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Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 459, pres. Foglia, rel. D'Agostino - "IL DANNO ESISTENZIALE TRA GRAVITA' E FUTILITA'

 

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Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 459, Pres. Foglia, rel., D’Agostino, ha rigettato il ricorso incidentale proposto dal dipendente avverso la sentenza del giudice di merito che aveva escluso la sussistenza del danno esistenziale in quanto solo genericamente allegato e comunque non provato.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito, ritenendola “conforme al più recente orientamento del giudice di legittimità in tema di danno esistenziale (vedi S.U. n. 26972/2008), secondo cui il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (diversi dal diritto alla salute) è risarcibile a tre condizioni: a) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione sia grave, nel senso che la lesione superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il danno non sia futile, nel senso che non consista in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed alla felicità”.
“La prova della ricorrenza dei suddetti requisiti - ha aggiunto la S. C. - grava sul preteso danneggiato”. 

La sentenza non è condivisibile in quanto conferisce un peso eccessivo a nozioni vaghe come quelle di gravità della lesione e di non futilità del danno, configurando un generalizzato onere della prova in proposito.

Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 459, Pres. Foglia, rel. D’Agostino, ha rigettato il ricorso incidentale proposto dal dipendente avverso la sentenza del giudice di merito che aveva escluso la sussistenza del danno esistenziale in quanto solo genericamente allegato e comunque non provato.
Sosteneva il ricorrente di aver dedotto e dimostrato di aver subito, per effetto del demansionamento e dei successivi licenziamenti, un mutamento radicale delle sue condizioni di vita sia nei rapporti con terzi che nei rapporti con gli altri componenti della sua famiglia.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito, ritenendola “conforme al più recente orientamento del giudice di legittimità in tema di danno esistenziale (vedi S.U. n. 26972/2008), secondo cui il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (diversi dal diritto alla salute) è risarcibile a tre condizioni: a) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione sia grave, nel senso che la lesione superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il danno non sia futile, nel senso che non consista in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed alla felicità”. 
“La prova della ricorrenza dei suddetti requisiti -
ha aggiunto la S. C. - grava sul preteso danneggiato. Nella fattispecie in esame il giudice di merito, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità, ha escluso che il funzionario abbia dato la prova della sussistenza del danno, la cui ricorrenza, secondo l’autorevole interpretazione delle Sezioni Unite, è legata alla presenza delle condizioni sopra specificate. Le censure che ora la parte rivolge alla sentenza impugnata non investono minimamente la sussistenza delle predette condizioni e sono di fatto inidonee ad infirmare la decisione del giudice di appello>>

Esaminiamo da vicino l’argomentare della S. C.
In primo luogo la S. C. sembra usare la locuzione danno esistenziale come formula abbreviata di “danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (diversi dal diritto alla salute)”. Dire danno esistenziale è quindi, in questa impostazione, lo stesso che dire danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti diversi da quello alla salute e – si può aggiungere – da reato. È questo il modo in cui la locuzione danno esistenziale viene usata dalla Corte Cost. n. 233/03. Ma non è questa la migliore configurazione del danno esistenziale, quella in cui il danno esistenziale può esprimere al meglio la sua utilità.
Nell’uso di una parola, dice Wittgenstein, si potrebbe distinguere una ‘grammatica superficiale’ da una ‘grammatica profonda’. Ecco, il modo di impiegare l’espressione “danno esistenziale” come acronimo di danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti diversi dalla salute corrisponde alla sua grammatica superficiale. La grammatica profonda è quella in cui la parola “danno esistenziale” viene impiegata dalla n. 6572/06, ossia come tipo di danni-conseguenza, quale che sia il diritto dalla lesione del quale discende, consistente nella compromissione di abitudini di vita, scelte di vita, assetti relazionali.

