Legge e giustizia
Carmela M. è stata licenziata nel
marzo del 2002, insieme a numerosi suoi colleghi, dalla
curatela del Fallimento della s.p.a. San Giuseppe per
totale cessazione dell'attività aziendale. Ella ha
chiesto al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di
dichiarare inefficace il licenziamento per mancata
osservanza della procedura prevista dalla legge n.
223/91 per licenziamenti per riduzione di personale. La
Curatela si è difesa, nella memoria di costituzione in
giudizio, sostenendo l'inapplicabilità di tale legge.
Successivamente, nelle note conclusive, la Curatela ha
eccepito la decadenza della lavoratrice del diritto di
agire contro il licenziamento in quanto la medesima non
aveva rispettato il termine, previsto dall'art. 6 della
legge n. 604/66 per l'impugnazione, mediante atto
stragiudiziale, del recesso. Il Tribunale, con sentenza
dell'aprile 2007, ha rilevato la tardività della
eccezione di decadenza in quanto non proposta nella
memoria di costituzione e, ritenendo applicabile la
legge n. 223/91, ha dichiarato l'inefficacia del
licenziamento. Questa decisione è stata confermata dalla
Corte d'Appello di Napoli con sentenza dell'aprile 2008.
La Curatela ha proposto ricorso per cassazione
censurando la decisione della Corte napoletana per vizi
di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (sentenza n. 23665
dell'11 novembre 2011, Pres. Vidiri, Rel. Stile) ha
rigettato il ricorso. Per quanto attiene all'eccezione
di decadenza la Corte ha rilevato che i giudici di
merito ne hanno correttamente dichiarato la tardività;
trattandosi, infatti, di eccezione in senso stretto, non
rilevabile, quindi, d'ufficio, doveva essere proposta, a
pena decadenza, ex art. 416 co. 3, c.p.c., nella memoria
difensiva depositata almeno dieci giorni prima della
udienza; pertanto, esattamente il Fallimento San
Giuseppe è stato dichiarato decaduto dal potere di
proporre siffatta eccezione. Né rileva - ha osservato la
Corte - che agli atti vi sarebbe la prova della
impugnazione del licenziamento oltre il sessantesimo
giorno, poiché la preclusione per il giudice di rilevare
di ufficio tale circostanza rende inconsistente
l'osservazione. A norma dell'art. 2969 c.c. - ha
ricordato la Corte - "La decadenza non può essere
rilevata d'ufficio dal giudice, salvo che, trattandosi
di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il
giudice debba rilevare le cause d'improponibilità
dell'azione"; i diritti indisponibili, in relazione ai
quali l'art. 2969 c.c. richiede l'intervento d'ufficio
del giudice, in eccezione al principio della domanda
(art. 112 c.p.c.), per il rilievo dell'improponibilità
dell'azione relativa per decadenza, sono quelli
inderogabili in modo assoluto (diritti della
personalità, diritti di famiglia) in ordine ai quali
l'interesse all'immodificabilità delle situazioni
relative consolidatesi per effetto della decadenza è di
preminente interesse per l'ordinamento giuridico. Perciò
- ha affermato la Corte - l'eccezione non può riguardare
diritti parzialmente inderogabili tali in un determinato
momento del loro sorgere o per un certo tempo della loro
vita, ma non oltre tali momenti, per cui il rilievo del
mancato esercizio della facoltà d'impugnazione relativa
è affidata all'iniziativa della parte interessata, nella
specie, la decadenza dell'impugnazione del licenziamento
del lavoratore ex art. 6 legge n. 604/66 è palesemente
legata adeguatamente all'interesse generalizzato dello
Stato alla stabilizzazione dei rapporti pendenti entro
un certo tempo (ratio della prescrizione e della
decadenza) e non all'ulteriore speciale interesse, in
ragione della specifica natura del diritto, all'immodificabilità
della situazione giuridica protetta dalla decadenza.
Per quanto concerne la normativa
applicabile, la Suprema Corte, richiamata la
giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di
licenziamento collettivo, ha confermato il suo
orientamento secondo cui in tema di licenziamenti
collettivi, la disciplina prevista dalla legge 23 luglio
1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria
anche nell'ipotesi in cui, nell'ambito di una procedura
concorsuale, risulti impossibile la continuazione
dell'attività aziendale e, nelle condizioni
normativamente previste, si intenda procedere ai
licenziamenti. Né, ai fini di cui trattasi può non
venire in considerazione che dopo il fallimento,
l'azienda, nella sua unitarietà sopravvive, e, nel suo
ambito, anche il rapporto di lavoro (art. 2119 c.c.);
sopravvivenza che, non condizionata al materiale
esercizio dell'attività imprenditoriale, sussiste anche
nell'ipotesi in cui, a seguito della cessazione
dell'attività aziendale, sia (pur contingentemente)
impossibile la materiale reintegrazione nel posto di
lavoro. Questa perdurante vigenza del rapporto, pur in
uno stato di quiescenza - ha confermato la Corte -
rende ipotizzabile la futura ripresa dell'attività
lavorativa, per iniziativa del curatore o con successivo
provvedimento del tribunale fallimentare (il quale per
l'art. 90 della legge fallimentare può autorizzare
l'esercizio provvisorio anche dopo il decreto di
esecutività dello stato passivo) o con la cessione
dell'azienda o con la ripresa dell'attività lavorativa
da parte dello stesso datore a seguito di concordato. |