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LE CC.DD. NORME PENALI IN BIANCO" - Riccardo MAZZON

 

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Il problema delle c.d. norme penali in bianco, problema particolarmente rilevante principalmente in riferimento alla loro costituzionalità, nasce dalla controversa interpretazione delle disposizioni che prevedono, nel nostro ordinamento, il c.d. principio di legalità e, in particolare, quella sua specificazione che è il principio della riserva di legge.
Messi in luce quelli che sono gli obiettivi, in generale, del principio di legalità e, in particolare, del principio della riserva di legge - l’articolo 1 del codice penale e l’articolo 25, comma 2, della Costituzione hanno la funzione, oltre che di tutelare i diritti e le libertà dei cittadini, anche di garantire la reale separazione dei poteri dello Stato: in particolare, prevedendo il principio della riserva di legge, si dirigono ad impedire che il potere esecutivo vada ad interferire con il potere legislativo, al quale solo è riservata la possibilità di statuire in materia penale (la garanzia della non ingerenza del potere giudiziario è invece più specificamente tutelata dal principio c.d. di determinatezza: per le implicazioni del principio in tema di concorso di persone nel reato, si veda  "Il concorso di reati e il concorso di persone nel reato", Cedam 2011) -, e pacificamente affermato che solo la legge può statuire in materia penale, ci si chiede se, ed in quale misura, la legge stessa possa attribuire una qualche funzione integratrice delle norme penali ad atti del potere esecutivo, quali regolamenti, ordini e ordinanze: in questo contesto si colloca la nozione di norma penale in bianco:
“costituiscono norme penali in bianco quelle che, contenendo già un precetto e una sanzione (determinata almeno nei limiti massimi), rinviano per la specificazione o integrazione del contenuto del precetto ad un atto normativo di grado inferiore o a un provvedimento della p.a. o ad una legge extrapenale. In applicazione di tale principio l'art. 221 t.u.l.p.s. va considerato norma penale in bianco, specificata o integrata dalle norme contenute nel regolamento del medesimo testo unico”.
Cassazione penale, sez. un., 24 marzo 1984 Romano Cass. pen. 1984, 2372.
A questo proposito, un primo problema da considerare è quello della natura della riserva di legge prevista dalla Costituzione: è una riserva assoluta, in base alla quale viene esclusa qualsiasi ingerenza di atti normativi di rango inferiore alla legge ordinaria, o è una riserva relativa, che consente quindi alla legge stessa di deferire la specificazione della norma a una fonte subordinata (atto dell’esecutivo), fissati i principi regolatori?
La dottrina prevalente esclude quest’ultima ipotesi e si schiera a favore della riserva assoluta, la quale non è però considerata da tutti con lo stesso, pregnante significato: ed è proprio dal diverso modo di considerare il contenuto della riserva assoluta di legge che derivano le diverse nozioni ed interpretazioni della c.d. norma penale in bianco.
Innanzi tutto, è basilare determinare quanto più possibile la nozione di norme penale in bianco.
La dottrina assolutamente prevalente, seguita dalla giurisprudenza, esclude che si possa parlare di norma penale in bianco nei casi in cui il legislatore rinvii, per la completa determinazione del precetto, a provvedimenti amministrativi già emanati dal potere esecutivo e non più suscettibili di modificazione per aver perso l’amministrazione il potere di modificare tali atti.
Tale opinione è ormai pacifica (e sembra pienamente condivisibile), in quanto il legislatore considera il rinvio all’atto amministrativo come semplice tecnica legislativa, senza attribuire alcun potere a fonti secondarie.
I problemi sorgono nel momento in cui il legislatore rinvia ad atti, riguardo ai quali il potere esecutivo conserva ancora la possibilità di modificarne la disciplina: in questo caso, si ha un vero e proprio rinvio ad un potere diverso da quello legislativo (quello esecutivo appunto) ed è proprio con riferimento a questi casi che la dottrina prevalente parla di norma penale in bianco.
