di riferimenti alla concreta fattispecie e
all’incompletezza della sintesi logico-giuridica della
questione; b) alla omessa indicazione degli atti
processuali (atto originario di opposizione e atto di
appello) indispensabili per l’ammissibilità dello
scrutinio, ma anche la mancata indicazione del fatto
controverso relativamente al prospettato vizio di
motivazione e la novità della questione giuridica
affrontata dal quesito, come prontamente segnalato dal
controricorso.
Il Comune di Trieste nel proprio
scritto difensivo ha messo in evidenza che la censura
relativa alla "asserita tardività" della notifica del
verbale è stata formulata per la prima volta in sede di
legittimità.
Il rilievo coglie nel segno, atteso
che i riferimenti al tempo trascorso dalla constatazione
della infrazione, nei precedenti gradi di giudizio erano
funzionali a sostenere la sussistenza del giustificato
motivo della condotta omissiva contestata. Invero la
questione posta con la prima versione del quesito è
diversa rispetto a quella, riecheggiata nella seconda
versione del quesito, attinente al giustificato motivo
della omissione, questione questa che in giurisprudenza
è risolta considerando giustificate sostanzialmente solo
la circolazione del mezzo contro la volontà del
proprietario o dopo la cessione del veicolo a terzi
(cfr. Cass. 22042/09, richiamata dalla relazione
preliminare). Si mira infatti ad affermare, più
nettamente, che la comunicazione degli estremi del
conducente non è dovuta (e non può essere pretesa
dall’amministrazione) per il solo fatto del decorso di
un tempo superiore ai 150 giorni, stabilito dall’art.
201 bis CdS (nel testo vigente all’epoca), prima della
notificazione al proprietario del veicolo del verbale di
accertamento dell’infrazione al quale accede
l’intimazione contenente l’invito a comunicare i dati
del conducente.
La questione del limite temporale,
più chiaramente trattata dalla stessa parte ricorrente
nella memoria ex art. 380 bis cpc, non risulta però
posta in questi termini al giudice d’appello, come si
evince dalle conclusioni di parte appellante riportate
in epigrafe, che alludevano, oltre che al giustificato
motivo, a ulteriore profilo, costituito dalla mancanza
di coscienza e volontà dell’omissione, involgente l’art.
3 della legge 689/81 e quindi ben diverso da quello
esposto in sede di legittimità.
Se così è, è d’uopo ricordare: A)
che per evitare una statuizione di inammissibilità, per
novità della censura, la parte aveva l’onere di allegare
l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice
di merito, e, per il principio di autosufficienza del
ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del
giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla
Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale
asserzione, prima di esaminare nel merito la questione
stessa. B) che il giudizio di accertamento della pretesa
sanzionatoria dell’amministrazione, introdotto con
ricorso in opposizione, ai sensi dell’art 22 legge 24
novembre 1981 n. 689, è delimitato per l’opponente dalla
causa petendi fatta valere con quel ricorso e per
l’amministrazione dal divieto di dedurre motivi o
circostanze diverse da quelli enunciati con
l’ingiunzione, a fondamento della pretesa sanzionatolo,
(Cass. 17625/07); C) che, per conseguenza, il giudice,
salve le ipotesi di inesistenza, non ha il potere di
rilevare ragioni di invalidità del provvedimento opposto
o del procedimento che l’ha preceduto non dedotte
nell’atto di opposizione, nemmeno sotto il profilo della
disapplicazione del provvedimento stesso, e che
l’opponente, se ha facoltà di modificare l’originaria
domanda nei limiti consentiti dagli art. 183 e 184 cod.
proc. civ., non può tuttavia introdurre in corso di
causa motivi dei quali il ricorso era del tutto privo
(Cass. 6013/03) e far valere vizi diversi da quelli
esposti, entro i termini di legge, con l’atto
introduttivo del giudizio (Cass. 12544/03; 1533/05).
4) Il ricorso di K.S. è dunque
inammissibile con riguardo a ognuno dei profili
proposti.
Esso ha però fatto emergere una
questione che risulta nuova in giurisprudenza e che può
interessare, soprattutto in sede di opposizione davanti
ai giudici di pace, una diffusa platea di controversie.
Si tratta di stabilire se la
tardività (per superamento del termine di cui all’art.
201 comma 1 CdS) della contestazione della violazione
principale renda illegittima la sanzione de qua perché
esclude la sussistenza dell’obbligo, per il proprietario
del veicolo, di comunicare gli estremi del conducente
del veicolo al momento del rilevamento dell’infrazione;
con la conseguenza che risulterebbe illegittima la
pretesa sanzionatoria connessa alla violazione per
omessa comunicazione, successivamente contestata con
apposito verbale di accertamento.
