Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 24/5/02
C.A. si rivolse al giudice del lavoro del Tribunale di
Lecce dolendosi del fatto che la società D'Arpe
Medicinali s.a.s., di cui era stato dipendente in
qualità di impiegato dal 25/11/71 al 14/1/01, gli aveva
unilateralmente ridotto l'orario di lavoro a decorrere
dal 1999, senza il suo consenso, per cui, dedotta la
violazione della L. 19 dicembre 1984, n. 863, art. 5,
comma 10, chiese la condanna della convenuta al
pagamento delle ore prestate in meno rispetto a quelle
previste contrattualmente, determinando l'ammontare
complessivo in Euro 7.793,12, oltre accessori di legge.
Con sentenza del 30/9/05 il giudice adito rigettò la
domanda sulla base della considerazione che nel corso
del libero interrogatorio il ricorrente aveva
riconosciuto che la riduzione dell'orario di lavoro era
stata accettata dai dipendenti attraverso la
sottoscrizione dell'accordo del 20/11/1990.
A seguito di impugnazione di tale
sentenza la Corte d'appello di Lecce ha accolto
l'appello ed ha condannato la società convenuta al
pagamento in favore del C. della somma di Euro 7793,12,
oltre accessori di legge, e alle spese del doppio grado
di giudizio.
La Corte salentina ha spiegato che
la riduzione dell'orario di lavoro di cui si
discuteva era quella oggetto della
disposizione datoriale del mese di agosto del 1999 e non
poteva trovare il proprio fondamento nel precedente
accordo scritto risalente al 20/1/1990;
inoltre, la mancanza della forma
scritta, richiesta ad substantiam per la riduzione
consensuale del rapporto di lavoro da tempo pieno a
tempo parziale L. n. 863 del 1984, ex art. 5, comma 10,
comportava la nullità della clausola contenente la
suddetta riduzione oraria di lavoro, con conseguente
conversione del contratto a tempo parziale in rapporto a
tempo pieno e con correlato diritto del lavoratore a
vedersi retribuite le ore lavorative non prestate per
determinazione unilaterale della parte datoriale.
Per la cassazione della sentenza
propone ricorso la società D'Arpe Medicinali del Dott.
ing. Giuseppe Magno & C. s.a.s. che affida
l'impugnazione a quattro motivi di censura.
Resiste con controricorso il C.,
mentre sono rimasti solo intimati G.C., M.M.G. e M.G.
nella loro qualità di eredi del socio accomandatario
della società ricorrente, vale a dire dell'ing. Ma.Gi..
La ricorrente deposita, altresì,
memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la società
ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione
degli artt. 101, 102, 111 e 331c.p.c., e degli artt.
2313, 2315, 2318 e 2324 c.c., in relazione all'art. 360
c.p.c., n. 3, nonchè la nullità della sentenza e del
procedimento in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4,
adducendo che male avrebbe fatto la Corte d'appello a
respingerle l'eccezione del difetto di contraddittorio
per mancata estensione dello stesso agli eredi del socio
accomandatario Ma.Gi..
Si richiede, quindi, di accertare
se, una volta in cui sia interrotto il giudizio per
morte del socio accomandatario ed una volta in cui lo
stesso sia stato riassunto sia nei confronti della
società che degli eredi del socio accomandatario, non si
sia instaurato un litisconsorzio necessario, sostanziale
o processuale, con la conseguente necessità di
notificare l'atto di impugnazione della sentenza a tutte
le parti del processo di primo grado, pena la nullità
del giudizio e della sentenza.
Il motivo è infondato.
Invero, l'omessa citazione in
appello degli eredi del socio accomandatario non può
ritenersi costituire nella fattispecie una causa di
nullità della sentenza, dal momento che non ricorre
un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra la società e
gli eredi del socio accomandatario; in effetti, questi
ultimi hanno solo diritto alla liquidazione della quota,
salvo diverso accordo con gli altri
soci, non comportando la morte del
socio accomandatario lo scioglimento o l'estinzione
della società, ma soltanto la trasmissione o la
liquidazione della quota, quale conseguenza dello
scioglimento del rapporto tra il singolo socio e la
società, mentre sono i soci accomandanti a subentrare
"de iure" nelle posizioni dei loro rispettivi danti
causa ex art. 2322 c.c..
Si è, infatti, statuito (Cass. sez.
1, n. 21803 dell'11/10/2006) che "nella società in
accomandita semplice, soltanto la quota di
partecipazione del socio accomandante è trasmissibile
per causa di morte, ai sensi dell'art. 2322 c.c., mentre
in caso di morte del socio accomandatario trova
applicazione l'art. 2284 c.c., in virtù del quale gli
eredi non subentrano nella posizione del defunto
nell'ambito della società, e non assumono quindi la
qualità di soci accomandatari a titolo di successione
"mortis causa", ma hanno diritto soltanto alla
liquidazione della quota del loro dante causa, salvo
diverso accordo con gli altri soci in ordine alla
continuazione della società, e fermo restando che in tal
caso l'acquisto della qualifica di socio accomandatario
non deriva dalla posizione di erede del socio
accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto
accordo".
