Il problema delle c.d. norme penali in bianco, problema
particolarmente rilevante principalmente in riferimento
alla loro costituzionalità, nasce dalla controversa
interpretazione delle disposizioni che prevedono, nel
nostro ordinamento, il c.d. principio di legalità e, in
particolare, quella sua specificazione che è il
principio della riserva di legge.
Messi in luce quelli che sono gli obiettivi, in
generale, del principio di legalità e, in particolare,
del principio della riserva di legge - l’articolo 1 del
codice penale e l’articolo 25, comma 2, della
Costituzione hanno la funzione, oltre che di tutelare i
diritti e le libertà dei cittadini, anche di garantire
la reale separazione dei poteri dello Stato: in
particolare, prevedendo il principio della riserva di
legge, si dirigono ad impedire che il potere esecutivo
vada ad interferire con il potere legislativo, al quale
solo è riservata la possibilità di statuire in materia
penale (la garanzia della non ingerenza del
potere giudiziario è invece più specificamente
tutelata dal principio c.d. di determinatezza: per le
implicazioni del principio in tema di concorso di
persone nel reato, si veda
"Il concorso di reati e il
concorso di persone nel reato", Cedam 2011)
-, e pacificamente affermato che solo la legge può
statuire in materia penale, ci si chiede se, ed in quale
misura, la legge stessa possa attribuire una qualche
funzione integratrice delle norme penali ad atti del
potere esecutivo, quali regolamenti, ordini e ordinanze:
in questo contesto si colloca la nozione di
norma penale in bianco:
“costituiscono norme penali in bianco quelle che,
contenendo già un precetto e una sanzione (determinata
almeno nei limiti massimi), rinviano per la
specificazione o integrazione del contenuto del precetto
ad un atto normativo di grado inferiore o a un
provvedimento della p.a. o ad una legge extrapenale. In
applicazione di tale principio l'art. 221 t.u.l.p.s. va
considerato norma penale in bianco, specificata o
integrata dalle norme contenute nel regolamento del
medesimo testo unico”.
Cassazione penale, sez. un., 24 marzo 1984 Romano Cass.
pen. 1984, 2372.
A questo proposito, un primo problema da considerare è
quello della natura della riserva di legge prevista
dalla Costituzione: è una riserva assoluta,
in base alla quale viene esclusa qualsiasi ingerenza di
atti normativi di rango inferiore alla legge ordinaria,
o è una riserva relativa, che consente
quindi alla legge stessa di deferire la specificazione
della norma a una fonte subordinata (atto
dell’esecutivo), fissati i principi regolatori?
La dottrina prevalente esclude quest’ultima ipotesi e si
schiera a favore della riserva assoluta, la quale non è
però considerata da tutti con lo stesso, pregnante
significato: ed è proprio dal diverso modo di
considerare il contenuto della riserva assoluta di legge
che derivano le diverse nozioni ed interpretazioni della
c.d. norma penale in bianco.
Innanzi tutto, è basilare determinare quanto più
possibile la nozione di norme penale in bianco.
La dottrina assolutamente prevalente, seguita dalla
giurisprudenza, esclude che si possa parlare di norma
penale in bianco nei casi in cui il legislatore rinvii,
per la completa determinazione del precetto, a
provvedimenti amministrativi già emanati dal potere
esecutivo e non più suscettibili di modificazione per
aver perso l’amministrazione il potere di modificare
tali atti.
Tale opinione è ormai pacifica (e sembra pienamente
condivisibile), in quanto il legislatore considera il
rinvio all’atto amministrativo come semplice tecnica
legislativa, senza attribuire alcun potere a fonti
secondarie.
I problemi sorgono nel momento in cui il
legislatore rinvia ad atti, riguardo ai quali
il potere esecutivo conserva ancora la
possibilità di modificarne la disciplina: in questo
caso, si ha un vero e proprio rinvio ad un potere
diverso da quello legislativo (quello esecutivo appunto)
ed è proprio con riferimento a questi casi che la
dottrina prevalente parla di norma penale in bianco.
È ormai pacifico che l’eventuale rinvio, ad un potere
diverso da quello legislativo, non possa riguardare
quella parte di norma incriminatrice consistente nella
sanzione; quest’ultima deve essere completamente
determinata dalla legge e solo si discute se una qualche
integrazione, da parte di fonti secondarie, sia
consentita per il precetto.
