FATTO E DIRITTO
La parte opposta, assumendo di essere proprietaria
dell’impianto per cui è lite, ingiungeva alla opponente
la consegna dello stesso, sulla base di un dedotto
contratto di comodato senza termine e, dunque,
suscettibile di scioglimento ad nutum.
Proponeva opposizione la società opponente deducendo
l’insussistenza di un rapporto di comodato ed allegando
diverse notazioni difensive, tutte rimaste sfornita di
valida prova.
La tesi del contratto di comodato è provata.
In primis, già nei documenti di trasporto del 2008, si
indicava espressamente la voce “comodato d’uso”.
Ciò che, però, più conta è la dichiarazione di TIZIA,
amministratrice della società opponente, la quale in
data 22 luglio 2009, espressamente dichiarava alla
società opposta:
“Riconosce (…) in capo alla R. la proprietà della
macchina linea taglio cavi che sta attualmente
utilizzando, in forza di accordi con il proprietario, a
titolo di comodato per la produzione a favore del Gruppo
X..”.
Ai sensi dell’art. 1810 c.c., se non è stato convenuto
un termine né questo risulta dall'uso a cui la cosa
doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a
restituirla non appena il comodante la richiede o, tutt’al
più, entro il termine indicato dal giudice, in analogia
con la disposizione di cui all’art. 1183 c.c. (cfr.
Cass. civ., sez. III, sentenza n. 4921 del 10 agosto
1988). Nel caso di specie, su intervento del giudice e
accordo delle parti, come intervenuto all’udienza dell’8
gennaio 2010 (e dunque un anno fa), i litiganti si sono
accordati nel senso di non portare ad esecuzione
l’ingiunzione (già provvisoriamente esecutiva ex art.
642 c.p.c.) se non al termine della lite, come definita
per sentenza. Vi è, dunque, che il comodatario ha avuto
un anno per predisporre, secondo diligenza professionale
richiesta nel caso di specie, quanto necessario per la
sostituzione del macchinario richiesto; e, allora, non
appare giustificata l’apposizione di un termine ex art.
1183 c.c., differente da quello da individuare nella
data della sentenza.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la domanda
dell’opponente va respinta.
Questo giudice, non può non rilevare che le parti in
causa (i rappresentanti legali delle compagini
societarie in lite) sono già marito e moglie, nella fase
della separazione giudiziale (v. documenti in atti).
Vi è, poi, che il notorio giudiziario interno al
Tribunale, conosciuto ex officio da questo giudice e
noto alle parti, consegna dei dati allarmanti, quanto ai
procedimenti instaurati dalle parti in lite, TIZIA e
CAIO, in nemmeno due anni giudiziari:
1) Separazione giudiziale, dr.ssa Chiara Delmonte
2) Procedimento ex art. 615 c.p.c., dr. Giuseppe Buffone
3) Recupero credito, dr. Stefano Sala
4) Opposizione a decreto ingiuntivo, dr. Giuseppe
Buffone
Vi è, di fatto, che la facoltà di disporre di buone
risorse economiche, da un lato, e la natura litigiosa
dei rapporti dall’altro, hanno indotto i litiganti a
trasferire nel contesto giudiziario il loro terreno di
scontro: come accade nel caso di specie. TIZIA,
perfettamente a conoscenza della natura del contratto e
del suo impegno a restituire il bene oggetto di cd.
prestito d’uso, di fronte alla richiesta del marito,
interpone opposizione a decreto ingiuntivo, qui
rivelatasi manifestamente infondata e, per di più,
sorretta da un elemento soggettivo di rimproverabilità
(colpa).
Alla luce dei rilievi sin qui illustrati, la opponente
va condannata ai sensi dell’art. 96 comma III c.p.c.
L’abuso del processo causa un danno indiretto all’erario
(per l’allungamento del tempo generale nella trattazione
dei processi e, di conseguenza, l’insorgenza
dell’obbligo al versamento dell’indennizzo ex lege
89/2001) e un danno diretto al litigante (per il ritardo
nell’accertamento della verità) e va dunque contrastato
(v. Trib. Varese, sez. Luino, ord. 23 gennaio 2010 in
Foro Italiano, 2010, 7–8, I, 2229). In tale contesto, si
comprende perché il Legislatore del 2009 (legge n. 69)
abbia introdotto un danno tipicamente punitivo nell’art.
96 comma III c.p.c. al fine di scoraggiare l’abuso del
processo e preservare la funzionalità del sistema
giustizia (v. Trib. di Piacenza, sez. civ., sentenza 22
novembre 2010, est. Morlini in Guida al dir., 2011, 3).
Infatti, la norma introdotta dalla Legge 18 giugno 2009
n. 69 nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non ha natura
meramente risarcitoria ma “sanzionatoria” (Tribunale di
Piacenza, sez. civile, sentenza 7 dicembre 2010, est.
Coderoni) come la prevalente giurisprudenza di merito ha
ritenuto (v. anche Trib. Verona, ord. 1 ottobre 2010;
Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Verona, sez. III
civ., sentenza 20 settembre 2010) là dove ha statuito
che essa introduce nell’ordinamento una forma di danno
punitivo per scoraggiare l’abuso del processo (Tribunale
di Roma, sez. XI civile, sentenza 11 gennaio 2010 in
Giur. Merico, 2010, 9) e preservare la funzionalità del
sistema Giustizia (in questi termini, Trib. Prato 6
novembre 2009, Trib. Milano 29 agosto 2009),
traducendosi, dunque, in “una sanzione d’ufficio”
(Tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, sentenza 9
dicembre 2010). Nella medesima direttrice ermeneutica si
colloca la giurisprudenza di questo Tribunale (v. Trib.