È ormai pacifico che l’eventuale rinvio, ad un potere diverso da quello legislativo, non possa riguardare quella parte di norma incriminatrice consistente nella sanzione; quest’ultima deve essere completamente determinata dalla legge e solo si discute se una qualche integrazione, da parte di fonti secondarie, sia consentita per il precetto.
Una prima questione sorge per quelle norme (ad esempio l'articolo 650 del codice penale, oppure l'articolo 329 de medesimo codice) che sanzionano la disobbedienza ad un successivo provvedimento posto in essere dall’Autorità (amministrativa, ma, probabilmente, anche giudiziaria):
“l'art. 650 c.p. contiene una norma penale in bianco che, con la sua forza sanzionatoria, è diretta a soddisfare l'interesse della p.a. ad ottenere da privato cittadino una certa prestazione o comunque un certo comportamento”.
Cassazione penale, sez. I, 24 giugno 1996, n. 8529 De Paoli Giur. it. 1997, II, 590
Non tutti considerano queste norme come norme penali in bianco.
Chi ritiene che le norme aventi queste caratteristiche non rientrino nella categoria delle c.d. norme penali in bianco, fa notare come il provvedimento dell’Autorità non configuri un atto normativo, non presentando i requisiti di generalità ed astrattezza che contraddistinguono tali atti: la norma penale è completamente determinata, e nella sanzione e nel precetto, dalla legge, la quale stabilisce il dovere di obbedire ai provvedimenti dell’Autorità competente; l’atto dell’Autorità configura un semplice presupposto.
La giurisprudenza prevalente, invece, almeno per quanto concerne l’articolo 650 del codice penale, ravvisa una norma penale in bianco, nell’accezione di chi considera tali tipi di norma come aventi carattere meramente sanzionatorio: la stessa giurisprudenza salva, peraltro, la costituzionalità della norma in questione, in quanto non considera il rinvio all’Autorità come un’attribuzione di potestà legislativa (non consentita, ex articolo 25, comma 2, della Costituzione), dato che l’Autorità Amministrativa potrebbe emanare solo provvedimenti che abbiano il requisito della legalità, siano cioè tassativamente previsti da una legge proprio per quei motivi indicati dall’articolo 650 del codice penale:
“questa Corte ha esaminato più volte la materia delle cosiddette norme penali in bianco, affermando che il principio di legalità non è violato "quando sia una legge dello Stato - non importa se proprio la medesima legge o un'altra legge - a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la pena" (sentenza n. 26 dell'anno 1966). Nel caso dell'art. 650 del codice penale la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di osservare un provvedimento dato nelle forme legali dall'autorità competente per sussistenti ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene. Spetta al giudice indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato emesso nell'esercizio di un potere-dovere previsto dalla legge e se una legge dello Stato determini "con sufficiente specificazione" le condizioni e l'ambito di applicazione del provvedimento. La riserva di legge è così rispettata”.
Corte costituzionale, 08 luglio 1971, n. 168
Non manca, comunque, chi considera l’articolo in questione come lesivo del principio costituzionale della riserva di legge, in quanto lascerebbe alla discrezionalità dell’Amministrazione la determinazione della condotta punibile.
Altro caso particolare di norme da alcuni considerate norme penali in bianco è quello in cui la legge demanda all’esecutivo l’integrazione per mezzo di atti amministrativi di mera specificazione tecnica di alcuni elementi del precetto.
E’ stato, ad esempio, il caso delle tabelle previste dagli articoli 13 e 14 D.p.r. 309/90, testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
Questa tipologia di norme fu considerata pienamente legittima sotto il profilo della riserva di legge, in quanto trattavasi di norme con precetto sufficientemente specificato dal legislatore: solo si rinviava, all’Amministrazione, un’ulteriore specificazione tecnica (nel caso della legge sugli stupefacenti, si trattava di compilare delle tabelle, seguendo criteri rigidamente dettati dal legislatore), un’ulteriore, supplementare determinazione della fattispecie criminosa, che il legislatore non era in grado di dettare autonomamente.
Nel mettere in luce la costituzionalità di tale provvedimento è opportuno il richiamo a quell’ulteriore aspetto del principio di legalità che è il principio di determinatezza.