In secondo luogo la sentenza in commento richiede per la risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione di diritti inviolabili la rilevanza costituzionale dell’interesse leso. Affermazione, questa, che appare strana; se la si prende alla lettera, si dovrebbe ipotizzare la sussistenza di diritti inviolabili senza rilevanza costituzionale. Letta in modo ragionevole, l’affermazione va intesa nel senso che il danno esistenziale è risarcibile a condizione che derivi dalla lesione di interesse costituzionalmente protetto.

Altra condizione della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti diversi dalla salute è la gravità della lesione; gravità intesa come superamento di una soglia minima di tollerabilità della lesione. Anche qui una piccola stranezza. Gravità non viene intesa come superamento di una media, di un livello di normalità, ma come superamento di una soglia minima.

Ulteriore condizione di risarcibilità è la non futilità del danno. Ma anche qui l’affermazione desta perplessità. Danno futile vuol dire, secondo la sentenza in commento, danno non consistente in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed alla felicità.
Ma qui vi è una commistione tra ingiustizia e perdita. La futilità attiene all’ingiustizia o al danno-conseguenza? Là dove la sentenza fa riferimento ai meri disagi e fastidi sembra connettere la futilità alla perdita. Là dove fa riferimento ai diritti immaginari, sembra invece connettere la futilità all’ingiustizia. Si perpetua quindi la commistione tra ingiustizia e perdita, presente anche nella n. 26972/08. Il che non fa bene alla chiarezza del dibattito.
Soprattutto non fa bene alla chiarezza del dibattito la deconcettualizzazione derivante dall’uso di nozioni senza spessore come quelle di gravità della lesione e di futilità del danno. Sono nozioni evocative, meramente intuitive, non concetti. I concetti riuniscono un insieme di cose diverse sotto il segno di un’essenza comune. Nozioni come gravità e non futilità non hanno un’essenza comune; non hanno nessuna efficacia esplicativa, nessuna capacità di fare sistema.
Questo dovrebbe indurre a configurarle come soglie-limite, soglie di apprezzabilità minima. Il che non sembra avvenga nella sentenza in commento, la quale infatti esige la prova in positivo di tali requisiti e rigetta il ricorso in quanto le censure “che ora la parte rivolge alla sentenza impugnata non investono minimamente la sussistenza delle predette condizioni”. Ed anche questo suona strano.
Ha sostenuto il ricorrente di aver dedotto e dimostrato di aver subito, per effetto del demansionamento e dei successivi licenziamenti, un mutamento radicale delle sue condizioni di vita sia nei rapporti con terzi come nei rapporti con gli altri componenti della sua famiglia. Non basta questo per dimostrare la non futilità del danno?
Quanto poi alla gravità della lesione, è ipotizzabile un licenziamento che produca una lesione non grave? Ed è ipotizzabile un demansionamento – il quale, come dice la n. 26972/08, lede la dignità del lavoratore – che non determini una lesione grave? Ovvero è ipotizzabile – se non come caso eccezionale – una lesione della dignità futile, ossia non grave?
L’auspicio è allora che si utilizzino in prevalenza nozioni dense come attività realizzatrici, abitudini di vita, scelte di vita, assetti relazionali; e di meno nozioni come gravità dell’offesa e non futilità del danno; nozioni, queste ultime, vaghe e concettualmente inconsistenti. Tali nozioni riempiono lo strumentario dell’operatore del diritto – si potrebbe dire prendendo in prestito parole di Leopardi – “di idee vaghe e indefinite e vastissime (…) e mal chiare”. Non solo non sono idee precise; ciò è normale in relazione ai concetti fondamentali della responsabilità civile. Ciò che non va è che non sono neanche idee chiare. Sicché sono tali da rendere imprevedibile l’esito processuale. Ed allora sarebbe preferibile non farne uso. E se proprio non se ne vuol fare a meno, almeno sarebbe meglio darne una configurazione minimalista, applicandole in funzione di nozioni-limite, come soglie minime di apprezzabilità. Non come requisiti essenziali della domanda risarcitoria, che il danneggiato ha sempre l’onere di provare, pena altrimenti il rigetto della domanda. È questo invece l’uso che sembra pr

 

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