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COMUNIONE LEGALE TRA I CONIUGI, I BENI NON SONO DIVISIBILI IN QUOTE-Cassazione, sez. VI, 25 ottobre 2011, n. 22082-Giovanni Ciccimarra, Avvocato

 

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(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 11/2011)

QUAESTIO IURIS

 

Viene promosso un giudizio per lo scioglimento della comunione e, stante la presenza di un bene immobile non comodamente divisibile del quale più parti richiedono l'assegnazione, sorge la necessità di individuare il titolare della quota maggioritaria al quale, ai sensi dell'art. 720 cod.civ., va attribuito il  bene.

 

All'esito del giudizio di appello, l'immobile viene attribuito agli attori, proprietari in regime di comunione legale del 50% dello stesso. La decisione viene contestata dagli altri comproprietari, i quali ritengono che nella fattispecie non possa trovare applicazione l'art. 720 cod. civ. in quanto il principio del favor divisionis al quale è questo è informato risulta incompatibile con la comunione legale, nella quale i coniugi non possono procedere allo scioglimento finché dura il regime stesso.

 

Come è noto la Legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), operando una radicale inversione rispetto alle precedenti previsioni normative, ha individuato nella comunione legale il regime regolante gli acquisti operati dai coniugi in costanza di matrimonio, seppure conservando agli interessati la facoltà di convenire il mantenimento della titolarità esclusiva dei beni acquistati in costanza di matrimonio.

 

Ciò posto, la giurisprudenza ha da tempo evidenziato che la comunione legale tra i coniugi costituisce un regime eccezionale, caratterizzato da regole proprie e distinto, pertanto dalla comunione ordinarie .

 

Tale classificazione è stata in primo luogo fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza 17 marzo 1988 n. 311.

 

In essa la Corte ha operato una netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi, ricostruendo quest'ultima come una proprietà plurima parziaria, caratterizzata da una serie di elementi peculiari che possono essere individuati come di seguito:

 

1.       si tratta di una comunione senza quote;

 

2.       i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione;

 

3.       la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo debbono essere ripartiti tra i coniugi od i loro eredi.

 

Il riferimento più immediato è alla cd. comunione a mani unite del diritto tedesco, istituto caratterizzato appunto dall'assenza di quote di appartenenza individuale del bene comune e dall'attribuzione a ciascun comunista della facoltà di godimento sull’intero patrimonio.

 

Tale ricostruzione, per la verità, non trovato particolari consensi in dottrina[1]. In effetti, non si è mancato di sottolineare la difficoltà di individuare, non solo nel nostro sistema, ma anche in quelli a noi maggiormente prossimi, un modello di comunione a solidarietà totale, in cui il potere di disporre dei beni spetti a ciascun comunista singolarmente.

 

Né si è mancato di osservare che in una tale ricostruzione finisce per comportare la possibile elusione della regola della partecipazione congiunta e paritaria dei coniugi alla disposizione dei beni in comunione.

 

Ciò nonostante, la prevalente giurisprudenza ha confermato la ricostruzione dell'istituto così come formulata dalla Corte costituzionale ed innanzi riportata. In particolare, dalla natura indivisa della proprietà dei coniugi sui beni, la giurisprudenza ha fatto discendere l’indisponibilità della quota e, conseguentemente, la sua intrasferibilità sino al perdurare della comunione.

 

È stato così sostenuto che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione e che «il consenso dell'altro, richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180/11 CC per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un negozio unilaterale autorizzativo, nel senso d'atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso, secondo la nota teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio, onde l'ipotesi regolata dall'art. 184/1 CC tecnicamente si riferisce non ad un caso d'acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso d'acquisto a domino in base ad un titolo viziato» (cfr. Cass., SS.UU., 24 agosto 2007, n.17952).

 

Gli ambiti in cui tali principi hanno trovato applicazione sono i più disparati: ad esempio, al fine di risolvere questioni insorte in tema di litisconsorzio necessario[2], di preliminare di vendita di beni comuni[3], ovvero in riferimento all’esecuzione per debiti personali sui beni oggetto della comunione[4].