Il rispetto di questo principio, che vuole il precetto formulato in modo preciso e determinato, così da poter distinguere facilmente ciò che è penalmente illecito da ciò che è penalmente lecito o irrilevante, consente di considerare il problema di questo tipo di norme penali, che rinviano all’Amministrazione per particolari tecnici, in maniera equilibrata e rivolta ad un’interpretazione costituzionale di tipo sistematico: infatti, è proprio il principio di determinatezza che spinge il legislatore ad attribuire un potere d’integrazione tecnica all’Amministrazione in quei casi nei quali la norma sarebbe altrimenti destinata a rimanere, seppur parzialmente, indeterminata.
La Corte Costituzionale è anch’essa intervenuta sull’argomento e, oltre a ribadire la piena costituzionalità di norme penali dei tipi considerati (quelle che rinviano a provvedimenti amministrativi già emanati e non più modificabili e quelle che rimettono all’Amministrazione la specificazione dei particolari tecnici che altrimenti rimarrebbero indeterminati e che comunque aiutano il cittadino a discernere lecito da illecito penale), ha anche indicato le regole che il legislatore deve adottare nel momento in cui rimette l’integrazione della norma penale ad un atto normativo subordinato:
“d'altra parte, che lo Stato prescriva, in funzione della tutela di interessi generali, una speciale abilitazione per l'esercizio di determinate professioni, é fenomeno che, a ben guardare, non si discosta da quell'ampia gamma di situazioni in cui provvedimenti di natura abilitativa od autorizzatoria incidono su posizioni soggettive qualificate, determinando l'applicabilità di sanzioni penali nelle ipotesi in cui i limiti propri di quelle posizioni soggettive non siano stati rispettati. Ma se la condotta non abilitata o non autorizzata ben può essere ritenuta illecita in quanto tale, essendo a tal fine sufficiente il contenuto prescrittivo offerto dal precetto penale, non v'é ragione per dubitare che anche l'art. 348 del codice penale descriva una fattispecie perfetta in tutti i suoi connotati tipizzanti, senza doversi necessariamente evocare, quale ulteriore elemento descrittivo del fatto, l'esatta natura, il contenuto ed i limiti dello specifico provvedimento con il quale una determinata persona é abilitata ad esercitare una certa professione. Non può quindi condividersi la tesi del rimettente secondo la quale occorrerebbe assegnare valore precettivo alle disposizioni dettate dall'art. 16 del regio decreto 274 del 1929 in quanto indispensabili "al fine di far acquisire concretezza al divieto contenuto nell'art.348" del codice penale, giacché ciò che la norma penale individua come elemento necessario e sufficiente per l'integrazione della fattispecie é l'assenza di quella speciale abilitazione che lo Stato richiede per l'esercizio della professione, mentre il contenuto ed i limiti propri di ciascuna abilitazione, non rifluiscono - come ritiene il giudice a quo - all'interno della struttura del fatto tipico, ma costituiscono null'altro che un presupposto di fatto che il giudice é chiamato a valutare caso per caso. Una volta riconosciuta "l'autosufficienza precettiva" della fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 348 del codice penale, ne consegue, quindi, l'infondatezza del dubbio di legittimità che il Pretore di Treviso ha sollevato deducendo la violazione del principio di "riserva di legge" in materia penale”.
