La sentenza resa dalla Corte d’Appello di Roma in data 9
febbraio 2011 si è pronunciata sostanzialmente su di un
unico motivo di impugnazione con cui gli appellanti,
congiunti del D., lamentavano l’errore in cui era
incorso il Tribunale nel negare la sussistenza del nesso
di causalità tra il sinistro di cui il defunto era
rimasto vittima in data 23.05.2001 e la successiva morte
di lui a seguito di suicidio in data 23.11.2002.
A sostegno delle loro deduzioni gli appellanti, dal
punto di vista probatorio, hanno rammentato la
documentazione da essi prodotta e, in particolare, tre
certificati medici, posteriori all’incidente che aveva
visto coinvolto il loro congiunto, e dai quali si
desumeva che lo stesso era in preda ad uno stato
ansioso-depressivo su base reattiva insorto «a detta del
p., a seguito di incidente stradale».
Sotto il profilo
strettamente giuridico, gli stessi si sono richiamati
alla giurisprudenza di legittimità, rilevando come «in applicazione del principio — definibile della causalità umana —
accolto dal nostro ordinamento in materia di
responsabilità per fatto illecito (cfr. art. 1223 e 2056
c.c. e art. 41 c.p.), secondo cui può ritenersi
sussistente il nesso eziologico tra una condotta e
l'evento se l'uomo con la sua azione ha posto in essere
un fattore causale del risultato e questo non è dovuto
al concorso di circostanze eccezionali ed atipiche, il
suicidio non può essere considerato un evento idoneo ad
interrompere il nesso di causalità tra fatto illecito e
morte del soggetto leso nel caso in cui in quest'ultimo,
a causa del fatto illecito, si siano determinati gravi
processi di infermità psichica, concretizzantisi in
psicosi depressive o in altre gravi forme di alterazione
dell'umore e del sistema nervoso e di autocontrollo,
rispetto alle quali il suicidio non si configuri quale
evento straordinario o atipico».
(Cass. 23 febbraio 2000, n. 2037, in Danno e Resp.,
2000, 12, 1203)
La Corte d’Appello tuttavia ha ritenuto che tale
pronuncia della Cassazione, anziché essere di ausilio
alle tesi degli appellanti, venga a confermare la
rottura del nesso di causalità tra l’incidente subito
dal defunto e il suo successivo gesto suicidiario.
E’ necessario infatti scindere i piani di analisi,
distinguendo il suicidio in sè considerato dal suicidio
quale elemento di una catena causale e ammettendo che
«il suicido, in quanto atto volontario, non costituisce,
di necessità, causa sopravvenuta da sola sufficiente a
determinare l’evento, come tale rilevante per gli
effetti di cui all’art. 41 c.p.. [si conferma che esso]
non interrompe il nesso di causalità [nella misura in
cui è] prodotto da uno stato di coazione determinato
dalla malattia del suicida — in genere un disturbo di
tipo depressivo — indotta dalla condotta aquiliana del
danneggiante».
Così in un precedente del 1996 (Cass. civ., 7 febbraio
1996, n. 969, in Foro It., 1996, I, 2482) la Suprema
Corte, vagliando il tragico caso di un militare, che
coinvolto in un incidente comportante gravi lesioni alla
gamba, disperato, nell’immediatezza dei fatti, si era
sparato un colpo di pistola alla tempia, aveva ritenuto
che «il dolore fisico, l' immediata consapevolezza della
gravità della lesione e la subitanea prefigurazione
della futura menomazione avevano causato in lui una
reazione psicogena abnorme di trasformazione degli
impulsi etero-aggressivi in impulsi auto-aggressivi,
così da determinarlo in modo incoercibile al suicidio».
In quel caso, nell’intervallo di tempo tra il primo
evento e l’atto autolesivo, necessario perché il ferito
potesse rendersi conto delle lesioni patite, causa
diretta della sua abnorme e incoercibile reazione, si è
verificata una di quelle reazioni primitive a corto
circuito, a carattere automatico, nel senso che si è
passati direttamente dallo stimolo alla risposta
attraverso meccanismi psicologici elementari. In
conclusione, quindi, il fatto autolesivo non ha
interrotto il nesso di causalità con l’investimento
addebitabile ai danneggianti.
La stessa Corte d’Appello nota come il carattere abnorme
della reazione suicidiaria connessa all’incidente non
possa essere qualificata in termini di eccezionalità
(tale da interrompere il nesso causale), bensì
semplicemente di scarsa (o scarsissima) frequenza
statistica della conseguenza. Sostanzialmente per
valutare la solidità del nesso non è sufficiente avere
riguardo al carattere intrinseco dell’effetto (ossia che
si sia concretato in una reazione non consueta), ma al
contesto, in cui il fatto è maturato, in termini di
causa-effetto e al profilo soggettivo dell’agente.
