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NON C’E’ NESSO. NOTA SUL SUICIDIO DELLA VITTIMA DI UN INCIDENTE” – Stefano ROSSI

 

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La sentenza resa dalla Corte d’Appello di Roma in data 9 febbraio 2011 si è pronunciata sostanzialmente su di un unico motivo di impugnazione con cui gli appellanti, congiunti del D., lamentavano l’errore in cui era incorso il Tribunale nel negare la sussistenza del nesso di causalità tra il sinistro di cui il defunto era rimasto vittima in data 23.05.2001 e la successiva morte di lui a seguito di suicidio in data 23.11.2002. 

A sostegno delle loro deduzioni gli appellanti, dal punto di vista probatorio, hanno rammentato la documentazione da essi prodotta e, in particolare, tre certificati medici, posteriori all’incidente che aveva visto coinvolto il loro congiunto, e dai quali si desumeva che lo stesso era in preda ad uno stato ansioso-depressivo su base reattiva insorto «a detta del p., a seguito di incidente stradale».

Sotto il profilo strettamente giuridico, gli stessi si sono richiamati alla giurisprudenza di legittimità, rilevando come «in applicazione del principio — definibile della causalità umana — accolto dal nostro ordinamento in materia di responsabilità per fatto illecito (cfr. art. 1223 e 2056 c.c. e art. 41 c.p.), secondo cui può ritenersi sussistente il nesso eziologico tra una condotta e l'evento se l'uomo con la sua azione ha posto in essere un fattore causale del risultato e questo non è dovuto al concorso di circostanze eccezionali ed atipiche, il suicidio non può essere considerato un evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra fatto illecito e morte del soggetto leso nel caso in cui in quest'ultimo, a causa del fatto illecito, si siano determinati gravi processi di infermità psichica, concretizzantisi in psicosi depressive o in altre gravi forme di alterazione dell'umore e del sistema nervoso e di autocontrollo, rispetto alle quali il suicidio non si configuri quale evento straordinario o atipico».
(Cass. 23 febbraio 2000, n. 2037, in Danno e Resp., 2000, 12, 1203) 

La Corte d’Appello tuttavia ha ritenuto che tale pronuncia della Cassazione, anziché essere di ausilio alle tesi degli appellanti, venga a confermare la rottura del nesso di causalità tra l’incidente subito dal defunto e il suo successivo gesto suicidiario. 

E’ necessario infatti scindere i piani di analisi, distinguendo il suicidio in sè considerato dal suicidio quale elemento di una catena causale e ammettendo che «il suicido, in quanto atto volontario, non costituisce, di necessità, causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, come tale rilevante per gli effetti di cui all’art. 41 c.p.. [si conferma che esso] non interrompe il nesso di causalità [nella misura in cui è] prodotto da uno stato di coazione determinato dalla malattia del suicida — in genere un disturbo di tipo depressivo — indotta dalla condotta aquiliana del danneggiante». 

Così in un precedente del 1996 (Cass. civ., 7 febbraio 1996, n. 969, in Foro It., 1996, I, 2482) la Suprema Corte, vagliando il tragico caso di un militare, che coinvolto in un incidente comportante gravi lesioni alla gamba, disperato, nell’immediatezza dei fatti, si era sparato un colpo di pistola alla tempia, aveva ritenuto che «il dolore fisico, l' immediata consapevolezza della gravità della lesione e la subitanea prefigurazione della futura menomazione avevano causato in lui una reazione psicogena abnorme di trasformazione degli impulsi etero-aggressivi in impulsi auto-aggressivi, così da determinarlo in modo incoercibile al suicidio». 

In quel caso, nell’intervallo di tempo tra il primo evento e l’atto autolesivo, necessario perché il ferito potesse rendersi conto delle lesioni patite, causa diretta della sua abnorme e incoercibile reazione, si è verificata una di quelle reazioni primitive a corto circuito, a carattere automatico, nel senso che si è passati direttamente dallo stimolo alla risposta attraverso meccanismi psicologici elementari. In conclusione, quindi, il fatto autolesivo non ha interrotto il nesso di causalità con l’investimento addebitabile ai danneggianti. 

