La legge 69/2009, nell’ottica di
revisione del sistema processualcivilistico cui è stata
preordinata, ha posto fine ad un’annosa querelle
dottrinaria e giurisprudenziale circa il riconoscimento
dell’esistenza del cosiddetto “principio di non
contestazione”. Se altrove l’intervento della novella è
stato nel senso di “conformare” il testo normativo alle
prevalenti elaborazioni ed interpretazioni della
giurisprudenza di legittimità, nel caso in esame si è
preferito seguire l’opposto indirizzo: come noto,
infatti, pur dovendo far salve eccezioni degne di nota (
tra cui vale la pena ricordare: Cass., S.U., sent. n.
761/2002 ), più volte la Suprema Corte e le Corti di
merito hanno ritenuto non potesse operare
indiscriminatamente nel nostro ordinamento processuale
civile il principio in argomento, finendo per confinare
lo stesso entro ambiti così angusti da ridurne
sensibilmente l’applicabilità concreta ( cfr.: Cass. n.
14880/2002; Cass. n. 13814/2002; Cass. n. 13904/2000;
Cass. n. 10434/2000; Cass. n. 9424/2000, Cass. n.
11513/1999; Cass. n. 4687/1999; Cass. n. 1213/1999 ). In
poche parole, per l’impostazione maggioritaria un fatto
doveva considerarsi pacifico e, quindi, non necessitava
di essere provato, solo allorquando l’altra parte lo
avesse ammesso esplicitamente, quando avesse impostato
la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili
con il disconoscimento o quando si fosse limitata a
contestare esplicitamente e specificamente alcune
circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le
altre. Il principio di diritto da sempre prevalente
sconfessava, dunque, la convinzione di chi credeva che,
anche al di fuori del rito del lavoro, la mancata
precipua replica ad un’allegazione di controparte
comportasse sul piano processuale un’implicita conferma
di quanto ex adverso sostenuto, con conseguente
attribuzione di valore di prova ad una simile omissione:
tutto ciò, in ragione dell’assenza di espressi oneri in
tal senso e, forse, pure a seguito di una lettura troppo
poco sistematica del complesso delle norme che
regolavano e regolano il processo civile ( su tutte, si
veda: Cass. civ. n. 13958/2006 ).
Orbene, il Legislatore, con il
nuovo art. 115, comma I C.P.C., ha scelto di seguire la
strada contraria a quella tradizionale e maggiormente
percorsa, configurando tra gli elementi di prova idonei
a supportare la decisione dell’organo giudicante adito
anche i fatti non specificamente contestati dalla parte
costituita ( “Salvi i casi previsti dalla legge, il
giudice deve porre a fondamento della decisione le prove
proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i
fatti non specificatamente contestati dalla parte
costituita” ). Tale precisazione normativa, a parere di
chi scrive, non può dirsi semplicemente adagiata sulle
argomentazioni di dottrina e giurisprudenza minoritarie,
ma fondata su una più attenta e corretta “rilettura”
delle norme di cui agli artt. 167, comma I e 416, comma
III C.P.C., nonché di altri numerosi articoli del codice
di rito ( a titolo esemplificativo, si vedano: art. 14
comma III, art. 35, art. 186 bis, art. 316 comma III,
art. 423, art. 512 comma II, art. 541, art. 542, art.
548, art. 597, art. 598, art. 643, art. 785, art. 789 ).
In ciò conforta anche la relativamente recente Cass.
sent. n. 5191/2008 ( si noti bene, ante riforma 2009! ),
secondo cui l’onere di contestazione tempestiva
deriverebbe da tutto il sistema processuale, come si può
dedurre dal carattere dispositivo del processo ( che
comporta una struttura dialettica a catena ), dal
sistema di preclusioni ( che comporta per entrambe le
parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute
processuali, a circoscrivere la materia controversa ),
dai principi di lealtà e probità di cui all’art. 88
C.P.C. e, soprattutto, dal generale principio di
economia che deve informare il processo ex art. 111
Cost.. Ne deriva che per i procedimenti introdotti dopo
l’entrata in vigore della legge 69/2009 ( poiché così
espressamente stabilito dal Legislatore in deroga al
tradizionale principio dell’immediata applicabilità
delle nuove norme processuali ), le parti saranno sempre
gravate dall’onere di prendere, nella prima difesa
utile, specifica posizione ( ovviamente contraria ) in
ordine a tutti i fatti storici introdotti in giudizio
dalla controparte, pena il dover il giudice ritenere
tali fatti pacifici e, pertanto, provati.