Varese, sez. I civ., sentenza 30 ottobre 2009 in Giur.
di Merito, 2010, 2, 431 e in Resp. civ., 2010, 387 ss.;
Trib. Varese, sez. dist. Luino, ordinanza 23 gennaio
2010 cit.).
La giurisprudenza sin qui richiamata merita di essere
riproposta e condivisa. Come hanno rilevato in tempi
recenti le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza del
16 luglio 2008 n. 19499 [In Responsabilità civile e
previdenza, 2009, 9, 1862]), nell’attuale realtà
storico-sociale, le istituzioni del Paese annoverano “le
inefficienze e le lunghezze del sistema giudiziario
civile tra le cause del rallentamento dello sviluppo
economico dell'Italia”; in particolare, il Supremo
Giudice afferma che “tutte le istituzioni del Paese da
tempo annoverino la inappagante funzionalità della
giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai
lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla
variabile niente affatto indipendente del numero delle
cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico
inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il
profilo dell'abbassamento della propensione agli
investimenti”. E’ dunque certo che le liti temerarie
contribuiscono ad un danno all’intera collettività,
poiché il carico del lavoro giudiziario rallenta
inevitabilmente la trattazione di tutti i procedimenti
sul Ruolo con riflessi negativi di impatto elevatissimo
(si pensi ai costi ingenti che lo Stato versa per i
ritardi ex lege 89/2001).
Il Tribunale di Milano, in tal senso, ha ritenuto che la
ratio della nuova disposizione di cui all’art. 96, 3°
comma c.p.c. può essere individuata nello scoraggiare
comportamenti strumentali alla funzionalità del servizio
giustizia e in genere al rispetto della legalità
[Tribunale di Milano, ordinanza 20 agosto 2009 in
www.judicium.it].
Ebbene, alla luce delle considerazioni espresse, la
opponente va condannata ad una pena pecuniaria da
liquidare in favore della parte opposta, nella cui sfera
giuridica soggettiva, peraltro, è evidente un danno
subito (quantomeno per il mancato uso del bene di
proprietà da novembre del 2009 all’attualità).
Per i motivi sin qui illustrati, l’opponente va
condannata alla pena pecuniaria in favore della
controparte, liquidata coma da dispositivo.
Le spese di lite vanno poste a carico della parte
opponente risultata soccombente.
Quanto all’ammontare della liquidazione, va ricordato
quanto affermato dalle Sezioni Unite dell’11 settembre
2007 n. 19014: le spese di lite vanno liquidate giusta
la natura ed il valore della controversia, l’importanza
ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di
chiusura del processo. Il principio di adeguatezza e
proporzionalità impone, peraltro, una costante ed
effettiva relazione tra la materia del dibattito
processuale e l'entità degli onorari per l'attività
professionale svolta. Il decisum prevale quindi, di
regola, sul disputatum (Corte di Cassazione, Sezioni
Unite civili, sentenza 11 settembre 2007, n. 19014)
salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale della
domanda attorea ove consegue che il valore della
controversia è quello corrispondente alla somma
domandata dall'attore (Cass. civ., Sez. I, 11 marzo
2006, n. 5381). Trattasi di principi confermati di
recente dalla giurisprudenza di Cassazione (v. Cass.
Civ., Sez. II, sent. 5 gennaio 2011, n. 226: anche in
considerazione dei principi di effettività e
proporzionalità cui sono, nel loro complesso, improntate
le regole delle Tariffe Forensi, in tema di
determinazione degli onorari dovuti dal cliente al
proprio difensore, ai fini dell'individuazione dello
scaglione tariffario applicabile assume decisiva
rilevanza il criterio dell'effettivo valore della
controversia, desumibile dal decisum”. Tenendo conto del
giudizio, atteso il valore della causa e, per tali
indici, applicati i barèmes tariffari, le spese del
giudizio vanno liquidate come da dispositivo, sulla base
della nota spese del difensore, da ridurre negli onorari
perché non conforme ai principi sin qui illustrati.
Vanno aggiunte le spese forfetarie, giusta l’art. 14 DM
8.4.2004 n. 127, nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa
giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE DI VARESE, SEZIONE PRIMA CIVILE, in
composizione monocratica, in persona del giudice dott.
Giuseppe Buffone, definitivamente pronunciando nel
giudizio civile iscritto al n. … dell’anno 2009,
disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa,
così provvede:
RIGETTA, per i motivi di cui in parte motiva,
l’opposizione della parte opponente e per l’effetto
CONFERMA il decreto ingiuntivo n. …/2009 emesso dal
Tribunale di Varese in data 12 novembre 2009 e
notificato in data 20 novembre 2009.
CONDANNA l’opponente al rimborso delle spese del
giudizio di opposizione in favore della controparte che
LIQUIDA
come segue, ai sensi dell’art. 91 c.p.c.
Spese €. 170,00
Diritti €. 2.046,00
Onorari €. 4.800,00
Vanno aggiunti il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta
l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576. Va anche
aggiunto il rimborso forfetario ex art. 14 D.M. 8 aprile
2004 n. 127.
CONDANNA l’opponente, TIZIA, titolare della società N
s.r.l., ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c., ad una
pena pecuniaria in favore della controparte, che LIQUIDA
in complessivi Euro 10.000,00 oltre interessi legali
dalla sentenza e sino al soddisfo.
MANDA alla cancelleria per i provvedimenti di
competenza.
Varese, lì 21 gennaio 2011
Il Giudice
DOTT. GIUSEPPE BUFFONE
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