Corte costituzionale, 27 aprile 1993, n. 199
Stabilisce la Corte come il legislatore, nel rimettere l’integrazione della norma penale a un atto amministrativo (regolamento, ordinanza o ordine), abbia l’onere, pena l’incostituzionalità della norma (ex articolo 25, comma 2, della Costituzione), di stabilire i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti di tale atto; in altri termini, il potere esecutivo ha il solo compito di integrare un precetto già sufficientemente determinato (la scelta di antigiuridicità è, cioè, già stata fatta dal legislatore):
“non è fondata, in riferimento agli art. 3, 25 e 27 cost., la questione di legittimità degli art. 2 comma 3, l. 18 aprile 1975 n. 110, 2 e 7 l. 2 ottobre 1967 n. 895, 10 e 14 l. 14 ottobre 1974 n. 497, in relazione al predetto art. 2 legge n. 110 del 1975, censurati in quanto considerano, a fini penali, le armi ad aria compressa, sia lunghe che corte, quali armi comuni da sparo, nonché dello stesso art. 2 comma 3 legge n. 110 cit., nella parte in cui non assimila le armi ad aria compressa a quelle destinate alla pesca, che non sono considerate armi da sparo, e nella parte in cui attribuisce alla commissione centrale per il controllo delle armi il potere di escludere dal novero delle armi considerate da sparo quelle ad aria compressa, oltreché quelle ad emissione di gas che non abbiano attitudine a recare offesa alla persona. Nel determinare le fattispecie tipiche del reato, il legislatore non ha infatti ritenuto di tener conto soltanto della naturale destinazione, in astratto, dell'oggetto materiale del fatto che intende incriminare, ma anche e soprattutto, dell'uso concreto che dell'oggetto stesso l'esperienza mostra; e poiché le armi ad aria compressa sono (e possono essere) usate in modo concretamente pericoloso per l'incolumità altrui e si prestano per la loro silenziosità, ad usi fraudolenti, non appare, di fronte all'art. 3 cost., arbitrario che il legislatore penale - tenendo conto del loro uso distorto, già realizzatosi e prevedibilmente realizzabile - le abbia considerate armi comuni da sparo, sempreché per le proprie particolari caratteristiche, esse risultino, in concreto, caso per caso, ad attento e qualificato esame tecnico, idonee ad offendere la persona (cfr. lo stesso art. 2 comma 3 legge n. 110 cit.). Nè, del pari, è violato l'art. 27 comma 5 cost., in quanto, se è vero che la funzione rieducativa della pena impone che la misura della sanzione penale sia graduata sulla base del concreto disvalore del fatto, è altrettanto vero che nessuna arbitraria parificazione di diverse obiettive pericolosità risulta, nella specie, operata, essendo esclusa, dalla normativa censurata, la tipicità di comportamenti inoffensivi, e spettando, comunque, al giudice di adeguare la pena, nel caso in cui il concreto disvalore del fatto (tipico) sia lieve, anche applicando la speciale attenuante - per la qualità delle armi - di cui all'art. 5 legge n. 895 del 1967. Neppure contrasta con l'art. 3 cost. la censurata diversità di disciplina tra armi ad aria compressa, considerate quali armi comuni da sparo, ed armi destinate alla pesca (escluse da tale considerazione), diversità giustificata per il fatto che, in base all'esperienza, le armi da pesca (sia perché ingombranti, sia perché normalmente non sono strumenti di speciale precisione) certamente meno delle altre armi ad aria compressa si prestano ad usi distorti ed utilizzazioni fraudolente. Nè può, infine, ritenersi che il potere conferito alla commissione centrale per le armi di escludere dal novero delle armi da sparo quelle ad aria compressa che non abbiano attitudini a recare offesa alla persona - potere che, secondo interpretazione dominante (cfr. sent. n. 109 del 1982), non si estende agli altri oggetti pure considerati armi da sparo, tra cui le armi ad emissione di gas - vulneri il principio di legalità sotto il profilo della riserva di legge in materia penale, giacché, per consolidato orientamento (sent. n. 168 del 1971, n. 9 del 1972, n. 21 del 1973, n. 58 del 1975, n. 108 del 1982) non si ha violazione dell'art. 25 cost. quando è la stessa legge a fissare presupposti, caratteri, contenuti e limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa alla trasgressione dei quali deve seguire la pena (v., in tal senso, la sent. n. 108 del 1982, che ha dichiarato infondata identica questione). Tanto più che, quand'anche il precitato art. 2 comma 3 legge n. 110, venisse considerato, contrariamente all'interpretazione giurisprudenziale corrente, quale norma penale in bianco, non potrebbe per ciò solo - se adempiute le condizioni innanzi indicate - ritenersi violativo dell'art. 25 cost”.
Corte costituzionale, 09 giugno 1986, n. 132 Milazzo e altro c. Regione Emilia Romagna Cass. pen. 1987, 3. Riv. giur. polizia locale 1986, 663

 

 

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