In seguito alla concettualizzazione operata dalle SS.UU.
nel 2008 si parla sempre più spesso di danno non
patrimoniale come categoria unitaria e di sofferenza
morale come enunciato descrittivo di un tipo di
pregiudizio.
Questa scelta organizzativa del sistema non deve però
far dimenticare all’interprete le caratteristiche
tradizionali del danno morale che, seppure è una
categoria superata nelle sue limitazioni alla
risarcibilità del danno non patrimoniale, mantiene
sempre una ratio precisa che è quella di sollecitare
l’attenzione dell’interprete nell’apprestare tutela
attraverso il rimedio risarcitorio ad interessi non
economici ma morali (1).
Questa riflessione vuole evidenziare quest’aspetto che,
anche nel nuovo assetto della disciplina del danno non
patrimoniale, permane e deve essere tenuto in
considerazione dall’interprete.
n tanti si chiedono oggi che senso abbia l’art. 2059
c.c. e se non sarebbe più opportuna la sua abrogazione.
Riflettere sulle origini dell’itinerario giuridico che
ha condotto all’attuale disciplina può, a mio avviso,
condurre a scelte consapevoli e ponderate che consentano
un elaborazione della fattispecie che tenga in debito
conto i limiti strutturali insiti nella difficoltà di
dover dare un prezzo (il risarcimento) a beni il cui
valore è meramente soggettivo.
Non si fraintenda questa riflessione come un nostalgico
desiderio di ritorno al passato o come contraria ad
aperture ulteriori, sia sul piano dell’ingiustizia che
del danno risarcibile; l’obiettivo è invece quello di
aprirsi al futuro senza tralasciare i problemi di fondo
che l’ormai obsoleta applicazione dell’art. 2059 c.c.
elevava ad ostacoli insormontabili e che oggi hanno
perso tale forza ma non la loro natura intrinseca.
Emblematica mi sembra la considerazione della
fattispecie che si evince
nelle parole della Corte di Cassazione e della Corte
Costituzionale che seguono:
“La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059
c.c., si consolidò nel ritenere che
il danno non patrimoniale era risarcibile solo in
presenza di un reato e ne individuò il
contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come
sofferenza contingente,
turbamento dell'animo transeunte”;
Cass. SS.UU. 11 novembre 2008, Nn. 26972,3,4,5.
“danno morale (...) sofferenza soggettiva cagionata dal
reato in sé considerata (...)
l'ansia, l'angoscia, le sofferenze fisiche o psichiche
ecc., effimere e non durature (...)
danno morale (o non patrimoniale) (...) l'ingiusto
perturbamento dello stato d'animo del
soggetto offeso”;
Corte cost., sent. 14 luglio 1986, n. 184.
“tradizionale restrittiva lettura dell’articolo 2059
(...) tutela soltanto al danno morale
soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento
dell’animo transeunte determinati
da fatto illecito integrante reato”;
Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827,8828.
Nella lettura tradizionale dell’art. 2059 c.c. la
locuzione “danno non patrimoniale”
assume dunque il significato di “danno morale”,
consistente in un “soffrire” che assume
rilevanza per il diritto solo ove cagionato a seguito di
un reato.
Il danno morale si fonda su queste due caratteristiche,
nella sua essenza naturalistica potremmo dire che
consiste nella sofferenza, nella percezione dolorosa,
nella sua essenza giuridica esso si connota attraverso
il reato.
Questi sono i due elementi del “danno morale”, i quali
però non vanno immaginati come due colonne a se stanti,
ma come due radici capillari che si intrecciano tra loro
formando una trama e che prendono reciprocamente vigore.
Iniziamo dal fenomeno naturale: il danno morale viene
identificato nel “danno che arreca solo un dolore
morale”, il dolore però è un entità soggettiva che
appartiene
all’intimo sentire di ogni essere umano, tant’è che la
locuzione danno morale viene
spesso completata dall’attributo “soggettivo”.
Tale effimera entità naturalistica non si può
determinare secondo le ordinarie tecniche del
risarcimento, al punto che, vigente l’art. 1151 c.c.
(1865), norma che rendeva risarcibile qualunque danno,
illustri studiosi (2) e autorevole giurisprudenza (3) si
schierarono per l’esclusione della rilevanza di esso
dall’ambito giuridico.
Risarcire significa eliminare le conseguenze dell’evento
dannoso: nell’ambito patrimoniale ciò avviene attraverso
il denaro che facilmente si eguaglia ai beni, secondo
tecniche definite (4); nell’ambito del sentire di ogni
persona le conseguenze dell’evento
dannoso sono indefinite e indeterminabili se non
attraverso un criterio convenzionale.
