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DANNO MORALE: RIFLESSIONI SULLA CATEGORIA” – Alessandro ERRANTE PARRINO

 

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In seguito alla concettualizzazione operata dalle SS.UU. nel 2008 si parla sempre più spesso di danno non patrimoniale come categoria unitaria e di sofferenza morale come enunciato descrittivo di un tipo di pregiudizio.
Questa scelta organizzativa del sistema non deve però far dimenticare all’interprete le caratteristiche tradizionali del danno morale che, seppure è una categoria superata nelle sue limitazioni alla risarcibilità del danno non patrimoniale, mantiene sempre una ratio precisa che è quella di sollecitare l’attenzione dell’interprete nell’apprestare tutela attraverso il rimedio risarcitorio ad interessi non economici ma morali (1).
Questa riflessione vuole evidenziare quest’aspetto che, anche nel nuovo assetto della disciplina del danno non patrimoniale, permane e deve essere tenuto in considerazione dall’interprete.

n tanti si chiedono oggi che senso abbia l’art. 2059 c.c. e se non sarebbe più opportuna la sua abrogazione. Riflettere sulle origini dell’itinerario giuridico che ha condotto all’attuale disciplina può, a mio avviso, condurre a scelte consapevoli e ponderate che consentano un elaborazione della fattispecie che tenga in debito conto i limiti strutturali insiti nella difficoltà di dover dare un prezzo (il risarcimento) a beni il cui valore è meramente soggettivo.
Non si fraintenda questa riflessione come un nostalgico desiderio di ritorno al passato o come contraria ad aperture ulteriori, sia sul piano dell’ingiustizia che del danno risarcibile; l’obiettivo è invece quello di aprirsi al futuro senza tralasciare i problemi di fondo che l’ormai obsoleta applicazione dell’art. 2059 c.c. elevava ad ostacoli insormontabili e che oggi hanno perso tale forza ma non la loro natura intrinseca.

Emblematica mi sembra la considerazione della fattispecie che si evince
nelle parole della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale che seguono:

“La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che
il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il
contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente,
turbamento dell'animo transeunte”;
Cass. SS.UU. 11 novembre 2008, Nn. 26972,3,4,5.


“danno morale (...) sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata (...)
l'ansia, l'angoscia, le sofferenze fisiche o psichiche ecc., effimere e non durature (...)
danno morale (o non patrimoniale) (...) l'ingiusto perturbamento dello stato d'animo del
soggetto offeso”;
Corte cost., sent. 14 luglio 1986, n. 184.

“tradizionale restrittiva lettura dell’articolo 2059 (...) tutela soltanto al danno morale
soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati
da fatto illecito integrante reato”;
Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827,8828.

Nella lettura tradizionale dell’art. 2059 c.c. la locuzione “danno non patrimoniale”
assume dunque il significato di “danno morale”, consistente in un “soffrire” che assume
rilevanza per il diritto solo ove cagionato a seguito di un reato.
Il danno morale si fonda su queste due caratteristiche, nella sua essenza naturalistica potremmo dire che consiste nella sofferenza, nella percezione dolorosa, nella sua essenza giuridica esso si connota attraverso il reato.
Questi sono i due elementi del “danno morale”, i quali però non vanno immaginati come due colonne a se stanti, ma come due radici capillari che si intrecciano tra loro formando una trama e che prendono reciprocamente vigore.
Iniziamo dal fenomeno naturale: il danno morale viene identificato nel “danno che arreca solo un dolore morale”, il dolore però è un entità soggettiva che appartiene
all’intimo sentire di ogni essere umano, tant’è che la locuzione danno morale viene
spesso completata dall’attributo “soggettivo”.
Tale effimera entità naturalistica non si può determinare secondo le ordinarie tecniche del risarcimento, al punto che, vigente l’art. 1151 c.c. (1865), norma che rendeva risarcibile qualunque danno, illustri studiosi (2) e autorevole giurisprudenza (3) si schierarono per l’esclusione della rilevanza di esso dall’ambito giuridico.