Una prima questione sorge per quelle norme (ad esempio
l'articolo 650 del codice penale, oppure l'articolo 329
de medesimo codice) che sanzionano la disobbedienza ad
un successivo provvedimento posto in essere
dall’Autorità (amministrativa, ma, probabilmente, anche
giudiziaria):
“l'art. 650 c.p. contiene una norma penale in bianco
che, con la sua forza sanzionatoria, è diretta a
soddisfare l'interesse della p.a. ad ottenere da privato
cittadino una certa prestazione o comunque un certo
comportamento”.
Cassazione penale, sez. I, 24 giugno 1996, n. 8529 De
Paoli Giur. it. 1997, II, 590
Non tutti considerano queste norme come
norme penali in bianco.
Chi ritiene che le norme aventi queste caratteristiche
non rientrino nella categoria delle c.d. norme penali in
bianco, fa notare come il provvedimento dell’Autorità
non configuri un atto normativo, non presentando i
requisiti di generalità ed astrattezza che
contraddistinguono tali atti: la norma penale è
completamente determinata, e nella sanzione e nel
precetto, dalla legge, la quale stabilisce il dovere di
obbedire ai provvedimenti dell’Autorità competente;
l’atto dell’Autorità configura un semplice presupposto.
La giurisprudenza prevalente, invece, almeno per quanto
concerne l’articolo 650 del codice penale, ravvisa una
norma penale in bianco, nell’accezione di chi considera
tali tipi di norma come aventi carattere meramente
sanzionatorio: la stessa giurisprudenza salva, peraltro,
la costituzionalità della norma in questione, in quanto
non considera il rinvio all’Autorità come
un’attribuzione di potestà legislativa (non consentita,
ex articolo 25, comma 2, della Costituzione), dato che
l’Autorità Amministrativa potrebbe emanare solo
provvedimenti che abbiano il requisito della legalità,
siano cioè tassativamente previsti da una legge proprio
per quei motivi indicati dall’articolo 650 del codice
penale:
“questa Corte ha esaminato più volte la materia delle
cosiddette norme penali in bianco, affermando che il
principio di legalità non è violato "quando sia una
legge dello Stato - non importa se proprio la medesima
legge o un'altra legge - a indicare con sufficiente
specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto
e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non
legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la
pena" (sentenza n. 26 dell'anno 1966). Nel caso
dell'art. 650 del codice penale la
materialità della contravvenzione è descritta
tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si
pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di
osservare un provvedimento dato nelle forme legali
dall'autorità competente per sussistenti ragioni di
giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene. Spetta al
giudice indagare, volta per volta, se il provvedimento
sia stato emesso nell'esercizio di un potere-dovere
previsto dalla legge e se una legge dello Stato
determini "con sufficiente specificazione" le condizioni
e l'ambito di applicazione del provvedimento. La riserva
di legge è così rispettata”.
Corte costituzionale, 08 luglio 1971, n. 168
Non manca, comunque, chi considera l’articolo in
questione come lesivo del principio costituzionale della
riserva di legge, in quanto lascerebbe alla
discrezionalità dell’Amministrazione la determinazione
della condotta punibile.
Altro caso particolare di norme da alcuni considerate
norme penali in bianco è quello in cui la legge demanda
all’esecutivo l’integrazione per mezzo di atti
amministrativi di mera specificazione tecnica di alcuni
elementi del precetto.
E’ stato, ad esempio, il caso delle tabelle previste
dagli articoli 13 e 14 D.p.r. 309/90, testo unico delle
leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza.
Questa tipologia di norme fu considerata pienamente
legittima sotto il profilo della riserva di legge, in
quanto trattavasi di norme con precetto sufficientemente
specificato dal legislatore: solo si rinviava,
all’Amministrazione, un’ulteriore specificazione tecnica
(nel caso della legge sugli stupefacenti, si trattava di
compilare delle tabelle, seguendo criteri rigidamente
dettati dal legislatore), un’ulteriore, supplementare
determinazione della fattispecie criminosa, che il
legislatore non era in grado di dettare autonomamente.
Nel mettere in luce la costituzionalità di tale
provvedimento è opportuno il richiamo a quell’ulteriore
aspetto del principio di legalità che è il
principio di determinatezza.
