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UNA RIFORMA INCOERENTE DEL SISTEMA PENSIONISTICO-di Fernando Di Nicola

 

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A distanza di poco più di una settimana dal varo di una manovra di bilancio ampia e per qualche verso “strutturale”, pare interessante commentare la nuova riforma del sistema pensionistico in modo consapevole dell’emergenza di bilancio1, ma attento alle caratteristiche di fondo di un sistema pensionistico italiano “contributivo”, ispirato a criteri attuariali (una specie di fondo previdenziale che raccoglie contributi, li remunera con un tasso di interesse e trasforma all’atto del pensionamento il montante maturato in un reddito annuo, tenuto conto degli anni attesi di vita residua).

 

Per esaminare più agevolmente i tratti essenziali della riforma appena varata è utile ricordare sinteticamente alcuni aspetti della riforma epocale del 1995. Tale riforma, nell’introdurre il sistema contributivo per le future annualità (ma non per tutti, avendo lasciato la metà circa degli occupati soggetta interamente al regime retributivo esistente, anche per il futuro) aveva distinto piuttosto nettamente le regole di pensionamento tra coloro che vi accedevano col vecchio metodo retributivo - ancorato alle retribuzioni degli ultimi anni a prescindere dall’entità dei contributi versati e caratterizzato perciò da rendimenti di tali contributi molto diversi e mediamente molto più alti di un qualsiasi tasso di interesse di mercato, in questo senso contenenti una forma di “regalo” finanziario – e quelli che avrebbero percepito una pensione pienamente contributiva, di fatto l’equivalente finanziario-attuariale di quanto versato nel corso della vita lavorativa.

E così per i contributivi pieni erano previste almeno tre importanti differenze:

potevano maturare il diritto alla pensione con soli 5 anni di contribuzione (contro i 20 anni almeno richiesti a chi avrebbe fruito in qualche modo del citato regalo finanziario);

potevano scegliere l’età di pensionamento in un range compreso tra i 57 ed i 65 anni, scontando ovviamente un trattamento più basso, agganciato alle aspettative di vita, cioè all’eventuale maggiore fruizione temporale della pensione.

non si applicava l’integrazione del trattamento al minimo Inps.

Era talmente chiara questa differenza di contesto che era lasciata anche ai retributivi ed ai misti (cioè a quelli che avrebbero beneficiato del “regalo pro-rata”) la facoltà di optare per una pensione pienamente contributiva e di poter andare in pensione nel citato range di età, per motivi legati a preferenze personali o particolari condizioni nel mercato del lavoro (ad es. un’espulsione prematura giudicata non superabile)2. 

Per i retributivi ed i misti, invece, furono lasciate complesse regole di accesso al pensionamento, in successiva e continua evoluzione in senso restrittivo, che però lasciavano inalterato il meccanismo di calcolo della pensione sganciato dai criteri attuariali-finanziari.  La logica era altrettanto chiara: se vuoi accedere ad un trattamento di favore, a carico del bilancio pubblico, ti poniamo vincoli, in termini di età e/o di contribuzione minima, che attenuino il costo pubblico di questo vantaggio.

Negli anni successivi alla riforma Dini sono state apportate numerose modifiche, di dettaglio e di logica del sistema, che è impossibile riportare qui; ma è importante richiamare il fatto che sono stati rimossi essenziali corollari logici del contributivo pieno (innalzamento dell’età minima di pensionamento e/o degli anni minimi di contribuzione).

E’ con queste premesse che appare più agevole giudicare diversi aspetti fondanti della recente riforma previdenziale.

In primo luogo, anche se questo aspetto è stato finora quasi ignorato, ai contributivi pieni (cioè a coloro che con la previdenza pubblica imitano le logiche di un fondo previdenziale o di un sistema a capitalizzazione effettiva) vengono imposti:

un intervallo di scelta dell’età di pensionamento più restrittivo, dai 63 ai 70 anni - soggetto peraltro ad ulteriori vincoli di minimo trattamento maturato (2,8 volte l’assegno sociale per pensionarsi da 63 a 66 anni, 1,5 volte oltre i 66 anni), oltre che a più stringenti aumenti dell’età legati all’evolvere delle aspettative di vita.

un minimo di 20 anni di contribuzione per acquisire il diritto alla pensione  (tale vincolo era di almeno 5 anni ed una pensione maturata di almeno 1,2 volte l’assegno sociale con la riforma Dini, ma era stato poi modificato progressivamente fino a 36 anni di contributi per pensionarsi a 61-62 anni, oppure a 5 anni di contributi con 66 anni di età).

Si tratta evidentemente della conferma – nella maggior parte dei casi perfino dell’accentuazione - di uno stravolgimento dell’impianto contributivo-attuariale del sistema di riferimento a regime che non trova giustificazione coerente se non in future esigenze di cassa per far fronte ad uno squilibrio previdenziale (la famosa “gobba”) dovuto ai numerosi e generosi trattamenti retributivi e misti, del passato e in maturazione per i prossimi anni: a fronte di un trattamento sostanzialmente pari ai versamenti effettuati, al lavoratore contribuente vengono confermati e rafforzati forti vincoli alle proprie scelte, che in qualche caso ripropongono il vecchio “storno” dei propri accantonamenti previdenziali a favore di altri utilizzi.  Cosa succederà infatti al lavoratore precario che accumulerà complessivamente meno di 20 anni di contribuzione?  E con quale logica il trattamento fruibile dai 63 ai 66 anni, calcolato rigorosamente senza i “regali” del passato (e del presente e futuro), viene negato a chi ha meno di 2,8 volte l’assegno sociale?