A conferma di tale tesi, la Corte romana richiama antica
giurisprudenza di merito: in tal senso, dal versante
dell’indennizzo di infortunio sul lavoro, nel caso di
suicidio a sette anni di distanza dall’amputazione di un
arto (Pret. Salerno, 11 gennaio 1995, Lav. giur., 1995,
466), così come nel caso di un bracciante agricolo che,
avendo subito a seguito di un infortunio alcune fratture
a una gamba, era rimasto ossessionato dal timore di non
poter guarire e riprendere il lavoro, ed infine si era
suicidato (App. Messina, 19 luglio 1960, Giur. sic.,
1960, 922).
Nello svolgere il ragionamento sul caso sottoposto alla
sua attenzione, la Corte coglie anche l’occasione per
riproporre (in un palese obiter dictum) una
valutazione di estrema civiltà e sensibilità verso la
condizione umana, notando come il suicidio sia un gesto
estremo di autodeterminazione che non può essere né
deplorato, né stigmatizzato, ma solo accolto quale
«estremo scatto di volontà che bisogna rispettare» (sul
punto le classiche riflessioni di P. Barile, Diritti
dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna,
1984, 59 ss. e 385 ss.).
Ciò detto, la Corte sottolinea come la risarcibilità del
danno prodottosi nei confronti dei congiunti, a seguito
del suicidio provocato da un illecito aquiliano, sia
predicabile solo quando il disturbo psichico determinato
dall’illecito sia fonte del suicidio. A tal fine appare
indispensabile valutare la sussistenza del nesso di
causalità tra illecito e atto auto-lesivo, in forza dei
consolidati canoni posti dalla giurisprudenza di
legittimità per cui:
«Un evento dannoso è da considerare causato sotto il
profilo materiale da un altro se, ferme restando le
altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio
sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle
serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento
causante, non appaiano del tutto inverosimili
(cosiddetta teoria della causalità adeguata o della
regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una
teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del
danno). In tal senso viene in rilievo una nozione di
prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze
dannose, cui allude l'art. 1225 c.c., ed anche dalla
prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poiché
essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza
dell'uomo medio, ossia all'elemento soggettivo
dell'illecito, e concerne, invece, le regole statistiche
e probabilistiche necessarie per stabilire il
collegamento di un certo evento ad un fatto. Nell'ambito
di detta nozione di prevedibilità in tema di
responsabilità aquiliana sono risarcibili anche i danni
indiretti e mediati, purché appunto siano un effetto
normale secondo il suddetto principio della causalità
adeguata»
(Cass. 31 maggio 2005, n. 11609, in MGC, 2005).
Chiariamo anzitutto cosa si debba intendere per
causalità adeguata, che rappresenta il criterio principe
per l’accertamento del nesso. Tale teoria, pur non
rinnegando la tesi condizionalistica, tende a
selezionare, tra i molteplici antecedenti causali
equivalenti, quelli veramente rilevanti in sede
giuridico-penale. L’esigenza di selezionare tra i
diversi antecedenti si avverte in particolare nelle
ipotesi di decorso causale atipico, caratterizzato cioè
da una successione degli eventi che fuoriesce dagli
schemi dell’ordinaria prevedibilità.
La teoria della causalità adeguata considera causa solo
quella condizione o antecedente che è idoneo a produrre
l’evento dannoso in base ad un criterio di prevedibilità
basato sull’ id quod plaerumque accidit.
In tal senso ancora la giurisprudenza di legittimità
per cui «il tema del nesso causale in sede civile è
destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più
pragmatici) confini di una dimensione "storica", o, se
si vuole, di politica del diritto, che, come si è da più
parti osservato, di volta in volta individuerà i termini
dell'astratta riconducibilità delle conseguenze dannose
delle proprie azioni in capo all'agente, secondo un
principio guida che potrebbe essere formulato,
all'incirca, in termini di rispondenza, da parte
dell'autore del fatto illecito, delle conseguenze che
"normalmente" discendono dal suo atto, a meno che non
sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli
non ha il dovere o la possibilità di agire (la cd.
teoria della regolarità causale e del novus actus
interveniens). In questo modo, il nesso causale diviene
la misura della relazione probabilistica concreta (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra
comportamento e fatto dannoso (quel comportamento e quel
fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello
scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene
alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (o,
se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la
funzione - anche - preventiva della responsabilità
civile, che si estende sino alla previsione delle
conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in
mancanza di tale avvedutezza) andrà più propriamente ad
iscriversi entro l'orbita soggettiva (la colpevolezza)
dell’illecito»
(Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619, in
www.personaedanno.it).
