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La mera valutazione del valore
oggettivo delle quote, pur se finalizzata alla
successiva stipula del contratto, non si può logicamente
identificare con la pattuizione del prezzo
Cassazione, sez. II, 23 novembre
2011 n. 24724
(Pres. Goldoni – Rel. Migliucci)
Svolgimento del processo
Gi.Si. esponeva di essere titolare
del 34% delle quote della E. s.r.l. e che A.P. con
scrittura privata del 6 marzo 1995 aveva promesso di
cedergli il 34% delle quote di sua proprietà
attribuendole il valore di lire 93.000.000; di avere
versato al P. acconti per un totale di lire 50 milioni.
Tanto premesso, l'attore precisando
che, nonostante i solleciti, alla scrittura non era
seguita alcuna cessione della quota, chiedeva
l'esecuzione in forma specifica del contratto
preliminare con il trasferimento della quota, con
corrispondente annotazione nel libro soci, offrendo di
corrispondere il residuo ammontare di lire 43.000.000.
Il convenuto, costituitosi in
giudizio, contestava la ammissibilità e fondatezza della
domanda sul rilievo che la scrittura non poteva
assurgere al rango di preliminare perché semmai
propedeutica alla stipula di altri atti relativi alla
cessione della quota; il valore della quota non poteva
determinarsi in base alla scrittura del 6-3-1995 perché
la stessa non teneva conto dei crediti personali vantati
da esso convenuto, pari a lire 528.293.773 di cui in via
riconvenzionale chiedeva il pagamento.
Con sentenza del 5 gennaio 2000 il
Tribunale di Palermo rigettava la domanda proposta
dall'attore e dichiarava inammissibile quella
riconvenzionale.
Con sentenza dep. il 22 novembre
2004 la Corte di appello di Palermo rigettava
l'impugnazione proposta dall'attore.
Secondo i Giudici la documentazione
in atti non consentiva di ritenere l'esistenza del
contratto preliminare avente ad oggetto la promessa di
cessione delle quote societarie invocato dall'attore.
Ed invero, dalle scritture del 29
gennaio e del 26 febbraio 1995 si evinceva che il S.
aveva versato acconti per la cessione delle quote e che
con quella del 6 marzo 1995 vi era stata esclusivamente
la valutazione delle quote di partecipazione del P.: non
era stato consacrato l'obbligo di prestare il consenso
alla stipula del definitivo; le prime due scritture non
determinavano il prezzo ma doveva ritenersi che le parti
posero delle semplici trattative accompagnate dalla
corresponsione di acconti per una maggiore serietà
dell'iniziativa, mentre appariva significativo che le
parti pur avendo proceduto alla valutazione delle quote
con la scrittura del 6 marzo 1995, con essa non ebbero a
obbligarsi alla vendita tenendo conto di quella
valutazione.
Era dichiarata inammissibile,
perché proposta per la prima volta in sede gravame, la
domanda di restituzione delle somme versate esperita ai
sensi dell'art. 2041 cod. civ..
2. Avverso tale decisione
propongono ricorso per cassazione S.G., E.G..S., S.S.,
eredi di Gi.Si., nelle more deceduto, sulla base di tre
motivi.
Non ha svolto attività difensiva
l'intimato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i
ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione
di norme di diritto e omessa,insufficiente e
contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 2932
cod. civ. e 116 cod. proc. civ., censurano la sentenza
impugnata: per travisamento dei termini dell'appello
laddove aveva affermato che il S. avrebbe attribuito il
valore di contratto preliminare alla scrittura del
6-3-1995; per la contraddittorietà della motivazione la
quale, dopo avere ritenuto che nelle scritture non era
indicato il prezzo di cessione, poi aveva affermato che
la valutazione del 6-3-1995 era propedeutica alla futura
vendita e che le parti avevano posto in essere semplici
trattative. Non si comprendeva il processo logico
seguito dal Giudice laddove non aveva individuato nel
pagamento dei due acconti la conclusione del negozio che
era presupposta anche tenuto conto della valutazione del
6-3-1995; l'art. 2932 cod. civ. fa riferimento a tutte
le ipotesi in cui sorge l'obbligazione di prestare il
consenso e trova applicazione non soltanto in presenza
di un contratto preliminare, atteso che l'obbligazione
di trasferire le quote e al prezzo della loro
valutazione non risultava contestata.
