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LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO: SÌ AL DANNO BIOLOGICO. NO AL DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ SENZA ADEGUATA PROVA-Cassazione, sez. Lav., 28 marzo 2011, n. 7064-Diritto e processo.it

 

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(Pres. Miani Canevari – Rel. Tria)

 

 

Svolgimento del processo

1.- La sentenza di cui si chiede la cassazione, in parziale accoglimento dell’appello di E. T. avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 23 gennaio 2002. condanna la Banca A. P. V. s.p.a. a corrispondere all’appellante la somma di Euro 10.000,00, oltre ad interessi legali dalla pronuncia stessa al saldo, a titolo di danno biologico ascrivibile (secondo quando rilevato nella relazione medico-legale del c.t.u. nominato in appello) alla situazione lavorativa del T. verificatasi dopo la sentenza del Pretore di Roma 29 novembre 1990, che ha dichiarato l’illegittimità del relativo licenziamento disciplinare e ha ordinato la reintegrazione del lavoratore, cui la datrice di lavoro ha ottemperato solo con lettera del 26 marzo 1996.

Secondo la Corte d’appello il legislatore, nel fissare all'art. 18 della legge n. 300 del 1970, una indennità risarcitoria derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento - quantificata nella retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se avesse continuato a prestare la propria attività lavorativa per tutto il periodo di tempo intercorrente dal licenziamento all’effettiva reintegrazione - ha inteso coprire il danno intrinsecamente connesso all’impossibilità materiale per il lavoratore non reintegrato di eseguire la propria prestazione lavorativa.

Ciò, tuttavia, non esclude che possano essere risarciti danni ulteriori, qualora si verifichi in concreto che si tratti di danni direttamente riconducibili, sotto il profilo del nesso causale, al comportamento del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine giudiziale di reintegra.

Deve, quindi, trattarsi di danni la cui esistenza ed entità richiedono una specifica prova, non essendone possibile una liquidazione predeterminata e rigida, visto che essi si pongono in diretta correlazione con situazioni che variano di caso in caso, come la durata della sospensione del rapporto lavorativo e la natura dei compiti svolti dal lavoratore.

Conseguentemente, la Corte d’appello ritiene sfornita di adeguata e tempestiva prova la domanda del T. riguardante il danno alla professionalità, mentre, come si è detto, perviene ad una diversa soluzione per quanto riguarda il danno biologico, sul principale assunto secondo cui la disposta c.t.u. ha consentito di acclarare che, a causa della prolungata estromissione dalla realtà lavorativa (per circa un quinquennio) derivante dalla scelta del datore di lavoro di eseguire l’ordine giudiziale di reintegrazione con molto ritardo, il lavoratore ha contratto un disturbo produttivo di un danno biologico permanente valutabile in misura pari all’8%.

2.- Il ricorso di E. T. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste con controricorso la Banca A. s.p.a..

Nell’imminenza dell’udienza sia il ricorrente sia la Banca M. dei P. di S. s.p.a. (succeduta alla Banca A. s.p.a., per atto notar M. Z. di Siena del 22 dicembre 2008) hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., nelle quali hanno ribadito le argomentazioni già svolte e confutato le tesi avversarie.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso E. T. denuncia violazione dell’art. 2697 cod. civ., relativamente all’onere della prova, assumendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Roma, l’omessa ottemperanza all’ordine di reintegrazione protrattasi per anni genera di per sé il danno esistenziale (professionale o alla professionalità). Conseguentemente, tale danno non richiede alcuna specifica prova diversa e ulteriore rispetto alla produzione della sentenza non eseguita, sicché sul punto nella sentenza impugnata vi sarebbe stata un’illegittima inversione dell’onere della prova.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 2094 e 2087 cod. civ., sul piano sostanziale.

Al riguardo si rileva che così come il licenziamento illegittimo non è un fatto illecito, ma un inadempimento contrattuale analogamente l’omessa reintegrazione nel posto di lavoro è un inadempimento contrattuale che aggrava quello rappresentato dal licenziamento illegittimo e che si pone in contrasto con la funzione causale della collaborazione, sancita dall’art. 2094 cod. civ., e rilevante come momento genetico e funzionale permanente del rapporto di lavoro subordinato.

Pertanto, l’onere probatorio del ricorrente - contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata - era solo quello di provare l’esistenza del contratto e della pronuncia di reintegra, mentre avrebbe dovuto essere la Banca datrice di lavoro a fornire la prova di aver fatto tutto il possibile per adempiere all’obbligo di reintegrazione, cosa che non è avvenuta.

Ciò anche in considerazione del fatto che, secondo quanto stabilito da Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572, nel caso di demansionamento - e l’omessa reintegrazione è il massimo del demansionamento - il danno alla professionalità, il danno esistenziale, il danno alla preclusione della normale estrinsecazione della vita lavorativa possono provarsi e derivare da presunzioni, nella specie desumibili dalla prova tecnica diretta costituita dalla sentenza pretorile e dalla mancata ottemperanza ad essa.

3.- La controricorrente, in primo luogo, sostiene che il ricorso è inammissibile, per inosservanza del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti, di cui all’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..