Il rispetto di questo principio, che vuole il precetto
formulato in modo preciso e determinato, così da poter
distinguere facilmente ciò che è penalmente illecito da
ciò che è penalmente lecito o irrilevante, consente di
considerare il problema di questo tipo di norme penali,
che rinviano all’Amministrazione per particolari
tecnici, in maniera equilibrata e
rivolta ad un’interpretazione costituzionale di tipo
sistematico: infatti, è proprio il principio di
determinatezza che spinge il legislatore ad attribuire
un potere d’integrazione tecnica all’Amministrazione in
quei casi nei quali la norma sarebbe altrimenti
destinata a rimanere, seppur parzialmente,
indeterminata.
La Corte Costituzionale è anch’essa
intervenuta sull’argomento e, oltre a ribadire la piena
costituzionalità di norme penali dei tipi considerati
(quelle che rinviano a provvedimenti amministrativi già
emanati e non più modificabili e quelle che rimettono
all’Amministrazione la specificazione dei particolari
tecnici che altrimenti rimarrebbero indeterminati e che
comunque aiutano il cittadino a discernere
lecito da illecito penale), ha anche indicato
le regole che il legislatore deve adottare nel momento
in cui rimette l’integrazione della norma penale ad un
atto normativo subordinato:
“d'altra parte, che lo Stato prescriva, in funzione
della tutela di interessi generali, una speciale
abilitazione per l'esercizio di determinate professioni,
é fenomeno che, a ben guardare, non si discosta da
quell'ampia gamma di situazioni in cui provvedimenti di
natura abilitativa od autorizzatoria incidono su
posizioni soggettive qualificate, determinando
l'applicabilità di sanzioni penali nelle ipotesi in cui
i limiti propri di quelle posizioni soggettive non siano
stati rispettati. Ma se la condotta non abilitata o non
autorizzata ben può essere ritenuta illecita in quanto
tale, essendo a tal fine sufficiente il contenuto
prescrittivo offerto dal precetto penale, non v'é
ragione per dubitare che anche l'art. 348 del codice
penale descriva una fattispecie perfetta in tutti i suoi
connotati tipizzanti, senza doversi necessariamente
evocare, quale ulteriore elemento descrittivo del fatto,
l'esatta natura, il contenuto ed i limiti dello
specifico provvedimento con il quale una determinata
persona é abilitata ad esercitare una certa professione.
Non può quindi condividersi la tesi del rimettente
secondo la quale occorrerebbe assegnare valore
precettivo alle disposizioni dettate dall'art. 16 del
regio decreto 274 del 1929 in quanto indispensabili "al
fine di far acquisire concretezza al divieto contenuto
nell'art.348" del codice penale, giacché ciò che la
norma penale individua come elemento necessario e
sufficiente per l'integrazione della fattispecie é
l'assenza di quella speciale abilitazione che lo Stato
richiede per l'esercizio della professione, mentre il
contenuto ed i limiti propri di ciascuna abilitazione,
non rifluiscono - come ritiene il giudice a quo -
all'interno della struttura del fatto tipico, ma
costituiscono null'altro che un presupposto di fatto che
il giudice é chiamato a valutare caso per caso. Una
volta riconosciuta "l'autosufficienza precettiva" della
fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 348 del
codice penale, ne consegue, quindi, l'infondatezza del
dubbio di legittimità che il Pretore di Treviso ha
sollevato deducendo la violazione del principio di
"riserva di legge" in materia penale”.
Corte costituzionale, 27 aprile 1993, n. 199
Stabilisce la Corte come il legislatore, nel rimettere
l’integrazione della norma penale a un atto
amministrativo (regolamento, ordinanza o ordine), abbia
l’onere, pena l’incostituzionalità della norma (ex
articolo 25, comma 2, della Costituzione), di stabilire
i presupposti, i caratteri, il contenuto e i
limiti di tale atto; in altri termini, il
potere esecutivo ha il solo compito di integrare un
precetto già sufficientemente determinato (la scelta di
antigiuridicità è, cioè, già stata fatta dal
legislatore):
“non è fondata, in riferimento agli art. 3, 25 e 27
cost., la questione di legittimità degli art. 2 comma 3,
l. 18 aprile 1975 n. 110, 2 e 7 l. 2 ottobre 1967 n.
