(Pres.
Miani Canevari – Rel. Tria)
Svolgimento del processo
1.- La
sentenza di cui si chiede la cassazione, in parziale
accoglimento dell’appello di E. T. avverso la sentenza
del Tribunale di Roma del 23 gennaio 2002. condanna la
Banca A. P. V. s.p.a. a corrispondere all’appellante la
somma di Euro 10.000,00, oltre ad interessi legali dalla
pronuncia stessa al saldo, a titolo di danno biologico
ascrivibile (secondo quando rilevato nella relazione
medico-legale del c.t.u. nominato in appello) alla
situazione lavorativa del T. verificatasi dopo la
sentenza del Pretore di Roma 29 novembre 1990, che ha
dichiarato l’illegittimità del relativo licenziamento
disciplinare e ha ordinato la reintegrazione del
lavoratore, cui la datrice di lavoro ha ottemperato solo
con lettera del 26 marzo 1996.
Secondo
la Corte d’appello il legislatore, nel fissare all'art.
18 della legge n. 300 del 1970, una indennità
risarcitoria derivante dalla declaratoria di
illegittimità del licenziamento - quantificata nella
retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se
avesse continuato a prestare la propria attività
lavorativa per tutto il periodo di tempo intercorrente
dal licenziamento all’effettiva reintegrazione - ha
inteso coprire il danno intrinsecamente connesso
all’impossibilità materiale per il lavoratore non
reintegrato di eseguire la propria prestazione
lavorativa.
Ciò,
tuttavia, non esclude che possano essere risarciti danni
ulteriori, qualora si verifichi in concreto che si
tratti di danni direttamente riconducibili, sotto il
profilo del nesso causale, al comportamento del datore
di lavoro che non ottemperi all’ordine giudiziale di
reintegra.
Deve,
quindi, trattarsi di danni la cui esistenza ed entità
richiedono una specifica prova, non essendone possibile
una liquidazione predeterminata e rigida, visto che essi
si pongono in diretta correlazione con situazioni che
variano di caso in caso, come la durata della
sospensione del rapporto lavorativo e la natura dei
compiti svolti dal lavoratore.
Conseguentemente, la Corte d’appello ritiene sfornita di
adeguata e tempestiva prova la domanda del T.
riguardante il danno alla professionalità, mentre, come
si è detto, perviene ad una diversa soluzione per quanto
riguarda il danno biologico, sul principale assunto
secondo cui la disposta c.t.u. ha consentito di
acclarare che, a causa della prolungata estromissione
dalla realtà lavorativa (per circa un quinquennio)
derivante dalla scelta del datore di lavoro di eseguire
l’ordine giudiziale di reintegrazione con molto ritardo,
il lavoratore ha contratto un disturbo produttivo di un
danno biologico permanente valutabile in misura pari
all’8%.
2.- Il
ricorso di E. T. domanda la cassazione della sentenza
per due motivi; resiste con controricorso la Banca A.
s.p.a..
Nell’imminenza dell’udienza sia il ricorrente sia la
Banca M. dei P. di S. s.p.a. (succeduta alla Banca A.
s.p.a., per atto notar M. Z. di Siena del 22 dicembre
2008) hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 378
cod. proc. civ., nelle quali hanno ribadito le
argomentazioni già svolte e confutato le tesi
avversarie.
Motivi
della decisione
1.- Con
il primo motivo di ricorso E. T. denuncia violazione
dell’art. 2697 cod. civ., relativamente all’onere della
prova, assumendo che, diversamente da quanto ritenuto
dalla Corte d’appello di Roma, l’omessa ottemperanza
all’ordine di reintegrazione protrattasi per anni genera
di per sé il danno esistenziale (professionale o alla
professionalità). Conseguentemente, tale danno non
richiede alcuna specifica prova diversa e ulteriore
rispetto alla produzione della sentenza non eseguita,
sicché sul punto nella sentenza impugnata vi sarebbe
stata un’illegittima inversione dell’onere della prova.
2.- Con
il secondo motivo si denuncia violazione degli artt.
2094 e 2087 cod. civ., sul piano sostanziale.
Al
riguardo si rileva che così come il licenziamento
illegittimo non è un fatto illecito, ma un inadempimento
contrattuale analogamente l’omessa reintegrazione nel
posto di lavoro è un inadempimento contrattuale che
aggrava quello rappresentato dal licenziamento
illegittimo e che si pone in contrasto con la funzione
causale della collaborazione, sancita dall’art. 2094
cod. civ., e rilevante come momento genetico e
funzionale permanente del rapporto di lavoro
subordinato.