Quanto agli aspetti meramente
tecnici del nuovo istituto, appare opportuno precisare
alcuni punti rimasti inespressi. Al fine di impedire il
realizzarsi della conseguenza di cui all’art. 115, comma
I C.P.C., la contestazione, le cui ragioni potranno
essere chiarite in un momento successivo alla
proposizione della stessa, deve necessariamente essere
specifica e deve concernere fatti, siano essi principali
o secondari, e non la loro qualificazione giuridica. Il
requisito della specificità è di facile comprensione: la
contestazione dovrà, pertanto, riferirsi puntualmente ad
un dato fatto storico allegato dalla parte avversa (
attore, convenuto, terzo chiamato in causa o
interveniente ) e non essere assorbita nella più ampia
eccezione di “infondatezza in fatto ed in diritto”,
propria delle verbalizzazioni di prima udienza.
Tuttavia, se si tengono nel giusto conto tanto la ratio,
quanto il dato testuale della disposizione in argomento,
dovrà ritenersi che la specificità non implichi un
riferimento espresso ( di segno negativo ) al fatto
introdotto ex adverso; ne discende che dovranno
considerarsi contestazioni specifiche anche le
allegazioni di accadimenti incompatibili con le
narrazioni di controparte, qualora le
“contro-affermazioni” si pongano in contrapposizione
logico-funzionale con la ricostruzione fattuale
avversaria. Da qui l’ulteriore corollario secondo cui,
in caso di continenza logica tra gli accadimenti
narrati, se si nega un fatto che costituisce il
presupposto di un altro, la contestazione del primo
comporterà necessariamente anche la contestazione del
secondo ( classico esempio è quello offerto dal rapporto
di continenza tra “an debeatur” e “quantum debeatur” ).
Relativamente, poi, all’oggetto dell’exceptio, la
contestazione dovrà riguardare solo ed esclusivamente i
fatti storici, quelli costitutivi dei diritti azionati
in giudizio e quelli modificativi, impeditivi ed
estintivi relativi alle eccezioni di controparte. Deve,
pertanto, escludersi che l’omessa qualificazione
giuridica di un elemento della fattispecie fattuale
dedotta in giudizio porti con sé l’automatica rinuncia
di parte avversaria ad argomentare diversamente o
significhi acquiescenza della medesima al risultato
dell’attività di sussunzione del fatto alla norma
operata dall’altra parte. Altro aspetto da non
trascurare è quello della valutazione dell’omessa
contestazione specifica a fronte dell’acquisizione al
processo di una prova di segno opposto. Ben potrebbe
accadere, infatti, che nel corso dell’istruttoria,
seppur non a seguito di puntuale domanda, un teste renda
dichiarazioni sostanzialmente contrarie al fatto non
contestato da controparte. Cosa accadrà in tali casi? La
risposta che appare più in linea con i principi della
logica, ma non con il testo dell’art. 115, comma I
C.P.C. ( in virtù del quale le due risultanze probatorie
dovrebbero astrattamente equivalersi ), è quella che
impone al giudice di prendere atto dell’esistenza di una
prova che smentisca a monte l’esistenza del fatto non
contestato e di farne derivare, quale unica conseguenza
possibile, l’irrilevanza della mancata specifica
contestazione. Il tema, comunque, resta opinabile e vale
la pena attendere le prime pronunce giurisprudenziali al
riguardo.
Il giudizio sulla novità introdotta
dal Legislatore non può che essere positivo: in primis,
tende a garantire più proficui risultati nella ricerca e
nell’accertamento della verità in sede processuale, ciò
attribuendo significato concludente ( sfavorevole alla
parte silente ) alle omissioni argomentative di comodo,
laddove il fatto ( costitutivo, modificativo, impeditivo
o estintivo che sia ) allegato da controparte non possa
costituire oggetto di una minimamente valida eccezione (
per ragioni meramente pragmatiche quali l’inesistenza
storica o l’indimostrabilità del fatto contrario ). In
secondo luogo, anche qui la necessità di realizzare
processi rapidi e snelli ha avuto il suo peso, cosicché
se su uno o più fatti non si controverte la nuova norma
eviterà che si svolgano istruttorie ( talvolta protratte
per tre o quattro udienze ) aperte anche a questi
ultimi. Ma vi è di più: nei casi in cui la mancata
contestazione sia frutto di demeriti del difensore, si
tende a realizzare, qui solo in potenza, indirettamente
e molto teoricamente, quella competitività tra avvocati
( e non solo all’interno del singolo giudizio!... )
tipica dei modelli anglosassoni, in quanto dovrebbe o
potrebbe svilupparsi in questo modo un mercato
concorrenziale basato su scelte legate alle sole
capacità professionali e non anche a valutazioni o
considerazioni di altra natura.
In definitiva, anche se qualcuno
penserà “beata ingenuità”, quella del Legislatore non
appare una scelta esclusivamente processuale.
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