895, 10 e 14 l. 14 ottobre 1974 n. 497, in relazione al
predetto art. 2 legge n. 110 del 1975, censurati in
quanto considerano, a fini penali, le armi ad aria
compressa, sia lunghe che corte, quali armi comuni da
sparo, nonché dello stesso art. 2 comma 3 legge n. 110
cit., nella parte in cui non assimila le armi ad aria
compressa a quelle destinate alla pesca, che non sono
considerate armi da sparo, e nella parte in cui
attribuisce alla commissione centrale per il controllo
delle armi il potere di escludere dal novero delle armi
considerate da sparo quelle ad aria compressa, oltreché
quelle ad emissione di gas che non abbiano attitudine a
recare offesa alla persona. Nel determinare le
fattispecie tipiche del reato, il legislatore non ha
infatti ritenuto di tener conto soltanto della naturale
destinazione, in astratto, dell'oggetto materiale del
fatto che intende incriminare, ma anche e soprattutto,
dell'uso concreto che dell'oggetto stesso l'esperienza
mostra; e poiché le armi ad aria compressa sono (e
possono essere) usate in modo concretamente pericoloso
per l'incolumità altrui e si prestano per la loro
silenziosità, ad usi fraudolenti, non appare, di fronte
all'art. 3 cost., arbitrario che il legislatore penale -
tenendo conto del loro uso distorto, già realizzatosi e
prevedibilmente realizzabile - le abbia considerate armi
comuni da sparo, sempreché per le proprie particolari
caratteristiche, esse risultino, in concreto, caso per
caso, ad attento e qualificato esame tecnico, idonee ad
offendere la persona (cfr. lo stesso art. 2 comma 3
legge n. 110 cit.). Nè, del pari, è violato l'art. 27
comma 5 cost., in quanto, se è vero che la funzione
rieducativa della pena impone che la misura della
sanzione penale sia graduata sulla base del concreto
disvalore del fatto, è altrettanto vero che nessuna
arbitraria parificazione di diverse obiettive
pericolosità risulta, nella specie, operata, essendo
esclusa, dalla normativa censurata, la tipicità di
comportamenti inoffensivi, e spettando, comunque, al
giudice di adeguare la pena, nel caso in cui il concreto
disvalore del fatto (tipico) sia lieve, anche applicando
la speciale attenuante - per la qualità delle armi - di
cui all'art. 5 legge n. 895 del 1967. Neppure contrasta
con l'art. 3 cost. la censurata diversità di disciplina
tra armi ad aria compressa, considerate quali armi
comuni da sparo, ed armi destinate alla pesca (escluse
da tale considerazione), diversità giustificata per il
fatto che, in base all'esperienza, le armi da pesca (sia
perché ingombranti, sia perché normalmente non sono
strumenti di speciale precisione) certamente meno delle
altre armi ad aria compressa si prestano ad usi distorti
ed utilizzazioni fraudolente. Nè può, infine, ritenersi
che il potere conferito alla commissione centrale per le
armi di escludere dal novero delle armi da sparo quelle
ad aria compressa che non abbiano attitudini a recare
offesa alla persona - potere che, secondo
interpretazione dominante (cfr. sent. n. 109 del 1982),
non si estende agli altri oggetti pure considerati armi
da sparo, tra cui le armi ad emissione di gas - vulneri
il principio di legalità sotto il profilo della riserva
di legge in materia penale, giacché, per consolidato
orientamento (sent. n. 168 del 1971, n. 9 del 1972, n.
21 del 1973, n. 58 del 1975, n. 108 del 1982) non si ha
violazione dell'art. 25 cost. quando è la stessa legge a
fissare presupposti, caratteri, contenuti e limiti dei
provvedimenti dell'autorità non legislativa alla
trasgressione dei quali deve seguire la pena (v., in tal
senso, la sent. n. 108 del 1982, che ha dichiarato
infondata identica questione). Tanto più che,
quand'anche il precitato art. 2 comma 3 legge n. 110,
venisse considerato, contrariamente all'interpretazione
giurisprudenziale corrente, quale norma penale in
bianco, non potrebbe per ciò solo - se adempiute le
condizioni innanzi indicate - ritenersi violativo
dell'art. 25 cost”.
Corte costituzionale, 09 giugno 1986, n. 132 Milazzo e
altro c. Regione Emilia Romagna Cass. pen. 1987, 3. Riv.
giur. polizia locale 1986, 663
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