Non costituisce violazione del divieto di trattamenti
discriminatori il licenziamento disciplinare per "culpa
in vigilando" disposto dal datore di lavoro nei
confronti del dirigente, appartenente ad un'associazione
religiosa, che abbia incautamente autorizzato
quest'ultima a somministrare ai dipendenti un test
attitudinale invasivo nei riguardi della loro vita
privata, non essendovi alla base del recesso
l'orientamento etico religioso dell'associazione di
appartenenza, ma solo i riflessi negativi della vicenda
sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti.
Corte di Cassazione
Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 16 febbraio 2011, n.
3821
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere
Dott. FILABOZZI Antonio - Consigliere
Dott. ARIENZO Rosa - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 836-2008 proposto da:
VO. GI. , elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DEI
MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell'avvocato
TAMBURRO LUCIANO, che lo rappresenta e difende
unitamente agli avvocati GIUBBONI STEFANO, RUSCONI
FABIO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
HE. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EZIO 19,
presso lo studio dell'avvocato ALLIEGRO MICHELE,
rappresentata e difesa dagli avvocati ARAGIUSTO MASSIMO,
FREDIANI FEDERICO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1718/2006 della CORTE D'APPELLO
di FIRENZE, depositata il 16/01/2007 R.G.N. 1145/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/12/2010 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l'Avvocato RUSCONI FABIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza resa il 31.10.2005 dal Tribunale di
Firenze, era stata respinta la domanda proposta da Vo.
Gi. , intesa ad ottenere l'accertamento del carattere
discriminatorio del licenziamento intimatogli il
14.5.2004 dalla societa' He. p.a. e la declaratoria di
nullita' dello stesso, con ogni provvedimento
consequenziale.
Su appello del Vo. , la Corte di Appello di Firenze, con
sentenza depositata il 16.1.2007. dichiarato
inammissibile per mancata prova della notifica il
gravame incidentale della societa', confermava la
sentenza di primo grado.
Osservava la Corte che l'impugnazione aveva ad oggetto
la dichiarazione di nullita' del licenziamento per
motivi discriminatori ed era diversa, quanto al petitum,
dalla domanda oggetto del lodo arbitrale nel quale si
era discusso della giustificatezza del provvedimento
espulsivo.
Escludeva la pretesa discriminatorieta' dell'atto
espulsivo, asseritamente ricondotta a ragioni di
appartenenza del Vo. ad una associazione religiosa, sul
rilievo che la contestazione disciplinare concerneva un
comportamento non legato all'appartenenza alla medesima,
ma soltanto l'autorizzazione ad entrare in azienda e ad
operare una prova attitudinale per il personale non
fondata su criteri scientifici. Rilevava che ogni
diversa questione, attinente alla idoneita' di quanto
accertato a giustificare la risoluzione del rapporto,
era affidata a lodo arbitrale ed alla sua eventuale
impugnazione e che, poiche' il comportamento del
dipendente si configurava negligente ai fini di causa
sotto i profili considerati, doveva escludersi ogni
intento discriminatorio.
Avverso detta pronunzia propone ricorso per cassazione
il Vo. , affidato a due motivi di impugnazione.
Resiste con controricorso la He. spa, che conclude per
il rigetto de ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi
dell'articolo
378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il Vo. deduce la violazione
dell'articolo
115 c.p.c., comma 2
(articolo 360 c.p.c., n 3 o n. 4), contestando
l'indebita estensione della nozione di "fatto notorio"
quale accolta - secondo la costante giurisprudenza della
S.C. - dall'articolo
112 c.p.c., sul
rilievo che costituisce affermazione non coerente con i
principi affermati dalla giurisprudenza in tema di fatto
notorio quella che pretende di accreditare alla
collettivita' di persone di media cultura conoscenze di
qualita' negative di persone fisiche o di associazioni
private. Pone al riguardo quesito di diritto ai sensi
dell'articolo
366 bis c.p.c..
Lamenta, con il secondo motivo, violazione del Decreto
Legislativo n. 216 del 2003, articoli
2 e 4 anche in relazione al
Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo
43, commi 1 e 2 nonche' dell'articolo 15 dello Statuto
dei lavoratori e della Legge n. 108 del 1990, articolo
43, commi 1 e 2, articolo 3 (articolo 360 c.p.c., n. 3).
