Diritto e processo.com
1. L'art. 316 bis c.p., introdotto
dall'art. 3 della legge 26.4.1990 n. 86, ha lo scopo di
reprimere le frodi successive al conseguimento di
prestazioni pubbliche, attuate non destinando alle
finalità per le quali sono stati erogata i fondi
ottenuti. La configurabilità di tale reato non postula
che i fondi siano stati conseguiti con artifici o
raggiri, essendo ipotizzabile una situazione nella quale
il richiedente espone e documenta correttamente una
situazione meritevole di contributi, versando poi in
illecito solo in un momento successivo, quando, ottenuto
il finanziamento, lo destina a scopi diversi da quelli
in vista del quale era stato erogato.
2. La truffa aggravata,
disciplinata dall'art. 640 bis c.p., presenta invece
come elemento costitutivo necessario la frode, per mezzo
della quale l'erogazione pubblica viene ottenuta.
3. Rispetto al contributo concesso
dall'ente pubblico possono così configurarsi due
comportamenti illeciti differenti, puniti da norme
diverse: quello di chi artificiosamente simuli una
situazione che induca l'ente a corrispondere fondi, che
altrimenti non sarebbero erogati, in vista di un fine
poi effettivamente perseguito e quello di colui che,
conseguite senza artifizi le pubbliche erogazioni
concesse in vista di un fine prestabilito, destini i
fondi ad uno scopo diverso.
4. La circostanza che i due
comportamenti possano sommarsi, nel senso che
artificiosamente, allegando una situazione non
rispondente al reale, in relazione ad un fine
dichiarato, si ottengano pubblici contributi in concreto
destinati ad uno scopo diverso e già programmato non
elude la possibilità di concorso tra i due reati.
5. Non si verte su di una stessa
materia regolata da una pluralità di disposizioni
penali, per la quale possa valere il criterio di
specialità dettato dall'art. 15 del codice penale. La
concomitanza dei due comportamenti, l'uno preso in
considerazione dalla truffa, antecedente al
conseguimento dei fondi pubblici, l'altro, quello punito
dall'art. 316 bis c.p., a tale momento successivo, è
solo eventuale, e non vale a caratterizzare la prima o
la seconda delle due ipotesi delittuose come speciale
rispetto all'altra. La inapplicabilità del criterio di
specialità alle due norme emerge anche in considerazione
della non identità degli interessi protetti. Gli artt.
640 e 640 bis c.p. tutelano il patrimonio da atti di
frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni
pubbliche; l'art. 316 bis c.p. tutela la pubblica
amministrazione da atti contrari agli interessi della
collettività, anche di natura non patrimoniale.
Cassazione, sez. II, 24 novembre
2011, n. 43349
(Pres. Carmenini – Rel. Verga)
Motivi della decisione
Con ordinanza in data 10.3.2011 il
Tribunale del Riesame di Catanzaro confermava
l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in
data 24.2.2011 dal GIP del Tribunale di Crotone nei
confronti di B.A. , indagato dei reati di cui agli artt.
110 c.p. 216 e 223 co. 1 L.F. (capo a), artt. 110, 483,
48, 476, 479 e 640 bis c.p. (capo b), art. 316 bis c.p.
(capo e), artt. 110, 648bis e 648 ter c.p. (capo g),
art. 416 c.p. (capo h).
Con riguardo al capo a) riteneva il
Tribunale sussistente a carico del B. , nella sua
qualità di amministratore della società E. Industriale,
un grave quadro indiziario, non scalfito dalla
documentazione prodotta dalla difesa, in ordine alla
realizzazione di operazioni fraudolente che avevano
determinato lo stato di insolvenza della predetta
società, tanto da indurre l'Ufficio di Procura a
richiederne il fallimento in data 28.5.2010. Veniva
altresì sottolineato il mancato reperimento delle
scritture contabili.
Con riguardo alla truffa aggravata
per il conseguimento di erogazioni pubbliche contestata
al capo b) riteneva sussistente un grave quadro
indiziario sulla scorta degli atti di indagine confluiti
nella informativa della G.d.F.. Da tale documentazione
emergeva che in data 19.10.2005 A..B. aveva presentato -
in qualità di legale rappresentante della società E.
