Andrea
V. dipendente della S.p.A. Chimento, è stato sottoposto
a procedimento disciplinare con l'addebito di un
ingiustificato "ammanco" di un certo quantitativo di
merce semilavorata in oro, che avrebbe dovuto essere
conservata in una cassetta di sicurezza di cui egli
aveva la chiave: "al controllo inventariale eseguito
in data odierna è stato riscontrato un ammanco di grammi
618,60 di merce semilavorata in oro tit. 750 che lei
aveva in carico. Questo costituisce una grave infrazione
delle norme contrattuali e di legge". E' seguito il
licenziamento con la seguente motivazione "l'azienda
non ha accolto le giustificazioni da Lei presentate con
lettera raccomandata del 23.1.2001 in quanto del tutto
generiche ed insufficienti. Infatti risulta evidente,
dalla documentazione contabile da Lei sottoscritta, che
il fatto contestato può essere riconducibile
esclusivamente alla Sua persona. Pertanto considerato
che il fatto a Lei contestato è talmente grave da ledere
il rapporto fiduciario che deve sussistere tra azienda e
proprio dipendente e tale da non consentire la
prosecuzione, nemmeno in via provvisoria del rapporto di
lavoro, applichiamo il licenziamento per giusta causa
con effetto dal ricevimento della presente ai sensi
dell'art. 23 lettera B.b. del contratto ...". La
norma contrattuale richiamata dall'azienda nella
motivazione del licenziamento, contempla l'ipotesi di
"furto in azienda". Il Tribunale di Vicenza, cui il
lavoratore si è rivolto, ha ritenuto legittimo il
licenziamento. Avverso tale sentenza ha proposto appello
Andrea V. chiedendo che il licenziamento venisse
dichiarato illegittimo, in primo luogo per la genericità
della contestazione dell'addebito e, in secondo luogo,
per la violazione del principio di immutabilità della
contestazione, oltre che per la mancata prova della
sussistenza del fatto denunciato. La Corte d'Appello di
Venezia ha accolto l'appello, ritenendo che il fatto
genericamente contestato al lavoratore fosse anche
ontologicamente diverso da quello posto a fondamento del
recesso, ed ha quindi dichiarato l'illegittimità del
licenziamento ordinando la reintegrazione del ricorrente
nel posto di lavoro. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione censurando la decisione della Corte veneziana
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6499 del 22 marzo 2011,
Pres. Vidiri, Rel. Filabozzi) ha rigettato il ricorso.
La Corte di Venezia - ha osservato la Cassazione - ha
correttamente rilevato che l'addebito di "furto in
azienda" formulato nella motivazione del licenziamento,
non era presente nella comunicazione di apertura del
procedimento disciplinare, riferita all'ipotesi di
"ammanco". L'immutabilità della contestazione preclude
al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della
legittimità del licenziamento disciplinare, circostanze
nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare
una diversa valutazione dell'infrazione disciplinare
anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare
apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi
garantire l'effettivo diritto di difesa del lavoratore
incolpato. La possibilità di introdurre modificazioni
dei fatti contestati può essere riconosciuta solo con
riguardo a modificazioni concernenti circostanze non
significative rispetto alla fattispecie contestata e
così quando tali modificazioni non configurino elementi
integrativi di una diversa fattispecie di illecito
disciplinare e non comportino dunque un pregiudizio alla
difesa del lavoratore.
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