Avvocato, Direttore amministrativo
Fondazione studi giuridici “Buccini – Cassinelli” –
Docente a contratto diritto del lavoro Univ. Teramo,
sede dist. Avezzano
(Estratto da Diritto e Processo
formazione n.3/2011)
QUAESTIO IURIS
In base a quanto previsto
dall’articolo 2119 del codice civile “Ciascuno dei
contraenti può recedere dal contratto prima della
scadenza del termine, se il contratto è a tempo
determinato, o senza preavviso, se il contratto è a
tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che
non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto.
Se il contratto è a tempo
indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per
giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo
comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di
risoluzione del contratto il fallimento
dell'imprenditore o la liquidazione coatta
amministrativa dell'azienda”.
La nozione di giusta causa è un
concetto usato dal codice civile italiano per riferirsi
ad un comportamento talmente grave da non consentire la
prosecuzione del rapporto neppure a titolo provvisorio
(neppure per il tempo previsto per il preavviso di
licenziamento).
Spesso la giurisprudenza è
intervenuta sull’annosa questione circa la nozione di
giusta causa e sulla casistica “pratica” precisando, ad
esempio che “I comportamenti tenuti dal lavoratore nella
sua vita privata, e quindi a maggior ragione quelli
tenuti in un precedente rapporto di lavoro, assumono
rilievo ai fini della configurabilità di una giusta
causa di licenziamento, qualora siano di natura tale da
far ritenere il dipendente inidoneo alla prosecuzione
del rapporto e a far venire meno quella fiducia che
costituisce presupposto essenziale del rapporto di
lavoro.
Tali comportamenti rilevano come
giusta causa di licenziamento, ma non possono rilevare
come addebiti di natura disciplinare. Pertanto il potere
disciplinare relativo a tali comportamenti deve essere
esercitato dall'effettivo datore di lavoro al momento
della commissione degli stessi” (Trib. Milano
30/10/2008, D.ssa Porcelli, in Lav. nella giur. 2009,
202)
Sempre la giurisprudenza ha,
inoltre, stabilito che “L'esercizio da parte del
lavoratore del diritto di critica nei confronti del
datore di lavoro, con modalità tali che, superando i
limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono
in una condotta lesiva del decoro dell'impresa
datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della
sua immagine anche un danno economico in termini di
perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è
comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia
che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la
violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 c.c., e
può costituire giusta causa di licenziamento. (Nella
specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che
aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento
irrogato a un proprio dipendente da una impresa che
svolgeva servizio di smaltimento rifiuti, per avere
costui reso affermazioni - come privato cittadino in tre
distinte assemblee pubbliche, con successiva ampia eco
sulla stampa locale - ritenute gravemente lesive
dell'immagine e del prestigio dell'azienda datrice di
lavoro, in quanto si assumeva che questa non aveva
inviato del materiale derivante dalla raccolta
differenziata al recupero, al riciclaggio e allo
smaltimento differenziato, ma l'aveva destinato
all'inceneritore)”. (Cass. 10/12/2008 n. 29008, Pres.
Ianniruberto Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2009, 408)
L'apprezzamento del fatto del
dipendente, al fine di stabilire se esso integri o meno
una giusta causa di licenziamento deve essere compiuta,
infatti, alla stregua della ratio dell'art. 2119 c.c. e
cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto sul
particolare rapporto fiduciario che lega il datore di
lavoro e il lavoratore, delle esigenze poste
dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle
regole di disciplina postulate da detta organizzazione.
(Trib. Milano 19/3/2008, dott. Atanasio, in Lav. nella
giur. 2008, 1173)
In tema di licenziamento per giusta
causa occorre che la mancanza del lavoratore sia tanto
grave da giustificare l'irrogazione della sanzione
espulsiva e, pertanto, va valutato il comportamento del
prestatore non solo nel suo contenuto oggettivo - ossia
con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al
vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che
sia richiesto dalle mansioni espletate - ma anche alla
sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle
particolari circostanze e condizioni in cui è stato
posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e
all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente.
(Cass. 15/2/2008 n. 3865, in Dir. & prat. lav. 2008,
2239)
Ancor più di recente la Corte di
Cassazione, con la sentenza 08/02/2011 n. 3042, ha
deciso che non può essere licenziato per giusta causa il
dipendente che offende in modo episodico il datore di
lavoro.
Secondo i giudici di legittimità
infatti perché l’offesa possa concretizzare il recesso
del datore di lavoro è necessario, così come previsto
dalla contrattazione collettiva, che le parole
ingiuriose pronunciate dal lavoratore nei suoi confronti
non siano episodiche.
Più precisamente la Suprema Corte
evidenzia che un comportamento, per quanto grave possa
essere, non può legittimare un giudizio di particolare
gravità, se ha carattere episodico e se è riconducibile
ad un dipendente che non ha mai in passato dato luogo a
censure comportamentali.
In sostanza il datore di lavoro
deve giudicare un determinato atto compiuto dal
lavoratore tenendo conto del comportamento generalmente
tenuto dallo stesso in azienda.
La SOLUZIONE di Cassazione, sez.
lav., 21 gennaio 2011, n. 1459
La Corte di Cassazione con la
sentenza del 21 gennaio 2011, n. 1459 ha avuto modo di
esprimersi circa i criteri di valutazione dell'elemento
soggettivo ed oggettivo per il licenziamento di giusta
causa.
A tal riguardo ha precisato che ai
fini della valutazione della legittimità del
licenziamento per giusta causa, occorre evidenziare che:
1) è necessario accertare se, in
relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso
fra le parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che
il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti
oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo
grave, così da farla venir meno, la fiducia che il
datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa
assumere rilievo l'assenza o la modesta entità del danno
patrimoniale subito dal datore;
2) l'irrogazione della massima
sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in
presenza di un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non
consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro;
3) la valutazione della gravità del
comportamento e della sua idoneità a ledere
irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro
ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi
considerando la natura e la qualità del rapporto, la
qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al
rapporto, l'entità della violazione commessa e
l'intensità dell'elemento soggettivo) è funzione del
giudice del merito, che, adeguatamente motivata, il sede
di legittimità è insindacabile;
4) sul piano probatorio, premesso
che l'elemento soggettivo è necessaria parte di ogni
atto umano, se all'integrazione dei fatti giuridicamente
legittimanti il licenziamento è necessario il dolo,
l'onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si
estende alla prova del dolo; e pertanto, ai fini della
legittimità del licenziamento, la prova della
sussistenza del fatto nella sua mera materialità è
insufficiente. |