Pertanto, l’onere probatorio del ricorrente -
contrariamente a quanto affermato nella sentenza
impugnata - era solo quello di provare l’esistenza del
contratto e della pronuncia di reintegra, mentre avrebbe
dovuto essere la Banca datrice di lavoro a fornire la
prova di aver fatto tutto il possibile per adempiere
all’obbligo di reintegrazione, cosa che non è avvenuta.
Ciò
anche in considerazione del fatto che, secondo quanto
stabilito da Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572, nel caso
di demansionamento - e l’omessa reintegrazione è il
massimo del demansionamento - il danno alla
professionalità, il danno esistenziale, il danno alla
preclusione della normale estrinsecazione della vita
lavorativa possono provarsi e derivare da presunzioni,
nella specie desumibili dalla prova tecnica diretta
costituita dalla sentenza pretorile e dalla mancata
ottemperanza ad essa.
3.- La
controricorrente, in primo luogo, sostiene che il
ricorso è inammissibile, per inosservanza del requisito
dell’esposizione sommaria dei fatti, di cui all’art.
366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
Tale
assunto non può essere condiviso, infatti il Collegio
intende uniformarsi, sul punto, all’orientamento di
questa Corte secondo cui il disposto dell’art. 366,
primo comma, n. 3 cod. proc. civ., in base al quale il
ricorso per cassazione deve contenere, l’esposizione
sommaria dei fatti di causa, può ritenersi osservato
anche mediante la fotocopiatura della sentenza di
appello ed il suo inserimento nel corpo de ricorso, in
ragione del principio della libertà di forme che
caratterizza il processo civile. Nondimeno,
l’esposizione, pur sommaria, dei fatti di causa dovrà
considerarsi carente, con conseguente inammissibilità
del ricorso, qualora la sentenza impugnata non contenga,
a sua volta, una sufficiente indicazione dei fatti della
causa rilevanti ai fini della decisione (Cass. 3
febbraio 2004, n. 1957; Cass. 9 settembre 2004, n.
18150; Cass. 21 luglio 2005. n. 15321). Ciò in quanto la
suddetta disposizione del codice di rito risponde non ad
un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di
consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di
causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene
intendere il significato e la portata delle censure
rivolte al provvedimento impugnato (Cass. 22 settembre
2003, n. 14001).
Nella
specie il ricorso, attraverso la sua breve premessa in
fatto, l’interfogliatura della copia integrale della
sentenza impugnata (contenente una esauriente
descrizione dei fatti di causa) e la successiva
esposizione dei motivi consente di intendere agevolmente
la vicenda processuale sottoposta all’attenzione di
questa Corte.
Pertanto è da escludere che il ricorso debba essere
dichiarato inammissibile per la suddetta ragione.
4.- Per
quel che riguarda il merito, i due motivi - che, per la
loro intima connessione, possono essere esaminati
congiuntamente - appaiono infondati.
Come
indica lo stesso ricorrente, con essi sostanzialmente ci
si duole del fatto che nella sentenza impugnata sia
stata respinta la domanda di risarcimento del danno
professionale per carenza di adeguata prova offerta dal
lavoratore, anziché ritenere che la prova del suddetto
danno fosse in re ipsa nel ritardo di circa un
quinquennio nell’ottemperanza, da parte della datrice di
lavoro, all’ordine di reintegrazione e dovesse, quindi,
essere la Banca a provare l’esistenza di un valido
motivo che potesse giustificare la sua condotta.
Tale
assunto non può essere condiviso.
5.- Il
percorso seguito dalla giurisprudenza di questa Corte in
materia di risarcimento del danno non patrimoniale, sia
nella sua applicazione generale sia in quella
riguardante, in particolare, le situazioni di
demansionamento, dequalificazione, ritardata
reintegrazione del lavoratore, ha avuto - anche in
dipendenza dell’evoluzione della dottrina, della
giurisprudenza anche costituzionale della legislazione
in materia - diverse tappe, non sempre tra loro
concordanti, principalmente a partire dagli anni
novanta, da quando, cioè, si è cominciato ad affermare
più insistentemente il "danno esistenziale" come
categoria autonoma di danno alle attività non
remunerative della persona (vedi, per tutte; Cass. 16
dicembre 1992, n. 13299; Cass. 11 agosto 1998, n. 7905).