Tale assunto non può essere condiviso, infatti il Collegio intende uniformarsi, sul punto, all’orientamento di questa Corte secondo cui il disposto dell’art. 366, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., in base al quale il ricorso per cassazione deve contenere, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, può ritenersi osservato anche mediante la fotocopiatura della sentenza di appello ed il suo inserimento nel corpo de ricorso, in ragione del principio della libertà di forme che caratterizza il processo civile. Nondimeno, l’esposizione, pur sommaria, dei fatti di causa dovrà considerarsi carente, con conseguente inammissibilità del ricorso, qualora la sentenza impugnata non contenga, a sua volta, una sufficiente indicazione dei fatti della causa rilevanti ai fini della decisione (Cass. 3 febbraio 2004, n. 1957; Cass. 9 settembre 2004, n. 18150; Cass. 21 luglio 2005. n. 15321). Ciò in quanto la suddetta disposizione del codice di rito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. 22 settembre 2003, n. 14001).

Nella specie il ricorso, attraverso la sua breve premessa in fatto, l’interfogliatura della copia integrale della sentenza impugnata (contenente una esauriente descrizione dei fatti di causa) e la successiva esposizione dei motivi consente di intendere agevolmente la vicenda processuale sottoposta all’attenzione di questa Corte.

Pertanto è da escludere che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile per la suddetta ragione.

4.- Per quel che riguarda il merito, i due motivi - che, per la loro intima connessione, possono essere esaminati congiuntamente - appaiono infondati.

Come indica lo stesso ricorrente, con essi sostanzialmente ci si duole del fatto che nella sentenza impugnata sia stata respinta la domanda di risarcimento del danno professionale per carenza di adeguata prova offerta dal lavoratore, anziché ritenere che la prova del suddetto danno fosse in re ipsa nel ritardo di circa un quinquennio nell’ottemperanza, da parte della datrice di lavoro, all’ordine di reintegrazione e dovesse, quindi, essere la Banca a provare l’esistenza di un valido motivo che potesse giustificare la sua condotta.

Tale assunto non può essere condiviso.

5.- Il percorso seguito dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, sia nella sua applicazione generale sia in quella riguardante, in particolare, le situazioni di demansionamento, dequalificazione, ritardata reintegrazione del lavoratore, ha avuto - anche in dipendenza dell’evoluzione della dottrina, della giurisprudenza anche costituzionale della legislazione in materia - diverse tappe, non sempre tra loro concordanti, principalmente a partire dagli anni novanta, da quando, cioè, si è cominciato ad affermare più insistentemente il "danno esistenziale" come categoria autonoma di danno alle attività non remunerative della persona (vedi, per tutte; Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299; Cass. 11 agosto 1998, n. 7905).

Dopo vari passaggi intermedi (di cui, per ragioni di sintesi, non si da conto in questa sede) si è, quindi, giunti alla sentenza SU 24 marzo 2006, n. 6572, nella quale è stato affermato il principio secondo cui in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

A questa sentenza si è uniformata parte della giurisprudenza successiva (vedi per tutte: Cass. 26 giugno 2006, n. 14729; Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832), ma altra parte delle pronunce di questa Corte non vi si è conformata (vedi per tutte: Cass. 20 novembre 2006, n. 23918; Cass. 20 aprile 2007, n. 9510; Cass. 27 giugno 2007, n. 14846).

In particolare, si sono venuti a creare due contrapposti filoni giurisprudenziali, l’uno favorevole e l’altro contrario alla configurabilità, come categoria autonoma, del danno esistenziale, inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, dal cd. danno morale soggettivo, in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare reddituale del soggetto.

Per porre fine a questa situazione di contrasto la questione è stata nuovamente sottoposta all’attenzione delle Sezioni unite che hanno risolto la questione con le cosiddette "sentenze gemelle" del 2008 (Cass. SU 11 novembre 2008, n. 26972, n. 26973. n. 26974, n. 26975).

Nelle suddette sentenze la Corte, prendendo le mosse dalla condivisione della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., data dalle sentenze 31 marzo 2003, n. 8827 e n. 8828, secondo cui nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, ha effettuato un’ampia ricostruzione dei diversi orientamenti dottrinari e giurisprudenziali pervenendo, fra l’altro, all’enunciazione dei seguenti principi:

1) non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di "danno esistenziale". inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel "danno esistenziale" si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 cod. civ.;

2) il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale;

3) comunque, il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale.

A tali principi si è conformata la giurisprudenza successiva, anche per quel che riguarda i danni da riconoscere in conseguenza di vicende legate al rapporto di lavoro.

Conseguentemente, nella giurisprudenza di questa Corte può dirsi ormai consolidato il principio secondo cui poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, e dal momento che il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l’operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale presenti aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici (vedi per tutte: Cass. 9 dicembre 2010, n. 24864: Cass. 30 novembre 2009, n. 25236).

6.- Con quest’ultimo principio - cui il Collegio intende uniformarsi - appare in sintonia la sentenza impugnata nella parte in cui, pur non escludendo l’astratta possibilità della risarcibilità in favore del lavoratore il cui licenziamento sia stato dichiarato illegittimo di danni ulteriori rispetto all’indennità risarcitoria prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, ha però ritenuto necessaria a tal fine l’allegazione di una specifica prova da parte dell’interessato, limitandosi, pertanto, nel caso di specie, a riconoscere come aggiuntivo il solo danno biologico, escludendo, invece, il danno alla professionalità (o esistenziale) perché sfornito di adeguata prova.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 32,00 per esborsi, Euro 3.000,00 (tremila,00) per onorario, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

 

 

 

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