Osserva che i passaggi argomentativi della pronunzia
della corte territoriale sono tali da omettere
l'applicazione della norma posta dalla
Decreto Legislativo n. 216 del
2003, articolo 4, comma 4 e del richiamato
articolo
2729 c.c., violano
la nozione legale di discriminazione, che e' oggettiva e
non necessariamente ed esclusivamente dipendente
dall'effettiva volonta' discriminatoria datoriale; che
non rilevano la natura discriminatoria dell'ordine di
servizio, presupposto dalla contestazione e ritenuto
disatteso, per la dedotta culpa in vigilando, di non
trattare con una societa' di consulenza perche' legata
ad un'associazione con scopi religiosi e non
scientifici.
Rileva, poi, che era stato dedotto in giudizio che i
primi e piu' significativi addebiti e parte del quinto
che la datrice di lavoro aveva mosso al dirigente erano
pretestuosi e rappresentavano elementi dedotti in causa
gravi, precisi e concordanti, che il giudice avrebbe
dovuto valutare ai sensi dell'articolo
2729 c.c.. In
particolare, censura la decisione laddove ha fatto
applicazione di una nozione strettamente soggettiva di
discriminazione, fondata sull'accertamento di una
effettiva volonta' discriminatoria del soggetto agente,
disattendo una delle acquisizioni piu' significative
della elaborazione dottrinale, giurisprudenziale e
normativa in materia, secondo la quale, ai fini della
individuazione del trattamento discriminatorio, cio' che
rileva e' il mero fatto oggettivo che il lavoratore non
avrebbe subito il trattamento sfavorevole se non si
fosse trovato ad integrare il fattore di rischio
contemplato dall'ordinamento. Nella ipotesi specifica,
il mero fatto che il Vo. non sarebbe stato licenziato se
l' He. non avesse reputato che il ricorrente fosse
legato o affiliato ala detta associazione, o che, in
ogni caso, la favorisse colpevolmente (sia pure per
culpa in vigilando), rendeva di per se' il trattamento
riservato al prestatore di lavoro direttamente
discriminatorio, a prescindere dall'accertamento di una
effettiva volonta' discriminatoria della societa'
datrice di lavoro. Aggiunge che la sentenza impugnata ha
anche erroneamente applicato, in connessione con
l'erronea nozione di discriminazione seguita, il
Decreto Legislativo n. 216 del
2003, articolo 4, comma 4, omettendo di
valutare, ai sensi dell'articolo
2729 c.c., quali
presunzioni gravi, precise e concordanti, i concludenti
elementi di fatto raccolti in sede istruttoria svolta
dinanzi al Collegio arbitrale ed integralmente riversata
nel giudizio in questione, che aveva fatto emergere una
prova diretta della natura discriminatoria de
licenziamento intimato ai Vo. . Ha, poi, ignorato la
sentenza i pur univoci elementi presuntivi inferibili
dal fatto (secondario) che ben quattro (e parte
significativa del quinto) dei complessivi cinque
addebiti disciplinari contestati al ricorrente erano del
tutto infondati e pretestuosi, come accertato dal
collegio arbitrale. Anche a conclusione dei rilievi
posti a fondamento del secondo motivo di impugnazione il
Vo. formula quesito di diritto ai sensi dell'articolo
366 c.p.c..
Quanto alla censura volta a contestare la nozione di
fatto notorio utilizzata dalla Corte territoriale, deve
rilevarsi, in via generale, che il ricorso alle nozioni
di comune esperienza (fatti notori) ex articolo
115 c.p.c., comma 2
attiene all'esercizio di un potere discrezionale
riservato al giudice de merito e che il relativo
esercizio, sia positivo che negativo, non e' sindacabile
in sede di legittimita' non essendo egli tenuto ad
indicare gli elementi sui quali la determinazione si
fonda, essendo, invece, censurabile - stabilendo se
nelle forma del ricorso ex articolo 360 c.p.c., n. 4 od
in quelle del ricorso per violazione di legge ai sensi
dell'articolo 360 c.p.c., n. 3 - l'assunzione, a base
della decisione, di una inesatta nozione del notorio,
che va inteso quale fatto generalmente conosciuto,
almeno in una determinata zona o in un particolare
settore di attivita' o di affari da una collettivita' di
persone di media cultura (cfr, in tal senso, Cass.
