– Eva STANIG
Una nuova sentenza in merito di maltrattamenti
in famiglia, reato che, tristemente, occupa le
pagine di cronaca quotidiana.
Il caso in commento, in particolare, riguarda un uomo
accusato dalla convivente di
maltrattamenti, minacce, percosse e costrizione a subire
atti sessuali nonché a mendicare.
Dinanzi a tale condotta il giudice di prime cure aveva
inflitto all’imputato, ai sensi dell’art. 572 c.p., la
pena di due anni di reclusione, condanna confermata dai
giudice d’appello seppure con una riduzione della
sanzione.
Avverso quest’ultima decisione aveva proposto ricorso la
difesa dell’imputato ponendo in luce la sporadicità
degli episodi vessatori denunciati, sporadicità che
contrasta tanto con la natura abituale
del reato di maltrattamenti quanto con il requisito
soggettivo del dolo unitario, il quale
funge da elemento unificatore degli atti prevaricatori
commessi.
Si evidenzia altresì che nel delitto de quo la
consumazione si realizza con l’ultimo degli atti
prevaricatori reiterati, i quali possono, isolatamente
considerati, essere anche non punibili ma devono, nella
loro considerazione globale, essere idonei a ledere
l’integrità fisica o il patrimonio morale della
vittima.
Ciò posto, ad avviso della Suprema Corte i requisiti
sopra descritti non sembrano essere stati integrati
dalla condotta dell’imputato.
In primo luogo, i giudici di merito non hanno
adeguatamente contestualizzato le condotte ascritte
all’uomo in relazione al complessivo regime di vita
familiare, nella specie di degrado tanto da dover essere
monitorata dai servizi sociali, e alle cause scatenanti
i singoli litigi. Tale mancanza non permette di
individuare, pertanto, né il requisito oggettivo della
abitualità della condotta oppressiva né quello
soggettivo della volontà da parte dell’agente di
sopraffare il soggetto passivo.
In secondo luogo, non si è tenuto in debito conto che la
convivente, poco dopo essersi allontanata
dall’abitazione familiare a seguito di un episodio
violento, aveva ripreso la convivenza e contratto
matrimonio con l’uomo. Comportamento questo, secondo i
giudici di legittimità, poco coerente per una vittima di
recenti e continui maltrattamenti. (e.s.)
(Il reato) sussiste se l'agente non si limita a porre in
essere sporadici episodi di violenza, di minaccia o di
offesa, come espressione reattiva - magari - ad un
particolare e contingente clima di tensione, ma
sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze
fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti
tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo),
quanto da un'intenzione criminosa che si ponga come
elemento unificatore dei singoli atti vessatori
(elemento soggettivo, inteso come dolo unitario)
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 7 ottobre
2010 - 19 gennaio 2011, n. 1417
Presidente De Roberto - Relatore Milo
Fatto e diritto
1- Il Tribunale di Udine, con sentenza 14/1/2005,
dichiarava, tra l'altro, M.P. colpevole del reato di cui
all'art. 572 c.p. - per avere sottoposto, fino al
(OMISSIS), la propria convivente H.V. ad
una serie di maltrattamenti, minacciandola,
percuotendola, costringendola a subire rapporti sessuali
non consenzienti, a mendicare, a consegnargli il denaro
raccolto - e lo condannava alla pena di anni due di
reclusione.
2- A seguito di gravame dell'imputato, la Corte
d'Appello di Trieste, con sentenza 2/7/2009, riformando
in parte la decisione di primo grado, che confermava nel
resto, riduceva la pena inflitta al M. ad un anno e
sei mesi di reclusione.
Il Giudice distrettuale riteneva che la colpevolezza del
M. era provata dall'attendibile testimonianza della
persona offesa, che aveva riferito in ordine al suo
"burrascoso rapporto di convivenza", caratterizzato da
un'alternanza di periodi di relativa tranquillità con
periodi di particolare tensione, che l'avevano visto
vittima di aggressioni verbali e fisiche ad opera
dell'imputato, a causa soprattutto dell'abuso che il
medesimo faceva di bevande alcooliche; aggiungeva che le
testimonianze della Ma. e della P. ,
rispettivamente assistente sociale e psicologa del
Servizio Sociale di Torviscosa, non avevano smentito la
versione dei fatti fornita dalla H. .
3- Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
proprio difensore, l'imputato, deducendo: 1)
contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione, polarizzata sulle sole dichiarazioni,
scarsamente attendibili, della persona offesa, che non
trovavano riscontro nelle testimonianze delle operataci
sociali, che pur avevano monitorato costantemente il
nucleo familiare, ed erano contraddette dal
comportamento assunto, a breve distanza dai fatti
denunciati, dalla stessa persona offesa, che aveva
ripreso la convivenza con l'imputato, col quale aveva
contratto matrimonio, eventi questi sintomatici della
sporadicità e della occasionanti dei pregressi litigi;
2) erronea applicazione della legge penale, considerato
che i fatti denunciati, circoscritti in un arco
temporale molto ristretto (fine (OMISSIS) ) e
determinati da un contingente clima di tensione, non
integravano gli elementi strutturali del reato
contestato.
4- Il ricorso è fondato.
L'apparato argomentativo su cui riposa la sentenza
impugnata, incentrato essenzialmente sull'episodio
verificatosi il (OMISSIS), che aveva indotto la H.
, a causa di un litigio col proprio convivente, ad
allontanarsi dal domicilio domestico e a trovare
rifugio, insieme ai suoi figli, presso una comunità di
accoglienza di XXXXXX, non approfondisce il tema
dell'attendibilità della denunciante, non dà il giusto
rilievo alle altre emergenze processuali, non esplicita
episodi specifici coerenti con l'ipotesi accusatoria e
perviene a conclusioni poco meditate circa la
riconducibilità delle circostanze di fatto evidenziate
nel paradigma del reato di maltrattamenti.
