Con la sentenza n. 230 del 2010 la Seconda Sezione
civile della Corte di Cassazione introduce uno spunto
innovativo in materia di compensi d’avvocato.
Sino ad ora la prestazione resa dall’avvocato al
patrocinato ha sempre trovato la sua tipicità
nell’essere considerata una prestazione di mezzi e non
di risultato. Con l’ovvia conseguenza, per quanto
riguarda specificamente i compensi finali, che al legale
i medesimi sono dovuti indipendentemente dal
raggiungimento di un risultato utile (inteso come
favorevole) per l’assistito (si veda, in specie, in un
procedimento penale l’assoluzione).
Il rapporto obbligatorio che intercorre tra il
professionista ed il suo cliente afferisce tipicamente
infatti ad una figura di mandato che prescinde dal
raggiungimento dello scopo utile.
Nonostante l’avvocato si adoperi per ottenerlo, il
medesimo scopo cioè non forma oggetto di obbligazione e
pertanto non può costituire termine di confronto per la
quantificazione del compenso finale.
La sentenza in esame invece ammette la possibilità di
qualificare l’opera prestata dall’avvocato non già come
prestazione di mezzi, ma bensì di risultato.
Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione
prende in esame ed avalla l’ipotesi in cui, per espresso
accordo tra le parti, si ponga in essere uno schema
negoziale subordinato al raggiungimento di un utile
risultato per il cliente. In tal caso, ammette la Corte,
il compenso professionale dovrà necessariamente
rapportarsi alla “positività” del risultato finale
raggiunto dal legale.
La conseguenza, che stigmatizza ancor più
l’innovazione della quale è discorso, sta nel fatto che
logicamente il cliente, nel caso in cui il
professionista si sia impegnato nei suoi confronti ad un
risultato favorevole, potrà in tutto o in parte
decurtare gli importi che gli saranno richiesti dal
legale in virtù delle modalità con le quali si è chiusa
la pratica che lo riguarda (si pensi al caso in cui, in
un giudizio civile, il magistrato accolga solo in parte
le conclusioni presentate).
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