5) Il Collegio reputa opportuno e
possibile affrontare l’esame della questione, per
giungere a enunciare nell’interesse della legge il
principio di diritto al quale il giudice di merito
avrebbe dovuto attenersi.
È qui applicabile il comma terzo
dell’art. 363 cpc, a tenore del quale il principio di
diritto può essere pronunciato dalla Corte anche
d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è
dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la
questione decisa è di particolare importanza.
In dottrina sono state manifestate
perplessità, o addirittura contrarietà, in ordine al
potere delle Sezioni semplici della Corte di decidere in
via di certi orari la questione giuridica posta dal
ricorso dichiarato inammissibile.
Si è detto che almeno di regola
dovrebbero essere investite le Sezioni Unite o comunque
disposta la trattazione in pubblica udienza.
Quest’ultima tesi ha trovato isolata eco
giurisprudenziale, in ragione del fatto che il rito
camerale di cui agli artt. 375 e 380-bis cod. proc.
civ., costituirebbe uno strumento acceleratorio del
giudizio per l’esercizio di ben definite tipologie
decisionali, tra le quali non rientrerebbe
l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse
della legge (Cass. 28327/09).
Queste opinioni, puntualmente
criticate da altra parte della dottrina, non convincono.
A favore del potere delle Sezioni
semplici milita la circostanza che il testo normativo,
che menziona genericamente la Corte, si è ben guardato
dal prevedere che il Collegio debba necessariamente
innescare il meccanismo di cui all’art. 374 cpc per la
rimessione alle Sezioni unite.
Ferma la possibilità di rimettere
la causa al Primo Presidente perché ne investa le
Sezioni Unite in presenza di questione di diritto già
decisa in modo contrastato dalle sezioni semplici o che
presenti questione di massima di particolare importanza,
al Collegio giudicante è consentito tuttavia di
affrontare la questione giuridica per enunciare un
principio di diritto che sia comunque particolarmente
importante.
Tale facoltà risponde all’esigenza
di decidere più sollecitamente la questione,
verosimilmente già studiata almeno da presidente e
relatore, tanto se la ragione di inammissibilità sia
emersa in corso di adunanza, quanto in presenza di
declaratoria di inammissibilità prospettata nella
relazione preliminare.
Risponde altresì all’opportunità,
laddove si tratti di questioni nuove o comunque non tali
da meritare l’immediata attenzione delle Sezioni Unite,
di consentire che si dispieghi al più presto l’esame
delle sezioni semplici, il confronto di opinioni, il
dialogo con la dottrina; di verificare sollecitamente le
ricadute anche sulla giurisprudenza di merito, di
avviare quel reticolo sedimentato di giudizi che da
forma al diritto vivente, il quale non è articolato solo
dalla voce privilegiata del consesso apicale.
Né si deve trascurare che la sede
camerale è quella che propriamente è chiamata a sancire
l’inammissibilità di un ricorso secondo il rito di cui
agli artt. 375 e segg. cpc.
Se il legislatore ha inteso
estendere l’istituto di cui all’art. 363 cpc rispetto
alla conformazione iniziale, che lo ancorava alle
sollecitazioni del procuratore generale, ciò ha fatto
ben conoscendo che l’occasione di dichiarare
l’inammissibilità del ricorso - e nel contempo di voler
pronunciare il principio di diritto nell’interesse della
legge - sarebbe sorta, principalmente, in sede di camera
di consiglio.
Non v’è da sorprendersi di questa
scelta, poiché la composizione della Corte in adunanza
camerale è identica a quella che essa ha in pubblica
udienza, essendo il Collegio formato sempre da cinque
magistrati della Sezione. La concreta organizzazione
della Corte consente di aggiungere che a questo ufficio
sono chiamati (tanto dopo l’istituzione della Sesta
Sezione, L. 69/2009, quanto al tempo della Struttura per
l’esame preliminare formata in occasione della riforma
del 2006) tutti i magistrati delle sezioni - o
contemporaneamente o con periodici avvicendamenti -,
restando così escluso che in sede camerale siano
impiegati soltanto consiglieri meno esperti o
autorevoli.
Da disattendere è infine anche
l’orientamento dottrinale che vuol limitare il potere
d’ufficio di cui al comma terzo dell’art. 363,
all’enunciazione del principio di diritto attinente le
ragioni per le quali il ricorso è stato dichiarato
inammissibile.
Va affermato per contro che il
chiaro intento del legislatore, che traspare dall’art.
363, comma 3, è quello di favorire l’emergere,
nonostante l’inammissibilità del ricorso, del principio
di diritto cui il giudice di secondo grado avrebbe
dovuto attenersi nel decidere la questione - di merito o
processuale - che era stata fatta oggetto del giudizio
di legittimità.