Nè può condividersi l'assunto in
ordine alla pretesa sussistenza diun litisconsorzio
processuale atto a giustificare l'integrazione del
contraddittorio, atteso che, come esattamente
evidenziato dalla Corte territoriale, in primo grado fu
convenuta in giudizio solo la società. In sostanza la
riassunzione operata nei confronti degli eredi del socio
accomandatario dopo la morte di quest'ultimo poteva
avere solo il valore di "litis denuntiatio". 2. Col
secondo motivo è dedotta la violazione e falsa
applicazione del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5,
comma 2, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863,
dell'art. 2697 c.c., e dell'art. 116 c.p.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, oltre che l'omessa
motivazione su un punto controverso e decisivo per il
giudizio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
Si sostiene che, contrariamente a
quanto ritenuto dalla Corte d'appello, dalle
dichiarazioni rese dal C. in sede di libero
interrogatorio e dai documenti versati in atti
emergerebbe che la riduzione dell'orario di lavoro era
stata concordata ed accettata dai lavoratori
dell'azienda. A conclusione del motivo è posto il
quesito di diritto col quale si chiede di accertare se
le risposte date dalle parti in sede di libero
interrogatorio ex art. 420 c.p.c., possano costituire
l'unica fonte di convincimento del giudicante.
Il motivo
è infondato per le seguenti
ragioni: la circostanza per la quale le risposte fornite
da una parte nel corso del libero interrogatorio possano
in astratto rappresentare l'unica fonte di convincimento
del giudicante, fermo restando che le dichiarazioni rese
nel corso del libero interrogatorio non hanno un valore
confessorio, è inconferente, in quanto non vale ad
escludere che il medesimo giudicante possa, come di
fatto verificatosi nel caso in esame, fondare la propria
convinzione, laddove adeguatamente motivata, sulla
preponderanza di altri elementi egualmente degni di
rilievo sul piano processuale. Ebbene, nel caso in esame
la Corte di merito ha fondato il proprio convincimento
sul fatto, ben evidenziato con argomentazione
adeguatamente motivata ed immune da vizi di carattere
logico-giuridico, che l'oggetto del contendere non aveva
attinenza con l'accordo del 1990 richiamato nel libero
interrogatorio del lavoratore, in quanto la doglianza
riguardava, invece, la questione della validità della
riduzione dell'orario di lavoro disposta dall'azienda
nel mese di agosto del 1999, decisione imprenditoriale,
questa, che non poteva ritenersi sorretta dal consenso
prestato dai lavoratori in occasione dell'accordo
sottoscritto nove anni prima. D'altra parte, la Corte di
merito ha evidenziato che, anche se nel 1999 vi fosse
stato un accordo verbale sulla riduzione dell'orario
diavoro, questo non avrebbe potuto avere alcuna
validità, posto che la L. n. 863 del 1984, art. 5, comma
10, prescrive la forma scritta come requisito "ad
substantiam" per la riduzione consensuale di un rapporto
di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
In effetti, il D.L. 30 ottobre
1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella L. 19
dicembre 1984, n. 863, all'art. 5, comma 10, prevede che
la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno
in rapporto di lavoro a tempo parziale è ammessa solo su
accordo delle parti, risultante da atto scritto,
convalidato dall'Ufficio Provinciale del Lavoro e
sentito il lavoratore interessato.
3. Col terzo motivo di doglianza
sono denunziati i seguenti vizi della sentenza: -
Violazione e falsa applicazione del D.L. 30 ottobre
1984, n. 726, art. 5, commi 2 e 10, convertito in L. 19
dicembre 1984, n. 863, dell'art. 2094 c.c., dell'art.
1207 c.c., comma 2, dell'art. 2126 c.c., e dell'art.
2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 -
Violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art.
360 c.p.c., n. 3. - Omessa o insufficiente motivazione
su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in
relazione all'art. 360 c.p.c., n.
5.
Nel denunziare le suddette
violazioni la ricorrente parte dal presupposto che, pur
ammettendosi la mancanza di un accordo scritto sulla
riduzione dell'orario di lavoro, incombeva sul
lavoratore l'onere di dimostrare di aver messo a
disposizione le proprie energie lavorative in favore
della parte datoriale per il tempo restante, in quanto
solo attraverso un formale atto di messa in mora poteva
giustificarsi, in un rapporto governato dai principi
della effettività e corrispettività delle prestazioni,
la pretesa risarcitoria per le retribuzioni non
percepite per le ore lavorative effettivamente non
prestate, pena un indebito arricchimento del lavoratore.
Il motivo è infondato.
