- Natalino SAPONE
Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 459, Pres.
Foglia, rel., D’Agostino, ha rigettato il ricorso
incidentale proposto dal dipendente avverso la sentenza
del giudice di merito che aveva escluso la sussistenza
del danno esistenziale in quanto solo genericamente
allegato e comunque non provato.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del
giudice di merito, ritenendola “conforme al più
recente orientamento del giudice di legittimità in tema
di
danno
esistenziale (vedi S.U. n.
26972/2008), secondo cui il danno non patrimoniale
derivante dalla lesione di diritti inviolabili della
persona costituzionalmente garantiti (diversi dal
diritto alla salute) è risarcibile a tre condizioni: a)
che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b)
che la lesione sia grave, nel senso che la lesione
superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il
danno non sia futile, nel senso che non consista in meri
disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del
tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed
alla felicità”.
“La prova della ricorrenza dei suddetti requisiti -
ha aggiunto la S. C. - grava sul preteso
danneggiato”.
La sentenza non è condivisibile in quanto conferisce un
peso eccessivo a nozioni vaghe come quelle di gravità
della lesione e di non futilità del danno, configurando
un generalizzato onere della prova in proposito.
Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 459, Pres.
Foglia, rel. D’Agostino, ha rigettato il ricorso
incidentale proposto dal dipendente avverso la sentenza
del giudice di merito che aveva escluso la sussistenza
del danno esistenziale in quanto solo genericamente
allegato e comunque non provato.
Sosteneva il ricorrente di aver dedotto e dimostrato di
aver subito, per effetto del demansionamento e dei
successivi licenziamenti, un mutamento radicale delle
sue condizioni di vita sia nei rapporti con terzi che
nei rapporti con gli altri componenti della sua
famiglia.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del
giudice di merito, ritenendola “conforme al più
recente orientamento del giudice di legittimità in tema
di
danno
esistenziale (vedi S.U. n.
26972/2008), secondo cui il danno non patrimoniale
derivante dalla lesione di diritti inviolabili della
persona costituzionalmente garantiti (diversi dal
diritto alla salute) è risarcibile a tre condizioni: a)
che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b)
che la lesione sia grave, nel senso che la lesione
superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il
danno non sia futile, nel senso che non consista in meri
disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del
tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed
alla felicità”.
“La prova della ricorrenza dei suddetti requisiti -
ha aggiunto la S. C.
- grava sul preteso danneggiato. Nella fattispecie in
esame il giudice di merito, con valutazione non
sindacabile in sede di legittimità, ha escluso che il
funzionario abbia dato la prova della sussistenza del
danno, la cui ricorrenza, secondo l’autorevole
interpretazione delle Sezioni Unite, è legata alla
presenza delle condizioni sopra specificate. Le censure
che ora la parte rivolge alla sentenza impugnata non
investono minimamente la sussistenza delle predette
condizioni e sono di fatto inidonee ad infirmare la
decisione del giudice di appello>>
Esaminiamo da vicino l’argomentare della S. C.
In primo luogo la S. C. sembra usare la locuzione danno
esistenziale come formula abbreviata di “danno non
patrimoniale derivante dalla lesione di diritti
inviolabili della persona costituzionalmente garantiti
(diversi dal diritto alla salute)”. Dire danno
esistenziale è quindi, in questa impostazione,
lo stesso che dire danno non patrimoniale derivante
dalla lesione di diritti diversi da quello alla salute e
– si può aggiungere – da reato. È questo il modo in cui
la locuzione danno esistenziale viene usata dalla Corte
Cost. n. 233/03. Ma non è questa la migliore
configurazione del danno esistenziale, quella in cui il
danno esistenziale può esprimere al meglio la sua
utilità.
Nell’uso di una parola, dice Wittgenstein, si potrebbe
distinguere una ‘grammatica superficiale’ da
una ‘grammatica profonda’. Ecco, il modo di
impiegare l’espressione “danno esistenziale”
come acronimo di danni non patrimoniali derivanti dalla
lesione di diritti diversi dalla salute corrisponde alla
sua grammatica superficiale. La grammatica profonda è
quella in cui la parola “danno esistenziale”
viene impiegata dalla n. 6572/06, ossia come tipo di
danni-conseguenza, quale che sia il diritto dalla
lesione del quale discende, consistente nella
compromissione di abitudini di vita, scelte di
vita, assetti relazionali.