1.1. Il motivo va disatteso.
In primo luogo va considerato che
il motivo, laddove fa riferimento al travisamento dei
motivi di appello, difetta di autosufficienza in quanto
non trascrive il testo integrale dell'atto di appello:
la doglianza sotto il profilo in esame si risolve nella
censura dell'interpretazione dell'atto di appello,
dovendo qui ricordarsi che l'interpretazione della
domanda ha oggetto un accertamento di fatto riservato al
giudice di merito che, come tale, è incensurabile in
sede di legittimità se non per violazione dei criteri
ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. o per
vizi di motivazione che sotto il profilo in esame non
sono stati dedotti specificamente.
Il vizio di motivazione, così come
denunciato, è insussistente, avendo la sentenza
accertato che le scritture prodotte a fondamento della
domanda di esecuzione specifica non contenevano la
consacrazione di alcuna volontà negoziale diretta alla
conclusione del contratto definitivo né la
determinazione del prezzo pattuito: d'altra parte, la
mera valutazione del valore oggettivo delle quote, pur
se finalizzata alla successiva stipula del contratto,
non si poteva logicamente identificare con la
pattuizione del prezzo, la cui definizione era
evidentemente subordinata alla regolamentazione dei
rapporti di dare-avere fra i soci.
L'inesistenza di alcuna
obbligazione sorta a carico del convenuto escludeva i
presupposti voluti dall'art. 2932 cod. civ..
In realtà, il motivo si risolve
nella censura dell'interpretazione delle scritture in
questione che i Giudici hanno compiuto nell'ambito degli
accertamenti di fatto ai medesimi riservati e che sono
sottratti al sindacato di legittimità, formulando i
ricorrenti una soggettiva ricostruzione della volontà
che le parti avrebbero posto in essere.
2.1. Con il secondo motivo i
ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione
di norme di diritto nonché omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 2041
e 2042 cod. civ. e 345 cod. proc. civ., censurano la
sentenza che erroneamente aveva dichiarato inammissibile
la domanda di pagamento, a titolo di indebito
arricchimento, della somma di lire 50.000.000,della
quale era stata chiesta la restituzione con interessi e
danni secondo quanto previsto dall'art. 345 citato.
2.2. Il motivo va disatteso.
La domanda di indebito
arricchimento è proponibile in sede di gravame quando
sia fondata sulle medesime circostanze di fatto sulle
quali era basata l'originaria domanda proposta in prime
cure, venendo in tal caso a mutare soltanto la
qualificazione giuridica della pretesa: nella specie, la
domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio
era di esecuzione ex art. 2932 cod. civ. con offerta del
prezzo ancora dovuto secondo quanto previsto da tale
norma, per cui si basava su presupposti fattuali non
solo diversi ma addirittura inconciliabili con la
pretesa di ripetizione delle somme versate in acconto
del prezzo dovuto.
D'altra parte, i ricorrenti non
hanno proposto con l'atto di citazione domanda
subordinata di restituzione delle somme versate:
l'espressione al riguardo usata, "salva ogni azione di
indebito arricchimento occorrendo" sta piuttosto ad
indicare che l'eventuale domanda era riservata ad altro
giudizio.
Infine, i danni e gli interessi
maturati dopo la sentenza di primo grado che possono
chiedersi in appello presuppongono che tali danni siano
stati oggetto della pretesa azionata in prime cure.
3.1. Il terzo motivo censura la
sentenza laddove aveva posto a loro carico le spese del
doppio grado.
Il motivo va disatteso.
Correttamente la sentenza ha posto
a carico di coloro che sono risultati soccombenti le
spese del doppio grado di giudizio.
Il ricorso va rigettato.
Non va adottata alcuna statuizione
in ordine alla regolamentazione delle spese relative
alla presente fase,non avendo l'intimato svolto attività
difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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