Quindi, per la teoria della regolarità causale,
ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common
law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze
della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono
sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha
agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per
tutte le conseguenze assolutamente atipiche o
imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve
compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con
valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex
post, al momento del verificarsi delle conseguenze
dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di
quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni
secondo le quali la valutazione della prevedibilità
obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la
condotta è stata posta in essere, operandosi una
"prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se,
al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto
imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data
conseguenza. In altri termini ciò che rileva è che
l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma
(per così dire) da parte delle regole statistiche e/o
scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da
parte delle stesse un giudizio di non improbabilità
dell’evento.
Il principio della regolarità causale diviene la misura
della relazione probabilistica in astratto (e svincolata
da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed
evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche
sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto
ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza
comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi
entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza)
dell'illecito.
Inoltre se l’accertamento della prevedibilità
dell’evento, ai fini della regolarità causale fosse
effettuato ex post, il nesso causale sarebbe
rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il
fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che
quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la
possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e
quindi dell'accertamento positivo del nesso causale
(Cass. sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, in Danno e
Resp., 2008, 10, 1011).
Chiusa questa parentesi sulla teoria della causalità, si
può tornare al merito della sentenza commentata, notando
come il fatto che la morte sia stata provocata in via
diretta dal gesto autolesivo compiuto dalla vittima di
un precedente illecito, dal quale erano scaturite
lesioni psico-fisiche non certo gravi, sembra abbia
indotto, a prima vista, i giudici a una particolare
cautela e scrupolo nell’esame degli elementi probatori
al fine di valutare la sussistenza di un legame di
derivazione tra condotta dell’autore dell’illecito e
perdita della vita.
In tal senso la Corte sottolinea a fondamento
dell'avvenuta rottura del nesso causale: a) la banalità
delle lesioni subite dal D. rispetto alla gravità, se
non all’enormità delle lesioni verificatesi negli altri
casi oggetto di giurisprudenza sul punto; b) il fatto
che gravi lesioni possano trascendere in esiti psichici
nefasti, giacché essi vanno a colpire il complessivo ed
unitario equilibrio psico-fisico della persona, non
altrettanto può dirsi di microlesioni (come quelle
subite dal D.) determinatesi per effetto di sinistri
tanto diffusi e comuni da avere interessato una larga
fetta della popolazione; c) sebbene l’eziologia del
disturbo depressivo sia particolarmente difficile da
diagnosticare e i casi accertati si riferiscono tutti a
condizioni generali molto gravi (cancro, AIDS, lesioni
alla spina dorsale, malattie terminali); d) il fatto
che, nella stessa giurisprudenza, la frequenza di
suicidi indotti da lesioni lievi risulti essere
pressoché inesistente: ed anzi del tutto inesistente (in
dottrina P. Cendon, L. Gaudino, Il suicidio e la
responsabilità, in Riv. critica dir. privato, 1987, 107;
L. Gaudino, Condotte autolesive e risarcimento del
danno, Milano, 1995; Id., Brevi appunti in tema di
suicidio post-traumatico, Giur. merito, 1999, 1076
ss.).
«In definitiva - scrive la Corte - ove pure si ritenga
che questa Corte non abbia elementi per escludere con
certezza che il sinistro subito dal D., pur nella sua
modestia, abbia potuto — come un piccolo sasso che
rotola può scatenare una valanga — determinare
l'insorgenza della depressione e, da questa, il
suicidio, è invece possibile affermare con certezza che,
ove pure una simile concatenazione fosse stata
sussistente, essa avrebbe dato luogo ad un evento
abnorme, ossia del tutto eccezionale, collocato in
definitiva ben al di fuori del paradigma della causalità
adeguata».
Si può concordare con la soluzione data dalla Corte
d’Appello di Roma che si fonda (più che altro) sulle
carenze probatorie in punto di ricostruzione
dell’effettiva sequenza eziologica determinatasi nella
vicenda, meno pregnante, a mio avviso, è l’argomento
della banalità delle lesioni subite a seguito del
sinistro rispetto alla reazione suicidiaria, che sembra
provare troppo.
Si noti peraltro come già in giurisprudenza si possono
rintracciare casi in cui alla relativa irrilevanza del
danno subito sia seguita una reazione “forte” da parte
della vittima: oltre alla pronuncia di Cassazione già
citata (Cass. 23 febbraio 2000, n. 2037, in Danno e
Resp., 2000, 12, 1203) si rammenta, in particolare, una
decisione del Tribunale di Milano che ha esteso la
responsabilità del soggetto che aveva provocato la
caduta di un motociclista anche alle conseguenze che
quest’ultimo si era procurato lanciandosi dalla finestra
del nosocomio nel quale era ricoverato, a distanza di
mesi dal sinistro, per paura di sottoporsi a un
intervento chirurgico necessario per limitare le
conseguenze del sinistro stesso (Trib. Milano, 23
febbraio 2000, n. 2037, in Giur.it., 1990, I, II, 54; si
veda in dottrina M. Capecchi, Il nesso di causalità2,
Cedam, Padova, 2005, 131).
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