29.4.2005 n. 9001; 21.2.2007 n. 4051; 9.9.2008 n. 22880
e 12.3.2009 n. 6023). Dirimente risulta tuttavia, nel
caso considerato, al di la' della verifica della
esattezza della nozione del notorio assunta dal
giudicante, la circostanza che il dato in esame e le
argomentazioni svolte dalla Corte di Appello in ordine
all'associazione ed alle vicende relative alla stessa
sono state funzionali, come rettamente osservato dalla
controricorrente, ad integrare il parametro di misura
della diligenza tenuta dal Vo. , il quale, tra
molteplici soluzioni offerte dal mercato in materia di
testi attitudinali e formativi - aveva acriticamente
deciso di fruire di strumenti offerti da soggetto in
relazione al quale non aveva condotto alcuna indagine
conoscitiva per verificare la rispondenza dei testi
proposti alle esigenze delle azienda. La censura e'
evidentemente funzionale alla dimostrazione della
erroneita' della decisione nella parte in cui aveva
escluso il carattere discriminatorio del licenziamento,
ma la stessa, in relazione al suo oggetto si fonda su
circostanza ininfluente, atteso che non e' idonea a
confutare l'assunto, valorizzato dalla corte
territoriale, che il dirigente non si era attenuto alle
linee operative della societa' nei momento in cui aveva
consentito, senza approfondire dovutamente le
caratteristiche della societa' specializzata cui aveva
demandato il corso di comunicazione aziendale, di
somministrare ai dirigenti sottoposti quesiti volti ad
indagare sulla loro vita privata, rispetto ai quali si
erano manifestate le reazioni di alcuni essi.
La scelta, da parte del Vo. , di un qualunque altro
soggetto latore di una specificita' ideologica propria
sarebbe stata ugualmente censurata in termini
disciplinari nella misura in cui non fosse stata operata
con il grado di diligenza qualificato richiesto dalle
funzioni dirigenziali.
La pronunzia della Corte territoriale e', dunque, tale
da non potersi ritenere adottata in violazione delle
norme invocate.
Con riguardo al secondo motivo di ricorso, il ricorrente
assume che cio' che rileva nel giudizio da compiersi in
merito alla dedotta natura discriminatoria del
licenziamento, in virtu' di quanto affermato anche dalla
giurisprudenza comunitaria, saldamente ancorata ad una
concezione funzionale dell'illecito discriminatorio, e'
unicamente l'effetto, - pregiudizievole che discende da
atti e comportamenti che, prescindendo dalla motivazione
addotta, come anche dall'intenzione di chi ti adotta,
pongano il destinatario in una situazione di svantaggio
rispetto a quanti siano estranei ai fattori di rischio
vietato. Richiama il contenuto della norma di cui al
Decreto Legislativo n. 216 del
2003, articolo 2 che definisce la nozione di
discriminazione diretta ("quando per religione, per
convinzioni personali, per handicap, per eta' o per
orientamento sessuale, una persona e' trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un'altra in una situazione analoga") e quella
di discriminazione indiretta (" quando un disposizione,
un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri possono mettere le
persone che professano una determinata religione o
ideologia di altra natura, e persone portatrici di
handicap, le persone di una particolare eta' o di un
orientamento sessuale in una situazione di particolare
svantaggio rispetto ad altre persone"). Alla stregua di
tali considerazioni, rileva la contraddizione logica in
cui e' incorsa, a suo dire, la Corte di Appello, laddove
ha affermato che la He. spa non avrebbe addebitato al
Vo. la diretta appartenenza, avendogli, piuttosto,
soltanto addebitato a titolo di colpa in vigilando di
avere consentito ad una associazione discussa di
penetrare in azienda e comunque di averla autorizzata ad
utilizzare un test attitudinale. Evidenzia che tale
contraddizione risiederebbe nella ragione decisiva che
nella stessa motivazione espressa dall'atto di recesso
quella sanzionata dallo stesso collegio fiorentino sia
risultata la ricollegabilita' dell'attivita'
rimproverata al Vo. , sia pure a titolo di culpa in
vigilando, all'azione di una setta religiosa.
