Persona e danno.com
(Estratto da Diritto e Processo
formazione n. 11/2011)
QUAESTIO IURIS
Viene promosso un giudizio per lo
scioglimento della comunione e, stante la presenza di un
bene immobile non comodamente divisibile del quale più
parti richiedono l'assegnazione, sorge la necessità di
individuare il titolare della quota maggioritaria al
quale, ai sensi dell'art. 720 cod.civ., va attribuito
il bene.
All'esito del giudizio di appello,
l'immobile viene attribuito agli attori, proprietari in
regime di comunione legale del 50% dello stesso. La
decisione viene contestata dagli altri comproprietari, i
quali ritengono che nella fattispecie non possa trovare
applicazione l'art. 720 cod. civ. in quanto il principio
del favor divisionis al quale è questo è informato
risulta incompatibile con la comunione legale, nella
quale i coniugi non possono procedere allo scioglimento
finché dura il regime stesso.
Come è noto la Legge 19 maggio
1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), operando
una radicale inversione rispetto alle precedenti
previsioni normative, ha individuato nella comunione
legale il regime regolante gli acquisti operati dai
coniugi in costanza di matrimonio, seppure conservando
agli interessati la facoltà di convenire il mantenimento
della titolarità esclusiva dei beni acquistati in
costanza di matrimonio.
Ciò posto, la giurisprudenza ha da
tempo evidenziato che la comunione legale tra i coniugi
costituisce un regime eccezionale, caratterizzato da
regole proprie e distinto, pertanto dalla comunione
ordinarie .
Tale classificazione è stata in
primo luogo fornita dalla Corte costituzionale con la
sentenza 17 marzo 1988 n. 311.
In essa la Corte ha operato una
netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione
legale tra coniugi, ricostruendo quest'ultima come una
proprietà plurima parziaria, caratterizzata da una serie
di elementi peculiari che possono essere individuati
come di seguito:
1. si tratta di una comunione
senza quote;
2. i coniugi non sono
individualmente titolari di un diritto di quota, bensì
solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto
avente per oggetto i beni della comunione;
3. la quota non è un elemento
strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la
misura entro cui i beni della comunione possono essere
aggrediti dai creditori particolari, la misura della
responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i
propri beni personali verso i creditori della comunione,
la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e
il passivo debbono essere ripartiti tra i coniugi od i
loro eredi.
Il riferimento più immediato è alla
cd. comunione a mani unite del diritto tedesco, istituto
caratterizzato appunto dall'assenza di quote di
appartenenza individuale del bene comune e
dall'attribuzione a ciascun comunista della facoltà di
godimento sull’intero patrimonio.
Tale ricostruzione, per la verità,
non trovato particolari consensi in dottrina[1]. In
effetti, non si è mancato di sottolineare la difficoltà
di individuare, non solo nel nostro sistema, ma anche in
quelli a noi maggiormente prossimi, un modello di
comunione a solidarietà totale, in cui il potere di
disporre dei beni spetti a ciascun comunista
singolarmente.
Né si è mancato di osservare che in
una tale ricostruzione finisce per comportare la
possibile elusione della regola della partecipazione
congiunta e paritaria dei coniugi alla disposizione dei
beni in comunione.
Ciò nonostante, la prevalente
giurisprudenza ha confermato la ricostruzione
dell'istituto così come formulata dalla Corte
costituzionale ed innanzi riportata. In particolare,
dalla natura indivisa della proprietà dei coniugi sui
beni, la giurisprudenza ha fatto discendere
l’indisponibilità della quota e, conseguentemente, la
sua intrasferibilità sino al perdurare della comunione.
È stato così sostenuto che, nei
rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di
disporre dei beni della comunione e che «il consenso
dell'altro, richiesto dal modulo dell'amministrazione
congiuntiva adottato dall'art. 180/11 CC per gli atti di
straordinaria amministrazione, non è un negozio
unilaterale autorizzativo, nel senso d'atto attributivo
di un potere, ma piuttosto nel senso, secondo la nota
teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che
rimuove un limite all'esercizio di un potere e requisito
di regolarità del procedimento di formazione dell'atto
di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene
immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del
negozio, onde l'ipotesi regolata dall'art. 184/1 CC
tecnicamente si riferisce non ad un caso d'acquisto
inefficace perché a non domino, bensì ad un caso
d'acquisto a domino in base ad un titolo viziato» (cfr.
Cass., SS.UU., 24 agosto 2007, n.17952).
Gli ambiti in cui tali principi
hanno trovato applicazione sono i più disparati: ad
esempio, al fine di risolvere questioni insorte in tema
di litisconsorzio necessario[2], di preliminare di
vendita di beni comuni[3], ovvero in riferimento
all’esecuzione per debiti personali sui beni oggetto
della comunione[4].