In tal senso si muove
inequivocabilmente l’interpretazione data nei primi anni
di applicazione dell’istituto dalle Sezioni Unite e
dalle Sezioni semplici della Corte, le quali, come
constatato in dottrina, hanno respinto le
interpretazioni restrittive e hanno mostrato largo
favore verso la nuova opportunità di pervenire a una
pronuncia nomofilattica, cogliendo appieno le
potenzialità deflattive dell’istituto.
6) La questione giuridica
occasionata dalla controversia in esame e qui riassunta
sub 4) deve essere risolta nel senso che era postulato
dal ricorso.
Va ricordato che l’art. 201 CdS
impone la notifica dei verbali di contestazione delle
infrazioni al codice della strada nel termine di
centocinquanta giorni (oggi 90) dalla commessa
violazione, con la conseguenza che la notifica tardiva
rende illegittima la sanzione.
La peculiare sanzione prevista
dall’art. 126 bis CdS, che deriva dalla omessa o
negativa risposta all’invito dell’amministrazione a
comunicare gli estremi del conducente del veicolo con
cui sia stata commessa l’infrazione, pur venendo
definita con verbale di accertamento separato, trae
origine dalla prima contestazione.
Si pretende infatti che il
proprietario del veicolo sia in grado di conoscere il
nome del conducente, dovendo avere il controllo dell’uso
del veicolo e consapevolezza mnemonica degli
utilizzatori effettivi di esso.
Come ha osservato la memoria della
ricorrente, questa pretesa dell’amministrazione non può
però protrarsi per un tempo illimitato, tenendo
obbligato il proprietario anche se l’invito gli venga
inoltrato tardivamente. Il testo dell’art. 126 bis
prevede che la comunicazione debba essere inoltrata
entro sessanta giorni dalla data di notifica del verbale
di contestazione. Detta notifica può però avere effetto
solo se ritualmente eseguita, cioè se pervenuta
all’obbligato entro i 150 giorni dalla commessa
violazione. Tale interpretazione si impone per coerenza
logica con quanto previsto dall’art. 201 CdS in ordine
alla illegittimità della sanzione conseguente alla
violazione principale.
Il legame tra le due violazioni è
con tutta evidenza inscindibile. Si badi che lo sforzo
mnemonico del proprietario del veicolo è esigibile solo
se contenuto in ragionevoli tempi, che sono dal
legislatore previsti in relazione al fatto che la
sanzione è - in questi casi necessariamente - irrogata
in relazione a ipotesi in cui è mancata la contestazione
immediata dell’infrazione (art. 201 CdS, comma 1 bis).
Pertanto l’obbligo del proprietario (comunicazione entro
sessanta giorni dalla notificazione del verbale di
contestazione) può scattare solo se sorretto da
notificazione tempestiva di detto verbale.
Va aggiunto che non rileva che il
primo verbale, ove tardivamente notificato, non sia
stato oggetto di opposizione. La sanzione conseguente
all’omessa comunicazione viene infatti accertata in un
secondo momento, a seguito della verifica del mancato
adempimento all’invito. Solo il verbale di sanzione ex
art. 126 bis CdS - se notificato - può e deve essere
opposto, facendo valere la ragione di illegittimità di
tale pretesa, costituita dal tardivo inoltro del verbale
di contestazione della prima violazione.
Va pertanto affermato,
nell’interesse della legge, il seguente principio di
diritto:
"In relazione alla contestazione
della violazione di omessa comunicazione dei dati del
conducente di un veicolo di cui all’art. 126 bis CdS,
ove la contestazione della violazione principale sia
avvenuta tardivamente (per superamento del termine di
cui all’art. 201 comma 1 CdS), va esclusa la sussistenza
dell’obbligo, per il proprietario del veicolo, di
comunicare gli estremi del conducente del veicolo al
momento del rilevamento dell’infrazione; con la
conseguenza che risulta illegittima la pretesa
sanzionatoria connessa alla violazione per omessa
comunicazione, contestata, successivamente alla prima,
con apposito verbale di accertamento".
Le spese di questo grado di
giudizio possono essere interamente compensate, atteso
che la questione posta con il ricorso ha fatto emergere
l’illegittimità della pretesa sanzionatoria, non senza
considerare che la "particolarità del caso" aveva
indotto la stessa ricorrente a non chiederne la
rifusione in caso di esito favorevole, volendo essa
agire "per un sostanziale principio di equità".
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il
ricorso.
In relazione al secondo motivo di
ricorso pronuncia nell’interesse della legge principio
di diritto nei sensi di cui in motivazione.
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