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LA DECADENZA DAL DIRITTO DI IMPUGNARE IL LICENZIAMENTO PER INOSSERVANZA DEL TERMINE DI 60 GIORNI DEVE ESSERE ECCEPITA DAL CONVENUTO NELLA MEMORIA DIFENSIVA - La questione non può essere sollevata in un momento successivo, anche se vi sia la prova della tardività (Cassazione Sezione Lavoro n. 23665 dell'11 novembre 2011, Pres. Vidiri, Rel. Stile).

 

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Legge e giustizia

Carmela M. è stata licenziata nel marzo del 2002, insieme a numerosi suoi colleghi, dalla curatela del Fallimento della s.p.a. San Giuseppe per totale cessazione dell'attività aziendale. Ella ha chiesto al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di dichiarare inefficace il licenziamento per mancata osservanza della procedura prevista dalla legge n. 223/91 per licenziamenti per riduzione di personale. La Curatela si è difesa, nella memoria di costituzione in giudizio, sostenendo l'inapplicabilità di tale legge. Successivamente, nelle note conclusive, la Curatela ha eccepito la decadenza della lavoratrice del diritto di agire contro il licenziamento in quanto la medesima non aveva rispettato il termine, previsto dall'art. 6 della legge n. 604/66 per l'impugnazione, mediante atto stragiudiziale, del recesso. Il Tribunale, con sentenza dell'aprile 2007, ha rilevato la tardività della eccezione di decadenza in quanto non proposta nella memoria di costituzione e, ritenendo applicabile la legge n. 223/91, ha dichiarato l'inefficacia del licenziamento. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli con sentenza dell'aprile 2008. La Curatela ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte napoletana per vizi di motivazione e violazione di legge.

 

La Suprema Corte (sentenza n. 23665 dell'11 novembre 2011, Pres. Vidiri, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso. Per quanto attiene all'eccezione di decadenza la Corte ha rilevato che i giudici di merito ne hanno correttamente dichiarato la tardività; trattandosi, infatti, di eccezione in senso stretto, non rilevabile, quindi, d'ufficio, doveva essere proposta, a pena decadenza, ex art. 416 co. 3, c.p.c., nella memoria difensiva depositata almeno dieci giorni prima della udienza; pertanto, esattamente il Fallimento San Giuseppe è stato dichiarato decaduto dal potere di proporre siffatta eccezione. Né rileva - ha osservato la Corte - che agli atti vi sarebbe la prova della impugnazione del licenziamento oltre il sessantesimo giorno, poiché la preclusione per il giudice di rilevare di ufficio tale circostanza rende inconsistente l'osservazione. A norma dell'art. 2969 c.c. - ha ricordato la Corte - "La decadenza non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d'improponibilità dell'azione"; i diritti indisponibili, in relazione ai quali l'art. 2969 c.c. richiede l'intervento d'ufficio del giudice, in eccezione al principio della domanda (art. 112 c.p.c.), per il rilievo dell'improponibilità dell'azione relativa per decadenza, sono quelli inderogabili in modo assoluto (diritti della personalità, diritti di famiglia) in ordine ai quali l'interesse all'immodificabilità delle situazioni relative consolidatesi per effetto della decadenza è di preminente interesse per l'ordinamento giuridico. Perciò - ha affermato la Corte - l'eccezione non può riguardare diritti parzialmente inderogabili tali in un determinato momento del loro sorgere o per un certo tempo della loro vita, ma non oltre tali momenti, per cui il rilievo del mancato esercizio della facoltà d'impugnazione relativa è affidata all'iniziativa della parte interessata, nella specie, la decadenza dell'impugnazione del licenziamento del lavoratore ex art. 6 legge n. 604/66 è palesemente legata adeguatamente all'interesse generalizzato dello Stato alla stabilizzazione dei rapporti pendenti entro un certo tempo (ratio della prescrizione e della decadenza) e non all'ulteriore speciale interesse, in ragione della specifica natura del diritto, all'immodificabilità della situazione giuridica protetta dalla decadenza.

 

Per quanto concerne la normativa applicabile, la Suprema Corte, richiamata la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di licenziamento collettivo, ha confermato il suo orientamento secondo cui in tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell'ipotesi in cui, nell'ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell'attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti. Né, ai fini di cui trattasi può non venire in considerazione che dopo il fallimento, l'azienda, nella sua unitarietà sopravvive, e, nel suo ambito, anche il rapporto di lavoro (art. 2119 c.c.); sopravvivenza che, non condizionata al materiale esercizio dell'attività imprenditoriale, sussiste anche nell'ipotesi in cui, a seguito della cessazione dell'attività aziendale, sia (pur contingentemente) impossibile la materiale reintegrazione nel posto di lavoro. Questa perdurante vigenza del rapporto, pur in uno stato di quiescenza - ha confermato la Corte -  rende ipotizzabile la futura ripresa dell'attività lavorativa, per iniziativa del curatore o con successivo provvedimento del tribunale  fallimentare (il quale per l'art. 90 della legge fallimentare può autorizzare l'esercizio provvisorio anche dopo il decreto di esecutività dello stato passivo) o con la cessione dell'azienda o con la ripresa dell'attività lavorativa da parte dello stesso datore a seguito di concordato.

 

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