La stessa Corte d’Appello nota come il carattere abnorme della reazione suicidiaria connessa all’incidente non possa essere qualificata in termini di eccezionalità (tale da interrompere il nesso causale), bensì semplicemente di scarsa (o scarsissima) frequenza statistica della conseguenza. Sostanzialmente per valutare la solidità del nesso non è sufficiente avere riguardo al carattere intrinseco dell’effetto (ossia che si sia concretato in una reazione non consueta), ma al contesto, in cui il fatto è maturato, in termini di causa-effetto e al profilo soggettivo dell’agente. 

A conferma di tale tesi, la Corte romana richiama antica giurisprudenza di merito: in tal senso, dal versante dell’indennizzo di infortunio sul lavoro, nel caso di suicidio a sette anni di distanza dall’amputazione di un arto (Pret. Salerno, 11 gennaio 1995, Lav. giur., 1995, 466), così come nel caso di un bracciante agricolo che, avendo subito a seguito di un infortunio alcune fratture a una gamba, era rimasto ossessionato dal timore di non poter guarire e riprendere il lavoro, ed infine si era suicidato (App. Messina, 19 luglio 1960, Giur. sic., 1960, 922). 

Nello svolgere il ragionamento sul caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte coglie anche l’occasione per riproporre (in un palese obiter dictum) una valutazione di estrema civiltà e sensibilità verso la condizione umana, notando come il suicidio sia un gesto estremo di autodeterminazione che non può essere né deplorato, né stigmatizzato, ma solo accolto quale «estremo scatto di volontà che bisogna rispettare» (sul punto le classiche riflessioni di P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, 59 ss. e 385 ss.). 

Ciò detto, la Corte sottolinea come la risarcibilità del danno prodottosi nei confronti dei congiunti, a seguito del suicidio provocato da un illecito aquiliano, sia predicabile solo quando il disturbo psichico determinato dall’illecito sia fonte del suicidio. A tal fine appare indispensabile valutare la sussistenza del nesso di causalità tra illecito e atto auto-lesivo, in forza dei consolidati canoni posti dalla giurisprudenza di legittimità per cui:

«Un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno). In tal senso viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze dannose, cui allude l'art. 1225 c.c., ed anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poiché essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell'uomo medio, ossia all'elemento soggettivo dell'illecito, e concerne, invece, le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto. Nell'ambito di detta nozione di prevedibilità in tema di responsabilità aquiliana sono risarcibili anche i danni indiretti e mediati, purché appunto siano un effetto normale secondo il suddetto principio della causalità adeguata»
(Cass. 31 maggio 2005, n. 11609, in MGC, 2005).

Chiariamo anzitutto cosa si debba intendere per causalità adeguata, che rappresenta il criterio principe per l’accertamento del nesso. Tale teoria, pur non rinnegando la tesi condizionalistica, tende a selezionare, tra i molteplici antecedenti causali equivalenti, quelli veramente rilevanti in sede giuridico-penale. L’esigenza di selezionare tra i diversi antecedenti si avverte in particolare nelle ipotesi di decorso causale atipico, caratterizzato cioè da una successione degli eventi che fuoriesce dagli schemi dell’ordinaria prevedibilità. 

La teoria della causalità adeguata considera causa solo quella condizione o antecedente che è idoneo a produrre l’evento dannoso in base ad un criterio di prevedibilità basato sull’ id quod plaerumque accidit. 

In tal senso ancora la giurisprudenza di legittimità per cui «il tema del nesso causale in sede civile è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione "storica", o, se si vuole, di politica del diritto, che, come si è da più parti osservato, di volta in volta individuerà i termini dell'astratta riconducibilità delle conseguenze dannose delle proprie azioni in capo all'agente, secondo un principio guida che potrebbe essere formulato, all'incirca, in termini di rispondenza, da parte dell'autore del fatto illecito, delle conseguenze che "normalmente" discendono dal suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli non ha il dovere o la possibilità di agire (la cd. teoria della regolarità causale e del novus actus interveniens). In questo modo, il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso (quel comportamento e quel fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione - anche - preventiva della responsabilità civile, che si estende sino alla previsione delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza) andrà più propriamente ad iscriversi entro l'orbita soggettiva (la colpevolezza) dell’illecito»
(Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619, in www.personaedanno.it). 

Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento. 

Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. 

Inoltre se l’accertamento della prevedibilità dell’evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (Cass. sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, in Danno e Resp., 2008, 10, 1011). 

Chiusa questa parentesi sulla teoria della causalità, si può tornare al merito della sentenza commentata, notando come il fatto che la morte sia stata provocata in via diretta dal gesto autolesivo compiuto dalla vittima di un precedente illecito, dal quale erano scaturite lesioni psico-fisiche non certo gravi, sembra abbia indotto, a prima vista, i giudici a una particolare cautela e scrupolo nell’esame degli elementi probatori al fine di valutare la sussistenza di un legame di derivazione tra condotta dell’autore dell’illecito e perdita della vita. 

In tal senso la Corte sottolinea a fondamento dell'avvenuta rottura del nesso causale: a) la banalità delle lesioni subite dal D. rispetto alla gravità, se non all’enormità delle lesioni verificatesi negli altri casi oggetto di giurisprudenza sul punto; b) il fatto che gravi lesioni possano trascendere in esiti psichici nefasti, giacché essi vanno a colpire il complessivo ed unitario equilibrio psico-fisico della persona, non altrettanto può dirsi di microlesioni (come quelle subite dal D.) determinatesi per effetto di sinistri tanto diffusi e comuni da avere interessato una larga fetta della popolazione; c) sebbene l’eziologia del disturbo depressivo sia particolarmente difficile da diagnosticare e i casi accertati si riferiscono tutti a condizioni generali molto gravi (cancro, AIDS, lesioni alla spina dorsale, malattie terminali); d) il fatto che, nella stessa giurisprudenza, la frequenza di suicidi indotti da lesioni lievi risulti essere pressoché inesistente: ed anzi del tutto inesistente (in dottrina P. Cendon, L. Gaudino, Il suicidio e la responsabilità, in Riv. critica dir. privato, 1987, 107; L. Gaudino, Condotte autolesive e risarcimento del danno, Milano, 1995; Id., Brevi appunti in tema di suicidio post-traumatico, Giur. merito, 1999, 1076 ss.). 

«In definitiva - scrive la Corte - ove pure si ritenga che questa Corte non abbia elementi per escludere con certezza che il sinistro subito dal D., pur nella sua modestia, abbia potuto — come un piccolo sasso che rotola può scatenare una valanga — determinare l'insorgenza della depressione e, da questa, il suicidio, è invece possibile affermare con certezza che, ove pure una simile concatenazione fosse stata sussistente, essa avrebbe dato luogo ad un evento abnorme, ossia del tutto eccezionale, collocato in definitiva ben al di fuori del paradigma della causalità adeguata». 

Si può concordare con la soluzione data dalla Corte d’Appello di Roma che si fonda (più che altro) sulle carenze probatorie in punto di ricostruzione dell’effettiva sequenza eziologica determinatasi nella vicenda, meno pregnante, a mio avviso, è l’argomento della banalità delle lesioni subite a seguito del sinistro rispetto alla reazione suicidiaria, che sembra provare troppo.
Si noti peraltro come già in giurisprudenza si possono rintracciare casi in cui alla relativa irrilevanza del danno subito sia seguita una reazione “forte” da parte della vittima: oltre alla pronuncia di Cassazione già citata (Cass. 23 febbraio 2000, n. 2037, in Danno e Resp., 2000, 12, 1203) si rammenta, in particolare, una decisione del Tribunale di Milano che ha esteso la responsabilità del soggetto che aveva provocato la caduta di un motociclista anche alle conseguenze che quest’ultimo si era procurato lanciandosi dalla finestra del nosocomio nel quale era ricoverato, a distanza di mesi dal sinistro, per paura di sottoporsi a un intervento chirurgico necessario per limitare le conseguenze del sinistro stesso (Trib. Milano, 23 febbraio 2000, n. 2037, in Giur.it., 1990, I, II, 54; si veda in dottrina M. Capecchi, Il nesso di causalità2, Cedam, Padova, 2005, 131).


 

 

 

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