Industrale (E.I) che controllava la società E. Elettrica
Spa (E.E), autorizzata, in data 18.5.2004, dal Ministero
delle Attività Produttive all'esercizio e alla
realizzazione della Centrale a ciclo combinato di
Scandale ed opere connesse - richiesta di riconoscimento
dello stato di avanzamento dei lavori e di rilascio
della fidejussione prestata a titolo di garanzia. A
sostegno della richiesta aveva presentate fatture per un
importo di Euro 6.470.000,00 relative a forniture poste
in essere dalla società P. SpA di Milano a favore della
E.I. Il 16.10.2006 MELIORBANCA aveva inviato al
Ministero una relazione con cui riteneva ammissibili le
spese rappresentate dalle fatture. Il 23.2.2006 il
Ministero sulla base di detta relazione provvedeva allo
svincolo della fidejussione a suo tempo prestata dalla
E.I. Dagli accertamenti effettuati dalla GdF Nucleo
Polizia Tributaria di Cremona del 15.10.2009 e dalla
informativa di P.G. del 13.8.2010 era emerso che le
fatture emesse dalla P. SpA a favore della E.I. e da
questa utilizzate per ottenere la restituzione della
fideiussione riguardavano operazioni inesistenti.
Circostanza confermata anche dalle dichiarazioni di G.A.
, Presidente del CdA di P. e di V.P. , AD di ER. SpA,
titolare dell'autorizzazione per la realizzazione della
Centrale di Scandale In ordine al reato di malversazione
(capo e), ritenuta la possibilità di concorso formale
con la truffa aggravata, il grave quadro indiziario era
individuato negli elementi di indagine già indicati dai
quali era emerso che E.I. non aveva destinato i
finanziamenti conseguiti dallo Stato e dalla Regione
Calabria alla realizzazione delle opere in progetto.
Con riguardo alla contestazione di
impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita (art. 648 ter c.p. contestato al capo g) il
Tribunale evidenziava che gli esperiti accertamenti
contabili e bancali consentivano di accertare che il B.
aveva impiegato le somme provenienti dai delitti di
malversazione e bancarotta fraudolenta di cui ai capi e)
ed f) in attività finanziarie.
Veniva ritenuto sussistente un
grave quadro indiziario anche con riguardo al contestato
reato di associazione per delinquere realizzato
attraverso società allo stesso riferibili che erano
state piegate alla realizzazione degli illeciti in
esame, come riscontrato da conversazioni intercettate
dalle quali era emerso lo stretto rapporto fiduciario
fra l'indagato, BA.Ro. e C.G. che lo coadiuvavano nella
sistematica strumentalizzazione delle società a lui
riconducibili allo scopo di raccogliere fondi pubblici
in mancanza delle condizioni normativamente previste.
Ricorre per Cassazione il difensore
dell'indagato deducendo che l'ordinanza impugnata è
incorsa in mancanza e/o manifesta illogicità della
motivazione risultante dal testo. Travisamento della
prova con riguardo alle dichiarazioni di G.A. e V.P. .
Contesta la valutazione degli elementi indiziali operata
dai giudici merito con riguardo al reato di bancarotta
fraudolenta e di malversazione. Lamenta l'insussistenza
del reato di falso con riguardo al provvedimento di
svincolo e del reato di cui all'art. 648 ter c.p.
essendo contestato al B. il concorso nel reato
presupposto. Si duole della non corretta ricezione delle
dichiarazioni di G. e V. che allega al ricorso. Lamenta
l'insussistenza di elementi di fatto attestanti la
sussistenza del vincolo associativo.
In data 10.10.2011 il ricorrente
depositava copia della decisione assunta dalla Sezione
Fallimentare del Tribunale di Crotone in data 29.7.2011
con la quale era stata disposta Consulenza Tecnica
d'Ufficio al fine di accertare la sussistenza delle
condizioni per la fallibilità della Società E.
Industriale S.r.l..
Il ricorso è infondato e deve
essere respinto.
In tema di misure cautelari
personali, allorché sia denunciato, con ricorso per
cassazione, vizio di motivazione del provvedimento
emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla
consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte
suprema spetta il compito di verificare, in relazione
alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai
limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito
abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno
indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a
carico dell'indagato, controllando la congruenza della
motivazione riguardante la valutazione degli elementi
indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi
di diritto che governano l'apprezzamento delle
risultanze probatorie.
Deve aggiungersi che, con riguardo
alle doglianze attinenti alla tenuta argomentativa del
provvedimento, il controllo di legittimità sulla
motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti
né l'apprezzamento del giudice di merito, ma è
circoscritto alla verifica che il testo dell'atto
impugnato risponda a due requisiti che lo rendono
insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni
giuridicamente significative che lo hanno determinato;
b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della
motivazione o di illogicità evidenti, ossia la
congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. Deve aggiungersi che
l'illogicità della motivazione, deve risultare
percepibile ictu oculi, in quanto, come già indicato,
l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo
della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare
l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza
possibilità di verifica della rispondenza della
motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez.
4, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri). Deve inoltre
precisarsi che il vizio della "manifesta illogicità"
della motivazione deve risultare dal testo del
provvedimento impugnato, nel senso che il relativo
apprezzamento va effettuato considerando che l’ordinanza
deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto
agli atti processuali citati.
Va altresì ricordato che, anche
alla luce del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n.
46, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di
procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero
ad una rivalutazione del contenuto delle prove
acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via
esclusiva al giudice del merito. La previsione secondo
cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che
dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri
atti del processo", purché specificamente indicati nei
motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e
i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora
giudice della motivazione, senza essersi trasformato in
un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il
richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche
attraverso gli "atti del processo" rappresenta
null'altro che il riconoscimento normativo della
possibilità di dedurre in sede di legittimità il
cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio
in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una
(inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto
delle prove), prende in esame gli elementi di prova
risultanti dagli atti per verificare se il relativo
contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti,
all'interno della decisione.
Mentre, giova ribadirlo, non spetta
alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui
quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal
giudice di merito, giacché attraverso la verifica del
travisamento della prova il giudice di legittimità può e
deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova
posti a fondamento della decisione esistano o, per
converso, se ne esistano altri inopinatamente e
ingiustamente trascurati o fraintesi. Per intenderci,
non potrebbe esserci spazio per una rinnovata
considerazione della valenza attribuita ad una
determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero
farsi valere la mancata considerazione di altra
deposizione testimoniale di segno opposto esistente in
atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza
ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale
inesistente o presentante un contenuto diametralmente
opposto a quello recepito dal giudicante.
Ponendosi nella richiamata
prospettiva ermeneutica,le doglianze del ricorrente,
contenute nei motivi in cui lamenta il travisamento
della prova con riferimento alle dichiarazioni di G.A. e
V.P. si palesa manifestamente infondata, non
apprezzandosi nella motivazione del provvedimento
impugnato alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta
complessiva.
In ogni caso la doglianza sarebbe
inammissibile anche alla luce di alcuni arresti di
questa Corte (Cass. Sez. 6 10 maggio 2007, Contrada;
Cass. Sez. 4 n. 15556/08), secondo i quali, alla luce
della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n.
46, che consente di dedurre il vizio di motivazione
desumibile dagli "atti del processo" specificamente
indicati, deve per vero rilevarsi che una "fonte
dichiarativa" è per sua stessa definizione scandita da
significanze non univoche, si da doversi escludere che
essa possa in linea di principio integrare gli "altri
atti del processo" cui potrebbe o dovrebbe estendersi in
sede di legittimità lo scrutinio sulla completezza e
logicità della decisione impugnata. Infatti, la
testimonianza, salvi i casi limite in cui l'oggetto
della deposizione sia del tutto definito o attenga alla
proposizione di un dato storico semplice e non opinabile
(ad esempio: il teste dice bianco, il giudice valuta la
deposizione come se avesse detto nero o non avesse detto
nulla), è sempre il frutto di una percezione soggettiva
del dichiarante anche se attiene a fatti di sua diretta
scienza, con la conseguenza che il giudice di merito,
nel valutare i contenuti della deposizione testimoniale,
è sempre chiamato a "depurare", in diversa misura, il
dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal
dichiarante: ossia dalla sua capacità cognitiva, dalla
sua sensibilità percettiva ed emotiva, dal suo stato di
coinvolgimento o meno negli accadimenti che riesuma e
descrive. Per l'effetto, affinché il giudice di
legittimità possa esprimere un eventuale giudizio sulla
completezza, logicità e non contraddittorietà della
motivazione in rapporto all'apprezzamento (di fatto) di
una fonte testimoniale operato o non operato dal
giudicante, diverrebbe necessario che avesse contezza
dell'intero compendio probatorio (tutti gli atti
processuali) raccolti fino al momento della decisione,
sulla base dei quali svolgere l'analisi comparativa
inerente la decisività o non della fonte testimoniale e
della incidenza causale dalla stessa svolta (cioè della
sua lacunosa o preterita considerazione) nel percorso
decisionale del giudice di merito: ciò che è
impraticabile in rapporto alla natura del giudizio di
legittimità.