Senonche', non ritiene questa Corte che nei termini
evidenziati si sia espressa la valutazione compiuta dal
giudice del merito, atteso che il dato dell'appartenenza
della associazione che aveva approntato i feste
somministrati a un particolare orientamento etico
religioso risulta preso in considerazione nella misura
in cui lo stesso si era riverberato negativamente nel
contesto aziendale, suscitando l'indagine conoscitiva
condotta da tale societa' reazione tra i dipendenti,
turbati per il carattere invasivo dei testi nei riguardi
della loro vita privata e per il condizionamento
negativo derivatone.
Ed invero, la condotta sanzionata, ossia il monitoraggio
posto in essere senza la necessaria preventiva
informazione del Consiglio di Amministrazione ed in
violazione delle linee operative dell'azienda,
contrariamente a quanto assume il ricorrente, e' stato
correttamente ritenuto dalla Corte di merito, con
motivazione incensurabile sotto i profili evidenziati,
oltre che un dato oggettivamente provato, ragione di per
se' suscettibile di essere valutata in termini di
rilevanza disciplinare che di certo non dissimula un
intento discriminatorio del provvedimento espulsivo,
pienamente giustificato dalla negligenza posta in essere
dal dirigente Vo. . E cio', come e' dato evincere dalla
argomentata articolazione motivazionale, a prescindere
da ogni supposta adesione del Vo. , ma attribuendo
rilievo all'incauto affidamento a societa' facente capo
ad associazione di orientamento etico religioso
discutibile di un'attivita' aziendale delicata, quale
quella attinente alla comunicazione endoaziendale, senza
che da cio' possa in alcun modo inferirsi un contegno
anche indirettamente discriminatorio riferito alla
esclusione in via di principio di ogni possibilita' di
contatto con societa' ideologicamente connotate, ove
tale connotazione non avesse avuto i riflessi che
avevano fatto paventare un condizionamento degli stessi
soggetti sottoposti al test.
Deve escludersi, pertanto, che la Corte territoriale sia
incorsa nella denunziata violazione delle norme
richiamate in tema di divieto di trattamenti
discriminatori giustificati da ragioni di appartenenza
ad un particolare credo ideologico o religioso, laddove
si consideri che anche quanto si assume in merito alla
mancata valutazione di elementi di fatto indiziari
valutabili alla stregua dell'articolo
2729 c.c., comma 1
- in particolare l'esito dell'accertamento condotto in
sede arbitrale - non risulta provato ed, anzi, emerge
che al riguardo la societa' ha affermato che la prova
raggiunta ha consentito di ritenere provata la rilevanza
dei relativi addebiti. Nulla risulta dedotto con
riguardo alla valutazione operata dai giudici del merito
delle risultanze del giudizio arbitrale, la relativa
omissione essendo invocata in termini di assoluta
genericita' ed alcuna censura viene mossa circa i
criteri ed i vizi logico giuridici in cui sarebbe
incorsa la valutazione compiuta, sicche' anche da tale
punto di vista il ricorso e' privo di fondamento. La
dedotta applicazione delle regole in tema di giudizio
fondata su elementi presuntivi non si riconnette,
invero, a dati certi che consentano di ritenere
un'omessa valutazione di dati pacificamente e
inconfutabilmente acquisiti agli atti di causa, dovendo
al riguardo anche osservarsi che le prove raccolte in un
diverso giudizio danno luogo ad elementi meramente
indiziari, conseguendone che la mancata valutazione di
tali prove non e' idonea ad integrare il vizio di
motivazione, in quanto il difetto riscontrato non puo'
costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di
certezza, ma di mera probabilita' rispetto all'astratta
possibilita' di una diversa soluzione (cfr., in tali
termini, Cass. 23.4.1998 n. 4183).
Il ricorso deve essere, pertanto, respinto ed il
ricorrente deve essere condannato al pagamento delle
spese del giudizio di legittimita', in applicazione
della regola della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte cosi' provvede:
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di cassazione, di cui euro
33,00 esborsi, euro 2.500,00 per onorario, oltre spese
generali, IVA e CPA come per legge. |