A tal proposito le norme che disciplinavano la materia
prima dell’entrata in vigore del codice civile (1889) –
(1913) parlavano di “riparazione” proprio per
diversificare la fattispecie dal risarcimento che
risponde a criteri di proporzione diretta tra entità
commensurabili.
Dunque il “danno morale” come entità naturalistica non è
percepibile dall’ordinamento giuridico: il dolore,
l’umiliazione, la frustrazione, l’angoscia,
l’insicurezza, la vergogna, l’esistenza, non hanno un
limite qualitativo né quantitativo.
Con un salto logico potremmo persino affermare che il
danno morale naturalisticamente non esiste, perché come
l’infinito non è matematicamente frazionabile così non è
possibile percepire una frazione dell’impercettibile, il
danno morale è una frazione determinata secondo criteri
giuridici di un fenomeno materialmente impalpabile.
Proprio per questo motivo il danno morale ha bisogno del
reato, riparare le conseguenze di un reato è diverso dal
“risarcimento”: il danno morale esiste dunque attraverso
una convenzione giuridica.
L’ordinamento giuridico possiede il denaro quale
intermediario nelle relazioni sociali, seppure il denaro
non può equipararsi a entità soggettivamente percepibili
la logica patrimonialista della responsabilità civile fa
sì che beni e valori rilevanti per
l’ordinamento giuridico siano, pure in modo improprio,
tutelati con il più efficace mezzo
a disposizione.
Il “danno morale soggettivo da reato” è una convenzione
che, facendo leva sulla
riprovevolezza, penalmente sanzionata, dell’evento
dannoso, permea il giudizio di
responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. di una funzione
diversa.
Nell’ambito patrimoniale il risarcimento compensa la
diminuzione prodotta dal danno, dinanzi al reato il
risarcimento rafforza la punizione del reo e soddisfa la
vittima.
A conferma di questa ricostruzione la giurisprudenza ha
connotato il danno morale soggettivo di un ulteriore
attributo: “transeunte”, “danno morale soggettivo
transeunte” “da reato”: le sofferenze risarcibili sono
state ulteriormente circoscritte a quelle che si
protraggono per un breve periodo di tempo successivo al
reato (“transeunte”), questa restrizione conferma
l’origine convenzionale della fattispecie.
Ad esempio, nell’ipotesi della violenza sessuale, come
si può negare che le conseguenze dolorose si protraggono
nel lungo periodo incidendo sulla personalità della
vittima?
La descrizione naturalistica delle conseguenze in questo
caso (emblematico di tanti altri) è evidentemente non
commensurabile ad una logica monetaria proporzionale
(come si trattasse di un carico di pomodori distrutto),
ciò non toglie che la vittima possa
soddisfarsi in maniera forfettaria.
Pertanto la qualità e la quantità delle sofferenze
provate dalla vittima come conseguenze dell’evento
dannoso-reato svolgono una funzione diversa rispetto
alle conseguenze patrimoniali dell’evento dannoso;
queste ultime sussistono materialmente e sono
oggettivabili e conoscibili empiricamente dal giudice,
vanno dunque provate e
quantificate; le prime sussistono esclusivamente nella
sfera soggettiva di percezione della
vittima, quindi il giudice non potrà percepirle
materialmente né la vittima potrà esternarle
in una prova oggettiva e monetizzabile.
Il giudice però può conoscere l’evento dannoso-reato e
da esso trarre indici adeguati a presumere l’esistenza
di conseguenze non materiali.
Per l’appunto il danno morale viene definito “danno in
re ipsa”, in quanto provato
l’evento reato si presumono esistenti le conseguenze di
esso determinate equitativamente
dal giudice attraverso uno schema che devia rispetto
all’ordinario giudizio di responsabilità fondato sulla
prova delle conseguenze dannose dell’evento.
Danno “in re ipsa”.
Il danno morale non si può provare e quantificare se non
attraverso presunzioni e
suggestioni perché per sua natura è un concetto
costruito giuridicamente pertanto la
giurisprudenza ha parlato di “danno in re ipsa” e la
valutazione equitativa del giudice ne
è l’unica possibile.
Soffermiamoci sul concetto di “danno in re ipsa”:
“la dimostrazione del danno sarebbe in re ipsa, per cui
non ricadrebbe sull'attore originario l'onere della
dimostrazione delle singole situazioni di pregiudizio
subite e risarcibili... ed invero, sos |