La condotta integratrice di tale illecito è costituita
non solo da quei fatti che ledono o pongono in pericolo
beni che l'ordinamento giuridico già autonomamente
protegge (percosse, lesioni, ingiuria, violenza
privata), ma anche da tutti quei fatti lesivi del
patrimonio morale e dell'integrità psichica del soggetto
passivo, che, seppure singolarmente considerati non
costituiscono reato, siano tali da rendere abitualmente
dolorosa la relazione con l'agente. È necessaria cioè
una molteplicità di fatti vessatori o violenti per la
configurabilità del delitto di maltrattamenti, che è
tipico reato abituale. Questo, pertanto, sussiste se
l'agente non si limita a porre in essere sporadici
episodi di violenza, di minaccia o di offesa, come
espressione reattiva - magari - ad un particolare e
contingente clima di tensione, ma sottopone il soggetto
passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in
modo che i singoli atti siano uniti tanto da un legame
di abitualità (elemento oggettivo), quanto da
un'intenzione criminosa che si ponga come elemento
unificatore dei singoli atti vessatori (elemento
soggettivo, inteso come dolo unitario). Ciò posto,
osserva la Corte che la sentenza impugnata omette di
affrontare una serie di problemi che, pure devoluti, con
l'atto d'appello, alla cognizione del Giudice
distrettuale, sono funzionali alla verifica della
fondatezza o meno dell'accusa e possono essere cosi
riassunti: a) attendibilità della versione dei fatti
fornita dalla persona offesa, con riferimento non tanto
ai singoli episodi di litigi familiari, ma al
complessivo regime di vita impostole nel corso della
convivenza con l'imputato fino al (OMISSIS); b)
individuazione delle cause che avevano originato i
singoli litigi e contestualizzazione degli stessi
nell'ambito di una situazione familiare ai limiti del
degrado, tanto da essere costantemente monitorata dai
servizi sociali; c) valenza delle testimonianze delle
operatrici sociali, che non avevano riferito dati
oggettivi in ordine ai maltrattamenti di cui la
H. sarebbe stata vittima ad opera del convivente,
ma avevano fatto cenno, per averlo appreso dalla donna,
a sporadici litigi familiari; d) la persona offesa, poco
dopo essersi allontanata dalla residenza familiare,
aveva ripreso la convivenza e contratto matrimonio con
il M. , comportamento questo che appare poco
coerente per una vittima di pregressi e recenti
maltrattamenti; e) riconducibilità dei fatti ascritti
all'imputato nell'ambito di una condotta oppressiva,
prevaricatoria e reiterata nel tempo, che assuma la
connotazione dell'abitualità; f) elemento soggettivo, da
individuare nell'intenzione dell'agente di avvilire e
sopraffare il soggetto passivo, attraverso vari episodi
di aggressione alla sfera morale e materiale del
medesimo, ispirati da dolo unitario e pressoché
programmatico, con esclusione quindi della mera
occasionalità e del dolo d'impeto, isolato e
frammentario.
5- La sentenza impugnata, pertanto, deve essere
annullata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra
Sezione della Corte d'Appello di Trieste, che dovrà, con
ampia libertà di valutazione, dare adeguata e logica
risposta ai rilievi di cui innanzi.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione
della Corte d'Appello di Trieste per nuovo giudizio.
Picchiata dal convivente, continua a vivere con lui e
anzi lo sposa. La Cassazione precisa che, se i litigi
sono occasionali, l’uomo non può essere condannato per
maltrattamenti in famiglia.
Elementi di fatto contraddittori. Nel caso
di specie, la donna dopo un litigio violento in cui il
convivente pare averla percossa, minacciata, costretta a
subire rapporti sessuali non
consenzienti e a mendicare, si allontana da casa con i
suoi figli e si rifugia in una comunità d’accoglienza.
Subito dopo torna a vivere con l’uomo e lo sposa, ma il
rapporto resta burrascoso, caratterizzato da
un'alternanza di periodi di relativa tranquillità e di
particolare tensione. Il Tribunale condanna l’uomo per
maltrattamenti a due anni di reclusione, pena che in
appello viene ridotta di poco. L’uomo ricorre in
Cassazione.
Il reato di maltrattamenti in famiglia: limiti e
confini. Con la sentenza n. 1417 i
giudici ermellini della sesta sezione penale di
Cassazione tornano a circoscrivere il reato di
maltrattamenti in famiglia, sottolineando come
la condotta integratrice
dell’illecito è costituita non solo da quei fatti che
ledono o pongono in pericolo beni che l'ordinamento
giuridico già autonomamente protegge, ma anche da tutti
quei fatti lesivi del patrimonio morale e
dell'integrità psichica del soggetto passivo, che,
seppure singolarmente considerati non costituiscono
reato, siano tali da rendere abitualmente dolorosa la
relazione con l'agente.
Reato abituale. È necessaria cioè
una molteplicità di fatti vessatori o violenti
per la configurabilità del delitto di maltrattamenti,
che è tipico reato abituale. Questo, pertanto, sussiste
se l'agente non si limita a porre in essere sporadici
episodi di violenza, di minaccia o di offesa, ma
sottopone il soggetto passivo ad una serie di sofferenze
fisiche e morali, in modo che i singoli atti siano uniti
tanto da un legame di abitualità (elemento
oggettivo), quanto da un'intenzione criminosa che si
ponga come elemento unificatore dei singoli atti
vessatori (elemento soggettivo, inteso come dolo
unitario).
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