 

La sentenza che in tale sede si commenta, come premesso, sposa integralmente l'autorevole orientamento della Corte come sopra riportato e, nell'applicarne i principi al caso di specie, sottolinea che nella comunione legale, diversamente da quella ordinaria, i coniugi/comproprietari sono solidalmente titolari di un diritto sui beni comuni di cui ciascuno dei coniugi può disporre senza il consenso dell’altro. Ne consegue che il loro diritto è unico e se la quota è maggiore delle altre hanno diritto all’assegnazione dell’intero immobile.

 

Pertanto, nel caso di specie, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 720 cod. civ., è stata considerata proveniente dal quotista maggiore la domanda dei due coniugi proprietari, in regime di comunione legale, del 50% dell'immobile dividendo e non anche quella analoga domanda presentata congiuntamente dagli ulteriori comproprietari, pur titolari complessivamente di pari diritti di quota.

 

Questo in quanto, mentre la domanda proveniente dai coniugi comproprietari in regime di comunione legale andava unitariamente considerata, altrettanto non era possibile fare per la domanda degli altri comproprietari in regimi di comunione ordinaria.

 

D'altra parte, come giustamente osserva la Corte, considerare unitariamente una domanda presentata da comproprietari in regime di comunione ordinaria porterebbe ad un risultato in contrasto con le stesse finalità dell'azione proposta, comportando il protrarsi della comunione, sia pure con riferimento ad un numero di partecipanti minore di quello originario.

 

 

 

LA SOLUZIONE di Cassazione, 25 ottobre 2011, n. 22082

 

La decisione in esame intende conformarsi alla previgente giurisprudenza secondo cui «La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (arg. ex art. 189, secondo comma); mentre nei rapporti con i terzi ciascun coniuge non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge come negozio unilaterale autorizzativo diretto alla rimozione di un limite all'esercizio del diritto dispositivo sul bene (Cass. 14093/2010; 21058/2007; S. U. 17952/2007; Corte Cost. 311/1988).».

 

Ed ancora: «Nella comunione legale la quota non e’ un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194): il rilievo che, in considerazione della sua natura, la comunione legale non realizza uno stato di indivisione temporaneo o provvisorio trova conferma proprio nella impossibilità per i coniugi di procedere allo scioglimento dei beni (art. 191 cod. civ.)».

 

Ciò conduce a risolvere la questione posta, nello specifico, all'attenzione della Corte: «correttamente l'intero immobile è stato attribuito agli attori - come si è detto - contitolari della quota maggioritaria, tenuto conto del principio secondo cui in applicazione del principio del "favor divisionis” nel caso in cui, in presenza d'una pluralità di richieste di assegnazione, nell'eredità sia compreso un immobile non comodamente divisibile, va accolta la richiesta di attribuzione di detto bene del coerede condividente titolare della quota maggiore, e non quella di attribuzione congiunta del bene degli altri aventi diritto a quote tra loro eguali, atteso che quest'ultima a differenza dell'attribuzione del bene al maggior quotista comporterebbe il protrarsi della comunione, sia pure con riferimento ad un numero di partecipanti minore di quello originario(Cass. 8922/1991; 1566/1999; 8827/2008).»

 

 

 

[1]Una esaustiva trattazione delle critiche alla materia può rinvenirsi in OBERTO G., La comunione legale tra coniugi, in Tratt. dir. civ. diretto da Cicu e Messineo, I, Milano, 2010, 272 ss..

 

[2]Cass. Civ., Sez. II, 09.07.2004, n. 12740, in Guida al Diritto, 2004, 35, 52.

 

[3]Cass. Civ., Sez. II, 19.05.1988, n. 3483, in Corriere Giur., 1988, 692; Cass. Civ., Sez. II, 11.09.1991, n. 9513, in Dir. e Giur., 1992, 624

 

[4]Cass., sez. un., 4.8.1998, n. 7640, in Giur. it., 1999, 741; Trib. Bari, 11.6.1998, in www.Judicium.it.

 

 

 

 

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