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Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 1417, pres. De Roberto, rel. Milo– “REATO DI MALTRATTAMENTI SOLO IN CASO DI VIOLENZA ABITUALE ”

 

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 – Eva STANIG

Una nuova sentenza in merito di maltrattamenti in famiglia, reato che, tristemente, occupa le pagine di cronaca quotidiana. 

Il caso in commento, in particolare, riguarda un uomo accusato dalla convivente di maltrattamenti, minacce, percosse e costrizione a subire atti sessuali nonché a mendicare. 

Dinanzi a tale condotta il giudice di prime cure aveva inflitto all’imputato, ai sensi dell’art. 572 c.p., la pena di due anni di reclusione, condanna confermata dai giudice d’appello seppure con una riduzione della sanzione. 

Avverso quest’ultima decisione aveva proposto ricorso la difesa dell’imputato ponendo in luce la sporadicità degli episodi vessatori denunciati, sporadicità che contrasta tanto con la natura abituale del reato di maltrattamenti quanto con il requisito soggettivo del dolo unitario, il quale funge da elemento unificatore degli atti prevaricatori commessi. 

Si evidenzia altresì che nel delitto de quo la consumazione si realizza con l’ultimo degli atti prevaricatori reiterati, i quali possono, isolatamente considerati, essere anche non punibili ma devono, nella loro considerazione globale, essere idonei a ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale della vittima. 

Ciò posto, ad avviso della Suprema Corte i requisiti sopra descritti non sembrano essere stati integrati dalla condotta dell’imputato. 

In primo luogo, i giudici di merito non hanno adeguatamente contestualizzato le condotte ascritte all’uomo in relazione al complessivo regime di vita familiare, nella specie di degrado tanto da dover essere monitorata dai servizi sociali, e alle cause scatenanti i singoli litigi. Tale mancanza non permette di individuare, pertanto, né il requisito oggettivo della abitualità della condotta oppressiva né quello soggettivo della volontà da parte dell’agente di sopraffare il soggetto passivo. 

In secondo luogo, non si è tenuto in debito conto che la convivente, poco dopo essersi allontanata dall’abitazione familiare a seguito di un episodio violento, aveva ripreso la convivenza e contratto matrimonio con l’uomo. Comportamento questo, secondo i giudici di legittimità, poco coerente per una vittima di recenti e continui maltrattamenti. (e.s.)

(Il reato) sussiste se l'agente non si limita a porre in essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di offesa, come espressione reattiva - magari - ad un particolare e contingente clima di tensione, ma sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un'intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario)

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 7 ottobre 2010 - 19 gennaio 2011, n. 1417
Presidente De Roberto - Relatore Milo