Nel caso in esame, il Tribunale
argomenta la sussistenza del grave quadro indiziario a
carico dell'imputato con riguardo al reato di bancarotta
fraudolenta facendo puntuale riferimento ad atti di
indagine, compendiati negli accertamenti della Guardia
di Finanza che hanno evidenziato il compimento di
operazioni fraudolente, specificamente indicate,
consistite in fittizi aumenti di capitale sociale,
creazione di un'elevata esposizione debitoria,
eliminazione di poste dall'attivo patrimoniale,
trasferimento di risorse finanziarie all'estero
all'esito delle quali il patrimonio della Società E.I.
srl. registrava perdite ingenti e quantificate in oltre
13 milioni di Euro. Grave quadro indiziario che secondo
il Tribunale non era minimamente scalfito dagli elementi
addotti a suo discarico che venivano specificatamente
analizzati. Così come riteneva sussistente il grave
quadro indiziario con riguardo i delitti di truffa e
falso contestati al capo b) richiamando l'attività
investigativa realizzata dai militari della G.d.F.
suffragata da documentazione, specificamente richiamata,
che aveva consentito di accertare che le fatture emesse
da P. SpA a favore di E.I. s.r.l. e da questa utilizzate
per ottenere la restituzione della fidejussione,
riguardavano fatture per operazioni inesistenti.
A fronte di tale grave quadro
indiziario con riguardo al reato di bancarotta
fraudolenta di nessuna rilevanza appare la decisione del
Tribunale fallimentare di Crotone di disporre consulenza
tecnica d'ufficio al fine di valutare la sussistenza dei
presupposti di fallibilità della E.I. considerato che
l'art. 238 L. Fall., prevede al comma 1 che l'azione
penale, per una delle ipotesi di reato fallimentare
specificamente previste, possa essere esercitata anche
prima della declaratoria di fallimento nel caso previsto
dall'art. 7, ossia in presenza dello stato di insolvenza
desunto dagli indici normativamente previsti, e in ogni
altro caso in cui concorrano gravi motivi e già esista o
sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere
la dichiarazione anzidetto Come affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte la formula "esercizio
dell'azione penale" deve essere letta alla luce del
nuovo codice di rito che ha collocato l'esercizio
dell'azione penale al termine della fase delle indagini
preliminari. Alla stregua della disciplina codicistica,
e segnatamente degli artt. 326 e 405 del codice di rito,
la locuzione deve oggi intendersi nel senso della
possibilità di espletamento di tutte le indagini
necessarie ai fini delle valutazioni e determinazioni
funzionali all'esercizio dell'azione penale. E dal
momento che non sussiste coincidenza tra quest'ultimo
momento e l'adozione di misure cautelari personali, nel
senso che l'emissione di quest'ultime non comporta,
pacificamente, esercizio di azione penale, risulta
evidente che, pur in mancanza di dichiarazione di
fallimento, le stesse esigenze di cautela, sottese alla
previsione dell'anticipato esercizio dell'azione penale,
nel senso dianzi specificato, possano giustificare
l'adozione di misure cautelari personali durante la fase
delle indagini preliminari. (Cass.
sez. 1^, 15/10/1993, n. 4191, rv. 195570; Cass. sez. 5
9.11.2005 n. 43871 Rv. 232731; Cass. sez. 5 19.12.2005
n. 8363 Rv. 233236).
Il Tribunale ha dato conto con
motivazione coerente e priva di vizi logici e giuridici
anche della sussistenza di un grave quadro indiziario
con riguardo alla contestata associazione per
delinquere. È vero che per l'esistenza di una
associazione per delinquere la legge non richiede
l'apposita configurazione di una organizzazione potendo
a fine illecito essere utilizzata una struttura
preesistente e già adibita a finalità lecite, ma è pur
vero che nel caso indicato occorre dimostrare che alcuni
aderenti hanno modificato le originarie regole
statutarie plasmando l'organizzazione alle loro finalità
illecite. Nel caso in esame il Tribunale richiamando il
contenuto di conversazioni intercettate ha dato conto
che l'indagato, coadiuvato da consapevoli fiduciari, ha
utilizzato le società a lui riconducibili per realizzare
il proprio programma delinquenziale.
Con riguardo al contestato delitto
di malversazione il Tribunale ha ritenuto correttamente
la possibilità di concorso fra i reati di "malversazione
in danno dello Stato" e "truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche". La possibilità
di concorso fra le due fattispecie è, infatti,
riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di questa
Corte (si vedano, infatti: Sez. 6, Sentenza n. 4313 del
02/12/2003 Cass. 1^, sent. 4663 del 7/11/98, Saccani e
altro, rv. 211494; Cass. 6^, sent. 3362 del 15/12/92,
Scotti, rv. 193155) alla quale questo Collegio aderisce,
richiamando le seguenti considerazioni.