Dopo
vari passaggi intermedi (di cui, per ragioni di sintesi,
non si da conto in questa sede) si è, quindi, giunti
alla sentenza SU 24 marzo 2006, n. 6572, nella quale è
stato affermato il principio secondo cui in tema di
demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento
del diritto del lavoratore al risarcimento del danno
professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente
in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può
prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso
introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle
caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il
risarcimento del danno biologico è subordinato
all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica
medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da
intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente
emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile)
provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri
le sue abitudini e gli assetti relazionali propri,
inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti
i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro
precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti
(caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità
all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro
dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate
e ragionevoli aspettative di progressione professionale,
eventuali reazioni poste in essere nei confronti del
datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse
relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini
di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si
risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si
possa, attraverso un prudente apprezzamento,
coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi
dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali
derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel
ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
A
questa sentenza si è uniformata parte della
giurisprudenza successiva (vedi per tutte: Cass. 26
giugno 2006, n. 14729; Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282;
Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832), ma altra parte delle
pronunce di questa Corte non vi si è conformata (vedi
per tutte: Cass. 20 novembre 2006, n. 23918; Cass. 20
aprile 2007, n. 9510; Cass. 27 giugno 2007, n. 14846).
In
particolare, si sono venuti a creare due contrapposti
filoni giurisprudenziali, l’uno favorevole e l’altro
contrario alla configurabilità, come categoria autonoma,
del danno esistenziale, inteso come pregiudizio non
patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza
di lesione dell’integrità psico-fisica, dal cd. danno
morale soggettivo, in quanto non attinente alla sfera
interiore del sentire, ma alla sfera del fare reddituale
del soggetto.
Per
porre fine a questa situazione di contrasto la questione
è stata nuovamente sottoposta all’attenzione delle
Sezioni unite che hanno risolto la questione con le
cosiddette "sentenze gemelle" del 2008 (Cass. SU 11
novembre 2008, n. 26972, n. 26973. n. 26974, n. 26975).
Nelle
suddette sentenze la Corte, prendendo le mosse dalla
condivisione della lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 2059 cod. civ., data dalle sentenze 31 marzo
2003, n. 8827 e n. 8828, secondo cui nel vigente assetto
dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente
la Costituzione - che, all’art. 2, riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - il danno
non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione
più ampia di danno determinato dalla lesione di
interessi inerenti alla persona non connotati da
rilevanza economica, ha effettuato un’ampia
ricostruzione dei diversi orientamenti dottrinari e
giurisprudenziali pervenendo, fra l’altro,
all’enunciazione dei seguenti principi:
1) non
è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma
categoria di "danno esistenziale". inteso quale
pregiudizio alle attività non remunerative della
persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i
pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della
persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da
fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi
dell’art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme
a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione
di una ulteriore posta di danno comporterebbe una
duplicazione risarcitoria; ove nel "danno esistenziale"
si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti
inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del
tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono
risarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059
cod. civ.;
2) il
danno non patrimoniale da lesione della salute
costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva,
nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di
tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima,
ma senza duplicare il risarcimento attraverso
l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne
consegue che è inammissibile, perché costituisce una
duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione
alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da
reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia
per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva,
il quale costituisce necessariamente una componente del
primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica
necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come
pure la liquidazione del danno biologico separatamente
da quello c.d. estetico, da quello alla vita di
relazione e da quello cosiddetto esistenziale;
3)
comunque, il danno non patrimoniale, quando ricorrano le
ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato
leso in modo grave un diritto della persona tutelato
dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da
un fatto illecito, sia quando scaturisca da un
inadempimento contrattuale.
A tali
principi si è conformata la giurisprudenza successiva,
anche per quel che riguarda i danni da riconoscere in
conseguenza di vicende legate al rapporto di lavoro.
Conseguentemente, nella giurisprudenza di questa Corte
può dirsi ormai consolidato il principio secondo cui
poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, e
dal momento che il danno non patrimoniale ha natura
unitaria, è corretto l’operato del giudice di merito che
liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma
omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non
patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale,
danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono
pregiudizi autonomamente risarcibili, ma possono venire
in considerazione solo in sede di adeguamento del
risarcimento al caso specifico, e sempre che il
danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno
biologico o morale presenti aspetti molteplici e
riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici (vedi per
tutte: Cass. 9 dicembre 2010, n. 24864: Cass. 30
novembre 2009, n. 25236).
6.- Con
quest’ultimo principio - cui il Collegio intende
uniformarsi - appare in sintonia la sentenza impugnata
nella parte in cui, pur non escludendo l’astratta
possibilità della risarcibilità in favore del lavoratore
il cui licenziamento sia stato dichiarato illegittimo di
danni ulteriori rispetto all’indennità risarcitoria
prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, ha
però ritenuto necessaria a tal fine l’allegazione di una
specifica prova da parte dell’interessato, limitandosi,
pertanto, nel caso di specie, a riconoscere come
aggiuntivo il solo danno biologico, escludendo, invece,
il danno alla professionalità (o esistenziale) perché
sfornito di adeguata prova.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle
spese del presente giudizio di cassazione, che liquida
in Euro 32,00 per esborsi, Euro 3.000,00 (tremila,00)
per onorario, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.
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