La sentenza che in tale sede si
commenta, come premesso, sposa integralmente
l'autorevole orientamento della Corte come sopra
riportato e, nell'applicarne i principi al caso di
specie, sottolinea che nella comunione legale,
diversamente da quella ordinaria, i
coniugi/comproprietari sono solidalmente titolari di un
diritto sui beni comuni di cui ciascuno dei coniugi può
disporre senza il consenso dell’altro. Ne consegue che
il loro diritto è unico e se la quota è maggiore delle
altre hanno diritto all’assegnazione dell’intero
immobile.
Pertanto, nel caso di specie, ai
sensi e per gli effetti di cui all'art. 720 cod. civ., è
stata considerata proveniente dal quotista maggiore la
domanda dei due coniugi proprietari, in regime di
comunione legale, del 50% dell'immobile dividendo e non
anche quella analoga domanda presentata congiuntamente
dagli ulteriori comproprietari, pur titolari
complessivamente di pari diritti di quota.
Questo in quanto, mentre la domanda
proveniente dai coniugi comproprietari in regime di
comunione legale andava unitariamente considerata,
altrettanto non era possibile fare per la domanda degli
altri comproprietari in regimi di comunione ordinaria.
D'altra parte, come giustamente
osserva la Corte, considerare unitariamente una domanda
presentata da comproprietari in regime di comunione
ordinaria porterebbe ad un risultato in contrasto con le
stesse finalità dell'azione proposta, comportando il
protrarsi della comunione, sia pure con riferimento ad
un numero di partecipanti minore di quello originario.
LA SOLUZIONE di Cassazione, 25
ottobre 2011, n. 22082
La decisione in esame intende
conformarsi alla previgente giurisprudenza secondo cui
«La comunione legale dei beni tra i coniugi, a
differenza da quella ordinaria, è una comunione senza
quote, nella quale i coniugi non sono individualmente
titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente
titolari, in quanto tali, di un diritto avente per
oggetto i beni della comunione (arg. ex art. 189,
secondo comma); mentre nei rapporti con i terzi ciascun
coniuge non ha diritto di disporre della propria quota,
può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi
il consenso dell'altro coniuge come negozio unilaterale
autorizzativo diretto alla rimozione di un limite
all'esercizio del diritto dispositivo sul bene (Cass.
14093/2010; 21058/2007; S. U. 17952/2007; Corte Cost.
311/1988).».
Ed ancora: «Nella comunione legale
la quota non e’ un elemento strutturale, ma ha soltanto
la funzione di stabilire la misura entro cui i beni
della comunione possono essere aggrediti dai creditori
particolari (art. 189), la misura della responsabilità
sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni
personali verso i creditori della comunione (art. 190),
e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione,
l'attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o
i loro eredi (art. 194): il rilievo che, in
considerazione della sua natura, la comunione legale non
realizza uno stato di indivisione temporaneo o
provvisorio trova conferma proprio nella impossibilità
per i coniugi di procedere allo scioglimento dei beni
(art. 191 cod. civ.)».
Ciò conduce a risolvere la
questione posta, nello specifico, all'attenzione della
Corte: «correttamente l'intero immobile è stato
attribuito agli attori - come si è detto - contitolari
della quota maggioritaria, tenuto conto del principio
secondo cui in applicazione del principio del "favor
divisionis” nel caso in cui, in presenza d'una pluralità
di richieste di assegnazione, nell'eredità sia compreso
un immobile non comodamente divisibile, va accolta la
richiesta di attribuzione di detto bene del coerede
condividente titolare della quota maggiore, e non quella
di attribuzione congiunta del bene degli altri aventi
diritto a quote tra loro eguali, atteso che quest'ultima
a differenza dell'attribuzione del bene al maggior
quotista comporterebbe il protrarsi della comunione, sia
pure con riferimento ad un numero di partecipanti minore
di quello originario(Cass. 8922/1991; 1566/1999;
8827/2008).»
[1]Una esaustiva trattazione delle
critiche alla materia può rinvenirsi in OBERTO G., La
comunione legale tra coniugi, in Tratt. dir. civ.
diretto da Cicu e Messineo, I, Milano, 2010, 272 ss..
[2]Cass. Civ., Sez. II, 09.07.2004,
n. 12740, in Guida al Diritto, 2004, 35, 52.
[3]Cass. Civ., Sez. II, 19.05.1988,
n. 3483, in Corriere Giur., 1988, 692; Cass. Civ., Sez.
II, 11.09.1991, n. 9513, in Dir. e Giur., 1992, 624
[4]Cass., sez.
un., 4.8.1998, n. 7640, in Giur. it., 1999, 741; Trib.
Bari, 11.6.1998, in www.Judicium.it.
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