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SUI CRITERI PER L’ACCERTAMENTO DELLA LEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA-Manuela Rinaldi-Dirittoeprocesso.it

 

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Avvocato, Direttore amministrativo Fondazione studi giuridici “Buccini – Cassinelli” – Docente a contratto diritto del lavoro Univ. Teramo, sede dist. Avezzano

 

(Estratto da Diritto e Processo formazione n.3/2011)

 

 

 

 

 

QUAESTIO IURIS

 

In base a quanto previsto dall’articolo 2119 del codice civile “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

 

 Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.

 

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda”.

 

La nozione di giusta causa è un concetto usato dal codice civile italiano per riferirsi ad un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure a titolo provvisorio (neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento).

 

Spesso la giurisprudenza è intervenuta sull’annosa questione circa la nozione di giusta causa e sulla casistica “pratica” precisando, ad esempio che “I comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata, e quindi a maggior ragione quelli tenuti in un precedente rapporto di lavoro, assumono rilievo ai fini della configurabilità di una giusta causa di licenziamento, qualora siano di natura tale da far ritenere il dipendente inidoneo alla prosecuzione del rapporto e a far venire meno quella fiducia che costituisce presupposto essenziale del rapporto di lavoro.

 

Tali comportamenti rilevano come giusta causa di licenziamento, ma non possono rilevare come addebiti di natura disciplinare. Pertanto il potere disciplinare relativo a tali comportamenti deve essere esercitato dall'effettivo datore di lavoro al momento della commissione degli stessi” (Trib. Milano 30/10/2008, D.ssa Porcelli, in Lav. nella giur. 2009, 202)

 

Sempre la giurisprudenza ha, inoltre, stabilito che “L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento irrogato a un proprio dipendente da una impresa che svolgeva servizio di smaltimento rifiuti, per avere costui reso affermazioni - come privato cittadino in tre distinte assemblee pubbliche, con successiva ampia eco sulla stampa locale - ritenute gravemente lesive dell'immagine e del prestigio dell'azienda datrice di lavoro, in quanto si assumeva che questa non aveva inviato del materiale derivante dalla raccolta differenziata al recupero, al riciclaggio e allo smaltimento differenziato, ma l'aveva destinato all'inceneritore)”.  (Cass. 10/12/2008 n. 29008, Pres. Ianniruberto Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2009, 408)

 

L'apprezzamento del fatto del dipendente, al fine di stabilire se esso integri o meno una giusta causa di licenziamento deve essere compiuta, infatti, alla stregua della ratio dell'art. 2119 c.c. e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro e il lavoratore, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione. (Trib. Milano 19/3/2008, dott. Atanasio, in Lav. nella giur. 2008, 1173)

 

In tema di licenziamento per giusta causa occorre che la mancanza del lavoratore sia tanto grave da giustificare l'irrogazione della sanzione espulsiva e, pertanto, va valutato il comportamento del prestatore non solo nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate - ma anche alla sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente. (Cass. 15/2/2008 n. 3865, in Dir. & prat. lav. 2008, 2239)

 

Ancor più di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza 08/02/2011 n. 3042, ha deciso che non può essere licenziato per giusta causa il dipendente che offende in modo episodico il datore di lavoro.

 

Secondo i giudici di legittimità infatti perché l’offesa possa concretizzare il recesso del datore di lavoro è necessario, così come previsto dalla contrattazione collettiva, che le parole ingiuriose pronunciate dal lavoratore nei suoi confronti non siano episodiche.

 

Più precisamente la Suprema Corte evidenzia che un comportamento, per quanto grave possa essere, non può legittimare un giudizio di particolare gravità, se ha carattere episodico e se è riconducibile ad un dipendente che non ha mai in passato dato luogo a censure comportamentali.

 

In sostanza il datore di lavoro deve giudicare un determinato atto compiuto dal lavoratore tenendo conto del comportamento generalmente tenuto dallo stesso in azienda.

 

 

 

La SOLUZIONE di Cassazione, sez. lav., 21 gennaio 2011, n. 1459

 

La Corte di Cassazione con la sentenza del 21 gennaio 2011, n. 1459 ha avuto modo di esprimersi circa i criteri di valutazione dell'elemento soggettivo ed oggettivo per il licenziamento di giusta causa.

 

A tal riguardo ha precisato che ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento per giusta causa, occorre evidenziare che:

 

1) è necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l'assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore;

 

2) l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro;

 

3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l'entità della violazione commessa e l'intensità dell'elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata, il sede di legittimità è insindacabile;

 

4) sul piano probatorio, premesso che l'elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all'integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l'onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo; e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente.

 

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