L'art. 316 bis c.p., introdotto
dall'art. 3 della legge 26.4.1990 n. 86, ha lo scopo di
reprimere le frodi successive al conseguimento di
prestazioni pubbliche, attuate non destinando alle
finalità per le quali sono stati erogata i fondi
ottenuti. La configurabilità di tale reato non postula
che i fondi siano stati conseguiti con artifici o
raggiri, essendo ipotizzabile una situazione nella quale
il richiedente espone e documenta correttamente una
situazione meritevole di contributi, versando poi in
illecito solo in un momento successivo, quando, ottenuto
il finanziamento, lo destina a scopi diversi da quelli
in vista del quale era stato erogato.
La truffa aggravata, disciplinata
dall'art. 640 bis c.p., presenta invece come elemento
costitutivo necessario la frode, per mezzo della quale
l'erogazione pubblica viene ottenuta.
Rispetto al contributo concesso
dall'ente pubblico possono così configurarsi due
comportamenti illeciti differenti, puniti da norme
diverse: quello di chi artificiosamente simuli una
situazione che induca l'ente a corrispondere fondi, che
altrimenti non sarebbero erogati, in vista di un fine
poi effettivamente perseguito e quello di colui che,
conseguite senza artifizi le pubbliche erogazioni
concesse in vista di un fine prestabilito, destini i
fondi ad uno scopo diverso.
La circostanza che i due
comportamenti possano sommarsi, nel senso che
artificiosamente, allegando una situazione non
rispondente al reale, in relazione ad un fine
dichiarato, si ottengano pubblici contributi in concreto
destinati ad uno scopo diverso e già programmato, come
contestato nel caso in esame, non elude la possibilità
di concorso tra i due reati. Non si verte infatti su di
una stessa materia regolata da una pluralità di
disposizioni penali, per la quale possa valere il
criterio di specialità dettato dall'art. 15 del codice
penale. La concomitanza dei due comportamenti, l'uno
preso in considerazione dalla truffa, antecedente al
conseguimento dei fondi pubblici, l'altro, quello punito
dall'art. 316 bis c.p., a tale momento successivo, è
solo eventuale, e non vale a caratterizzare la prima o
la seconda delle due ipotesi delittuose come speciale
rispetto all'altra. La inapplicabilità del criterio di
specialità alle due norme emerge anche in considerazione
della non identità degli interessi protetti. Gli artt.
640 e 640 bis c.p. tutelano il patrimonio da atti di
frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni
pubbliche; l'art. 316 bis c.p. tutela la pubblica
amministrazione da atti contrari agli interessi della
collettività, anche di natura non patrimoniale.
Nel caso di specie la differenza
tra i due reati, e la possibilità di concorso tra essi,
risulta chiaro da quanto evidenziato dai giudici del
Riesame che hanno sottolineato come dagli elementi
indiziali a carico del B. (in particolare accertamenti
della G.d.F. di Cremona in data 15.10.2009,
dichiarazioni rese da G.A. e V.P. , consulenza tecnica
Dott. L. ), emergeva che E. Industriale S.r.l. non
destinava i finanziamenti conseguiti dallo Stato e dalla
Regione Calabria alla realizzazione delle opere in
progetto. In particolare dagli esiti degli accertamenti
bancari, ricostruiti nella consulenza tecnica del Dott.
L. era stato acclarato che all'indomani dell'accredito
delle quote di finanziamento le corrispondenti somme
venivano destinate, in parte, a ripianare i debiti
assunti nei confronti delle banche e per il resto
confluivano in un'indicata società di diritto
lussemburghese la SFC dalla quale, poi, pervenivano a
conti correnti direttamente intestati al B. .
A fronte di tale corretta, motivata
e coerente decisione il ricorrente chiede una rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento
dell'ordinanza e l'adozione di nuovi e diversi parametri
di ricostruzione e valutazione rispetto a quelli
adottati dal giudice del merito perché ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa. Un tale modo di procedere è però
inammissibile perché trasformerebbe la Corte
nell'ennesimo giudice del fatto.
Deve aggiungersi che in tema di
misure cautelari personali, la valutazione del peso
probatorio degli indizi è compito riservato al giudice
di merito e, in sede di legittimità, tale valutazione
può essere contestata unicamente sotto il profilo della
sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della
motivazione, mentre sono inammissibili, viceversa, le
censure, che, come quelle in esame, pur investendo
formalmente la motivazione, si risolvono nella
prospettazione di una diversa valutazione delle
circostanze già esaminate da detto decidente.
Infondata è anche la censura in
ordine all'insussistenza del reato di cui all'art. 648
ter c.p..
per essere contestato al B. il
concorso nel reato presupposto considerato che i reati
presupposti, così come indicato nel provvedimento
impugnato, sono quelli indicati ai capi e) ed f) che non
risultano contestati al ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere
respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si
provveda a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p.. |