Fatto e diritto

1- Il Tribunale di Udine, con sentenza 14/1/2005, dichiarava, tra l'altro, M.P. colpevole del reato di cui all'art. 572 c.p. - per avere sottoposto, fino al (OMISSIS), la propria convivente H.V.                ad una serie di maltrattamenti, minacciandola, percuotendola, costringendola a subire rapporti sessuali non consenzienti, a mendicare, a consegnargli il denaro raccolto - e lo condannava alla pena di anni due di reclusione.
2- A seguito di gravame dell'imputato, la Corte d'Appello di Trieste, con sentenza 2/7/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, riduceva la pena inflitta al M.      ad un anno e sei mesi di reclusione.
Il Giudice distrettuale riteneva che la colpevolezza del M.      era provata dall'attendibile testimonianza della persona offesa, che aveva riferito in ordine al suo "burrascoso rapporto di convivenza", caratterizzato da un'alternanza di periodi di relativa tranquillità con periodi di particolare tensione, che l'avevano visto vittima di aggressioni verbali e fisiche ad opera dell'imputato, a causa soprattutto dell'abuso che il medesimo faceva di bevande alcooliche; aggiungeva che le testimonianze della Ma.       e della P.    , rispettivamente assistente sociale e psicologa del Servizio Sociale di Torviscosa, non avevano smentito la versione dei fatti fornita dalla H.       .
3- Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo: 1) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, polarizzata sulle sole dichiarazioni, scarsamente attendibili, della persona offesa, che non trovavano riscontro nelle testimonianze delle operataci sociali, che pur avevano monitorato costantemente il nucleo familiare, ed erano contraddette dal comportamento assunto, a breve distanza dai fatti denunciati, dalla stessa persona offesa, che aveva ripreso la convivenza con l'imputato, col quale aveva contratto matrimonio, eventi questi sintomatici della sporadicità e della occasionanti dei pregressi litigi; 2) erronea applicazione della legge penale, considerato che i fatti denunciati, circoscritti in un arco temporale molto ristretto (fine (OMISSIS)       ) e determinati da un contingente clima di tensione, non integravano gli elementi strutturali del reato contestato.
4- Il ricorso è fondato.
L'apparato argomentativo su cui riposa la sentenza impugnata, incentrato essenzialmente sull'episodio verificatosi il (OMISSIS), che aveva indotto la H.       , a causa di un litigio col proprio convivente, ad allontanarsi dal domicilio domestico e a trovare rifugio, insieme ai suoi figli, presso una comunità di accoglienza di XXXXXX, non approfondisce il tema dell'attendibilità della denunciante, non dà il giusto rilievo alle altre emergenze processuali, non esplicita episodi specifici coerenti con l'ipotesi accusatoria e perviene a conclusioni poco meditate circa la riconducibilità delle circostanze di fatto evidenziate nel paradigma del reato di maltrattamenti.
La condotta integratrice di tale illecito è costituita non solo da quei fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l'ordinamento giuridico già autonomamente protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza privata), ma anche da tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell'integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l'agente. È necessaria cioè una molteplicità di fatti vessatori o violenti per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, che è tipico reato abituale. Questo, pertanto, sussiste se l'agente non si limita a porre in essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di offesa, come espressione reattiva - magari - ad un particolare e contingente clima di tensione, ma sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un'intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario). Ciò posto, osserva la Corte che la sentenza impugnata omette di affrontare una serie di problemi che, pure devoluti, con l'atto d'appello, alla cognizione del Giudice distrettuale, sono funzionali alla verifica della fondatezza o meno dell'accusa e possono essere cosi riassunti: a) attendibilità della versione dei fatti fornita dalla persona offesa, con riferimento non tanto ai singoli episodi di litigi familiari, ma al complessivo regime di vita impostole nel corso della convivenza con l'imputato fino al (OMISSIS); b) individuazione delle cause che avevano originato i singoli litigi e contestualizzazione degli stessi nell'ambito di una situazione familiare ai limiti del degrado, tanto da essere costantemente monitorata dai servizi sociali; c) valenza delle testimonianze delle operatrici sociali, che non avevano riferito dati oggettivi in ordine ai maltrattamenti di cui la H.        sarebbe stata vittima ad opera del convivente, ma avevano fatto cenno, per averlo appreso dalla donna, a sporadici litigi familiari; d) la persona offesa, poco dopo essersi allontanata dalla residenza familiare, aveva ripreso la convivenza e contratto matrimonio con il M.     , comportamento questo che appare poco coerente per una vittima di pregressi e recenti maltrattamenti; e) riconducibilità dei fatti ascritti all'imputato nell'ambito di una condotta oppressiva, prevaricatoria e reiterata nel tempo, che assuma la connotazione dell'abitualità; f) elemento soggettivo, da individuare nell'intenzione dell'agente di avvilire e sopraffare il soggetto passivo, attraverso vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale del medesimo, ispirati da dolo unitario e pressoché programmatico, con esclusione quindi della mera occasionalità e del dolo d'impeto, isolato e frammentario.
5- La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra Sezione della Corte d'Appello di Trieste, che dovrà, con ampia libertà di valutazione, dare adeguata e logica risposta ai rilievi di cui innanzi.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte d'Appello di Trieste per nuovo giudizio.

Picchiata dal convivente, continua a vivere con lui e anzi lo sposa. La Cassazione precisa che, se i litigi sono occasionali, l’uomo non può essere condannato per maltrattamenti in famiglia.
Elementi di fatto contraddittori. Nel caso di specie, la donna dopo un litigio violento in cui il convivente pare averla percossa, minacciata, costretta a subire rapporti sessuali non consenzienti e a mendicare, si allontana da casa con i suoi figli e si rifugia in una comunità d’accoglienza. Subito dopo torna a vivere con l’uomo e lo sposa, ma il rapporto resta burrascoso, caratterizzato da un'alternanza di periodi di relativa tranquillità e di particolare tensione. Il Tribunale condanna l’uomo per maltrattamenti a due anni di reclusione, pena che in appello viene ridotta di poco. L’uomo ricorre in Cassazione.
Il reato di maltrattamenti in famiglia: limiti e confini.
Con la sentenza n. 1417 i giudici ermellini della sesta sezione penale di Cassazione tornano a circoscrivere il reato di maltrattamenti in famiglia, sottolineando come la condotta integratrice dell’illecito è costituita non solo da quei fatti che ledono o pongono in pericolo beni che l'ordinamento giuridico già autonomamente protegge, ma anche da tutti quei fatti lesivi del patrimonio morale e dell'integrità psichica del soggetto passivo, che, seppure singolarmente considerati non costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione con l'agente.
Reato abituale. È necessaria cioè una molteplicità di fatti vessatori o violenti per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, che è tipico reato abituale. Questo, pertanto, sussiste se l'agente non si limita a porre in essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di offesa, ma sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto da un'intenzione criminosa che si ponga come elemento unificatore dei singoli atti vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo unitario).

 

 

 

 

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