Per quanto riguarda le pensioni ex retributive e miste, l’accesso al pensionamento sarà possibile dai 66-67 anni in poi (a meno che siano maturati 42 anni di contribuzione). In questo caso, secondo la logica qui proposta, i forti vincoli posti al pensionamento (nel 2012 l’età per andare in pensione di anzianità sarebbe stata di fatto pari a 61 anni) sono giustificabili con la maggior pensione percepita rispetto a quanto versato, ed appaiono perciò coerenti con il desiderato azzeramento del deficit pubblico a breve3.

Tuttavia, nel contesto di una scelta tra l’approccio rigido (o “paternalistico”) e quello flessibile, anche in questo caso si sarebbe potuto centrare i vincoli di finanza pubblica seguendo un approccio più flessibile e più “equo”, in senso attuariale e intergenerazionale.  Sarebbe bastato infatti seguire appieno la logica di opportune riduzioni di importo legate all’età di pensionamento - peraltro introdotte in forma attenuata con il decalage dell’1% per ogni anno antecedente i 62 anni di età per i pensionamenti con almeno 42 anni di contribuzione – per avvicinare i trattamenti pensionistici retributivi e misti alla logica del contributivo, ed allo stesso tempo per scoraggiare, in un contesto di flessibilità delle scelte, l’anticipo dell’età di pensionamento.  E invece il soggetto ex retributivo o misto che andrà in pensione a 67 anni lo farà beneficiando comunque del citato regalo finanziario connesso all’aggancio del trattamento alle ultime retribuzioni a prescindere dall’entità dei contributi versati (pur attenuato dalla maggiore età di pensionamento e dall’introduzione del calcolo contributivo pro rata).

Si noti che l’approccio paternalistico al sistema pensionistico e l’attenzione alle esigenze di cassa, che escono confermati e rafforzati da questa riforma, non hanno effetti solo sulle pur rispettabili diverse scelte ed esigenze di vita, ma anche su un mercato del lavoro che, in un contesto di globalizzazione e competizione spinti, tenderà probabilmente ad espellere gli ultracinquantenni con maggiore frequenza di quanto avvenga già ora4.  L’aver continuato ad impedire l’opzione per il contributivo pieno, cioè per un trattamento inferiore e senza regali, ma con età ben inferiori ai 66-67 anni previsti, esporrà segmenti non irrilevanti del mercato del lavoro a restare senza retribuzione e senza pensione per un notevole numero di anni a condizioni difficilmente sostenibili5.

Un’ultima considerazione di rilievo è che con queste regole, specie quelle riservate ai contributivi pieni, un fondo di previdenza privato, che a fronte di strette regole attuariali lascia ampie scelte al sottoscrittore ed è caratterizzato da forti agevolazioni fiscali, risulta in molti casi preferibile a quello pubblico, con le inevitabili ripercussioni in termini di evasione o elusione contributiva.

Di questi problemi, e delle dolorose scelte effettuate, il decisore politico sembra essere pienamente consapevole: nel comma 28 dell’art.24 del DL 201 si prevede infatti una Commissione volta ad esplorare “possibili ed ulteriori forme di gradualità nell’accesso al trattamento pensionistico determinato secondo il metodo contributivo rispetto a quelle previste dal presente decreto … funzionali a scelte di vita individuali, anche correlate alle dinamiche del mercato del lavoro”.  Resta solo da sperare che in questo caso non viga il proverbio che “quando non si vuole risolvere un problema, lo si affida ad una Commissione”.

 

1. Come pur in un diverso contesto logico ricordava Beltrametti su nel merito.com del 9 dicembre scorso: “una riforma seria ed equa non può produrre risparmi immediati; risparmi nel breve periodo si possono ottenere solo tradendo qualche aspettativa ormai fortemente radicata”. Ma i forti condizionamenti delle esigenze di bilancio permeavano anche i commenti di Faioli (nel merito.com del 9-dic-2011) e Gronchi (la voce.info  del 6-dic-2011).

2.  Si noti che quest’ultima opzione per il contributivo pieno fu successivamente rimossa, sempre nell’affannoso tentativo di far cassa, con una delle riforme dell’ultimo decennio.

3. Nel medio periodo, infatti, chi è stato costretto a posticipare l’età di pensionamento fruirà di una maggior pensione, calcolata con il favorevole metodo misto anche in base agli anni di contribuzione.

4. Né convince l’assunzione implicita che la maggiore aspettativa di sopravvivenza comporti un’uguale maggiore vita lavorativa in condizioni di efficiente produttività.

5. Anche l’auspicata riforma degli ammortizzatori sociali, messa in agenda dal Governo in carica, come dai precedenti, non modificherebbe sostanzialmente questo rischio, stante la condivisa filosofia di flexicurity, che assicurerebbe un sussidio (probabilmente decrescente) per due o tre anni.

 

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