Risarcire significa eliminare le conseguenze dell’evento dannoso: nell’ambito patrimoniale ciò avviene attraverso il denaro che facilmente si eguaglia ai beni, secondo
tecniche definite (4); nell’ambito del sentire di ogni persona le conseguenze dell’evento
dannoso sono indefinite e indeterminabili se non attraverso un criterio convenzionale.
A tal proposito le norme che disciplinavano la materia prima dell’entrata in vigore del codice civile (1889) – (1913) parlavano di “riparazione” proprio per diversificare la fattispecie dal risarcimento che risponde a criteri di proporzione diretta tra entità commensurabili.
Dunque il “danno morale” come entità naturalistica non è percepibile dall’ordinamento giuridico: il dolore, l’umiliazione, la frustrazione, l’angoscia, l’insicurezza, la vergogna, l’esistenza, non hanno un limite qualitativo né quantitativo.
Con un salto logico potremmo persino affermare che il danno morale naturalisticamente non esiste, perché come l’infinito non è matematicamente frazionabile così non è possibile percepire una frazione dell’impercettibile, il danno morale è una frazione determinata secondo criteri giuridici di un fenomeno materialmente impalpabile.
Proprio per questo motivo il danno morale ha bisogno del reato, riparare le conseguenze di un reato è diverso dal “risarcimento”: il danno morale esiste dunque attraverso una convenzione giuridica.
L’ordinamento giuridico possiede il denaro quale intermediario nelle relazioni sociali, seppure il denaro non può equipararsi a entità soggettivamente percepibili la logica patrimonialista della responsabilità civile fa sì che beni e valori rilevanti per
l’ordinamento giuridico siano, pure in modo improprio, tutelati con il più efficace mezzo
a disposizione.
Il “danno morale soggettivo da reato” è una convenzione che, facendo leva sulla
riprovevolezza, penalmente sanzionata, dell’evento dannoso, permea il giudizio di
responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. di una funzione diversa.
Nell’ambito patrimoniale il risarcimento compensa la diminuzione prodotta dal danno, dinanzi al reato il risarcimento rafforza la punizione del reo e soddisfa la vittima.
A conferma di questa ricostruzione la giurisprudenza ha connotato il danno morale soggettivo di un ulteriore attributo: “transeunte”, “danno morale soggettivo transeunte” “da reato”: le sofferenze risarcibili sono state ulteriormente circoscritte a quelle che si protraggono per un breve periodo di tempo successivo al reato (“transeunte”), questa restrizione conferma l’origine convenzionale della fattispecie.
Ad esempio, nell’ipotesi della violenza sessuale, come si può negare che le conseguenze dolorose si protraggono nel lungo periodo incidendo sulla personalità della vittima?
La descrizione naturalistica delle conseguenze in questo caso (emblematico di tanti altri) è evidentemente non commensurabile ad una logica monetaria proporzionale (come si trattasse di un carico di pomodori distrutto), ciò non toglie che la vittima possa
soddisfarsi in maniera forfettaria.
Pertanto la qualità e la quantità delle sofferenze provate dalla vittima come conseguenze dell’evento dannoso-reato svolgono una funzione diversa rispetto alle conseguenze patrimoniali dell’evento dannoso; queste ultime sussistono materialmente e sono oggettivabili e conoscibili empiricamente dal giudice, vanno dunque provate e
quantificate; le prime sussistono esclusivamente nella sfera soggettiva di percezione della
vittima, quindi il giudice non potrà percepirle materialmente né la vittima potrà esternarle
in una prova oggettiva e monetizzabile.
Il giudice però può conoscere l’evento dannoso-reato e da esso trarre indici adeguati a presumere l’esistenza di conseguenze non materiali.
Per l’appunto il danno morale viene definito “danno in re ipsa”, in quanto provato
l’evento reato si presumono esistenti le conseguenze di esso determinate equitativamente
dal giudice attraverso uno schema che devia rispetto all’ordinario giudizio di responsabilità fondato sulla prova delle conseguenze dannose dell’evento.

Danno “in re ipsa”.

Il danno morale non si può provare e quantificare se non attraverso presunzioni e
suggestioni perché per sua natura è un concetto costruito giuridicamente pertanto la
giurisprudenza ha parlato di “danno in re ipsa” e la valutazione equitativa del giudice ne
è l’unica possibile.
Soffermiamoci sul concetto di “danno in re ipsa”:
“la dimostrazione del danno sarebbe in re ipsa, per cui non ricadrebbe sull'attore originario l'onere della dimostrazione delle singole situazioni di pregiudizio subite e risarcibili... ed invero, sos