In realtà, la tesi sopra esposta
sulle regole del riparto dell'onere probatorio e sulla
ritenuta necessità della messa in mora della parte
datoriale per il soddisfacimento delle pretese
creditizie avanzate dal lavoratore, tesi sostenuta
dall'odierna ricorrente nell'intento di giustificare
l'esonero dal pagamento delle ore lavorative non
espletate per effetto della riduzione dell'orario di
lavoro, non coglie nel segno: la ragione di tale
infondatezza risiede nel fatto che, nel caso in esame,
la Corte di merito ha compiutamente accertato che la
riduzione dell'orario di lavoro era stata disposta
unilateralmente dalla stessa parte datoriale senza il
consenso del lavoratore, per cuinon poteva ricadere su
quest'ultimo l'onere di dimostrare di aver inutilmente
messo a disposizione le proprie energie lavorative al
fine di reclamare il pagamento delle restanti ore
lavorative, il cui svolgimento non gli era stato
consentito dalla controparte.
4. Con l'ultimo motivo è lamentata
la violazione e falsa applicazione dell'art. 2126 c.c.,
comma 1, del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, commi
2 e 10, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l'omessa o
insufficiente motivazione su un punto controverso e
decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360
c.p.c., n. 5. Si contesta, in particolare, che la Corte
territoriale sia incorsa in errore nel ritenere che la
riduzione unilaterale dell'orario di lavoro potesse
comportare l'automatica instaurazione di un rapporto di
lavoro a tempo pieno e si aggiunge che una tale
conseguenza non poteva scaturire nemmeno dalla nullità
della clausola verbale di effettuazione del lavoro a
tempo parziale, potendosi attribuire, semmai, a norma
dell'art. 2126 c.c., comma 1, la retribuzione
proporzionata alla prestazione in concreto eseguita.
Il motivo è infondato.
Invero, come questa Corte ha già
avuto modo di affermare (Cass. sez. lav. n. 5330 del
10/3/2006), "la nullità della
clausola sul tempo parziale, per difetto di forma
scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte
con la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del
2005, non implica, ai sensi dell'art. 1419 c.c., comma
1, l'invalidità dell'intero contratto - a meno che non
risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza
quella parte colpita da nullità - e comporta, per il
principio generale di conservazione del negozio
giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto
di lavoro deve considerarsi a tempo pieno. (Nella specie
la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva,
tra l'altro, rilevato che era onere del datore di lavoro
dedurre e dimostrare che non avrebbe mai voluto
costituire un rapporto a tempo pieno, circostanza in
concreto nemmeno adombrata dallo stesso datore)".
Il medesimo giudice delle leggi ha
aggiunto che è possibile un'interpretazione
costituzionale orientata, già indicata dalla Corte
Costituzionale nella sentenza n. 210 del 1992, secondo
la quale la nullità per vizio di forma della clausola
sulla riduzione dell'orario di lavoro "non è comunque
idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne
determina la c.d. conversione in un "normale contratto
di lavoro", o meglio determina "la qualificazione del
rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione
dell'inefficacia della pattuizione relativa alla scelta
del tipo contrattuale speciale". A tale risultato,
secondo il giudice delle leggi, può pervenirsi facendosi
ricorso alla disciplina ordinaria della nullità parziale
(art. 1419 c.c., comma 1), che esprime un'esigenza di
carattere generale di tendenziale conservazione del
contratto, ove il vizio di forma sia circoscrivibile ad
una o più clausole (come quella che prevede l'orario di
lavoro ridotto) e sempre che la clausola nulla non
risulti avere carattere essenziale per entrambe le parti
del rapporto, nel senso che, in particolare, anche il
lavoratore, il quale di regola aspira ad un impiego a
tempo pieno, non avrebbe stipulato il contratto se non
con la clausola della riduzione di orario.
La conclusione del giudice delle
leggi è nel senso che risulta chiaramente tracciata -
anche nel non più vigente regime della disposizione
censurata - un'interpretazione di essa, che, pur non
affermando (ed anzi escludendo) la conversione
automatica del rapporto a tempo parziale in rapporto a
tempo pieno, è comunque idonea a scongiurare, di
massima, una volta accertato il difetto della forma
scritta della clausola a tempo parziale, la totale
nullità del rapporto di lavoro. Tra l'altro, non può
sottacersi che nella fattispecie il rapporto lavorativo
in esame era già all'origine a tempo pieno, per cui per
effetto della impugnata sentenza è stato in concreto
ripristinato l'ordinario rapporto, cosi come configurato
dalle parti all'atto della sua nascita.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio
seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a
suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e
condanna la ricorrente al pagamento in favore del solo
C. delle spese del presente giudizio nella misura di
Euro 2500,00 per onorario, oltre Euro 40,00, per
esborsi, nonchè I.V.A, C.P.A e spese generali ai sensi
di legge. |