In secondo luogo la sentenza in commento richiede per la
risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione di
diritti inviolabili la rilevanza costituzionale
dell’interesse leso. Affermazione, questa, che appare
strana; se la si prende alla lettera, si dovrebbe
ipotizzare la sussistenza di diritti inviolabili senza
rilevanza costituzionale. Letta in modo ragionevole,
l’affermazione va intesa nel senso che il danno
esistenziale è risarcibile a condizione che derivi dalla
lesione di interesse costituzionalmente protetto.
Altra condizione della risarcibilità del danno non
patrimoniale derivante dalla lesione di diritti diversi
dalla salute è la
gravità
della lesione; gravità intesa come superamento
di una soglia minima di tollerabilità della lesione.
Anche qui una piccola stranezza. Gravità non viene
intesa come superamento di una media, di un livello di
normalità, ma come superamento di una soglia minima.
Ulteriore condizione di risarcibilità è la
non futilità
del danno. Ma anche qui l’affermazione desta
perplessità. Danno futile vuol dire, secondo la sentenza
in commento, danno non consistente in meri disagi o
fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto
immaginari, come quello alla qualità della vita ed alla
felicità.
Ma qui vi è una commistione tra ingiustizia e perdita.
La futilità attiene all’ingiustizia o al
danno-conseguenza? Là dove la sentenza fa riferimento ai
meri disagi e fastidi sembra connettere la futilità alla
perdita. Là dove fa riferimento ai diritti immaginari,
sembra invece connettere la futilità all’ingiustizia. Si
perpetua quindi la commistione tra ingiustizia e
perdita, presente anche nella n. 26972/08. Il che non fa
bene alla chiarezza del dibattito.
Soprattutto non fa bene alla chiarezza del dibattito la
deconcettualizzazione derivante dall’uso di nozioni
senza spessore come quelle di gravità della lesione e di
futilità del danno. Sono nozioni evocative, meramente
intuitive, non concetti. I concetti riuniscono un
insieme di cose diverse sotto il segno di un’essenza
comune. Nozioni come gravità e non futilità non hanno
un’essenza comune; non hanno nessuna efficacia
esplicativa, nessuna capacità di fare sistema.
Questo dovrebbe indurre a configurarle come
soglie-limite, soglie di apprezzabilità minima. Il che
non sembra avvenga nella sentenza in commento, la quale
infatti esige la prova in positivo di tali requisiti e
rigetta il ricorso in quanto le censure “che ora la
parte rivolge alla sentenza impugnata non investono
minimamente la sussistenza delle predette condizioni”.
Ed anche questo suona strano.
Ha sostenuto il ricorrente di aver dedotto e dimostrato
di aver subito, per effetto del demansionamento e dei
successivi licenziamenti, un mutamento radicale delle
sue condizioni di vita sia nei rapporti con terzi come
nei rapporti con gli altri componenti della sua
famiglia. Non basta questo per dimostrare la non
futilità del danno?
Quanto poi alla gravità della lesione, è ipotizzabile un
licenziamento che produca una lesione non grave? Ed è
ipotizzabile un demansionamento – il quale, come dice la
n. 26972/08, lede la dignità del lavoratore – che non
determini una lesione grave? Ovvero è ipotizzabile – se
non come caso eccezionale – una lesione della dignità
futile, ossia non grave?
L’auspicio è allora che si utilizzino in prevalenza
nozioni dense come attività realizzatrici, abitudini di
vita, scelte di vita, assetti relazionali; e di meno
nozioni come gravità dell’offesa e non futilità del
danno; nozioni, queste ultime, vaghe e concettualmente
inconsistenti. Tali nozioni riempiono lo strumentario
dell’operatore del diritto – si potrebbe dire prendendo
in prestito parole di Leopardi – “di idee vaghe e
indefinite e vastissime (…) e mal chiare”. Non solo
non sono idee precise; ciò è normale in relazione ai
concetti fondamentali della responsabilità civile. Ciò
che non va è che non sono neanche idee chiare. Sicché
sono tali da rendere imprevedibile l’esito processuale.
Ed allora sarebbe preferibile non farne uso. E se
proprio non se ne vuol fare a meno, almeno sarebbe
meglio darne una configurazione minimalista,
applicandole in funzione di nozioni-limite, come soglie
minime di apprezzabilità. Non come requisiti essenziali
della domanda risarcitoria, che il danneggiato ha sempre
l’onere di provare, pena altrimenti il rigetto della
domanda. È questo invece l’uso che sembra pr |