Nel merito.it
A distanza di poco più di una
settimana dal varo di una manovra di bilancio ampia e
per qualche verso “strutturale”, pare interessante
commentare la nuova riforma del sistema pensionistico in
modo consapevole dell’emergenza di bilancio1, ma attento
alle caratteristiche di fondo di un sistema
pensionistico italiano “contributivo”, ispirato a
criteri attuariali (una specie di fondo previdenziale
che raccoglie contributi, li remunera con un tasso di
interesse e trasforma all’atto del pensionamento il
montante maturato in un reddito annuo, tenuto conto
degli anni attesi di vita residua).
Per esaminare più agevolmente i
tratti essenziali della riforma appena varata è utile
ricordare sinteticamente alcuni aspetti della riforma
epocale del 1995. Tale riforma, nell’introdurre il
sistema contributivo per le future annualità (ma non per
tutti, avendo lasciato la metà circa degli occupati
soggetta interamente al regime retributivo esistente,
anche per il futuro) aveva distinto piuttosto nettamente
le regole di pensionamento tra coloro che vi accedevano
col vecchio metodo retributivo - ancorato alle
retribuzioni degli ultimi anni a prescindere dall’entità
dei contributi versati e caratterizzato perciò da
rendimenti di tali contributi molto diversi e mediamente
molto più alti di un qualsiasi tasso di interesse di
mercato, in questo senso contenenti una forma di
“regalo” finanziario – e quelli che avrebbero percepito
una pensione pienamente contributiva, di fatto
l’equivalente finanziario-attuariale di quanto versato
nel corso della vita lavorativa.
E così per i contributivi pieni
erano previste almeno tre importanti differenze:
potevano maturare il diritto alla
pensione con soli 5 anni di contribuzione (contro i 20
anni almeno richiesti a chi avrebbe fruito in qualche
modo del citato regalo finanziario);
potevano scegliere l’età di
pensionamento in un range compreso tra i 57 ed i 65
anni, scontando ovviamente un trattamento più basso,
agganciato alle aspettative di vita, cioè all’eventuale
maggiore fruizione temporale della pensione.
non si applicava l’integrazione del
trattamento al minimo Inps.
Era talmente chiara questa
differenza di contesto che era lasciata anche ai
retributivi ed ai misti (cioè a quelli che avrebbero
beneficiato del “regalo pro-rata”) la facoltà di optare
per una pensione pienamente contributiva e di poter
andare in pensione nel citato range di età, per motivi
legati a preferenze personali o particolari condizioni
nel mercato del lavoro (ad es. un’espulsione prematura
giudicata non superabile)2.
Per i retributivi ed i misti,
invece, furono lasciate complesse regole di accesso al
pensionamento, in successiva e continua evoluzione in
senso restrittivo, che però lasciavano inalterato il
meccanismo di calcolo della pensione sganciato dai
criteri attuariali-finanziari. La logica era
altrettanto chiara: se vuoi accedere ad un trattamento
di favore, a carico del bilancio pubblico, ti poniamo
vincoli, in termini di età e/o di contribuzione minima,
che attenuino il costo pubblico di questo vantaggio.
Negli anni successivi alla riforma
Dini sono state apportate numerose modifiche, di
dettaglio e di logica del sistema, che è impossibile
riportare qui; ma è importante richiamare il fatto che
sono stati rimossi essenziali corollari logici del
contributivo pieno (innalzamento dell’età minima di
pensionamento e/o degli anni minimi di contribuzione).
E’ con queste premesse che appare
più agevole giudicare diversi aspetti fondanti della
recente riforma previdenziale.
In primo luogo, anche se questo
aspetto è stato finora quasi ignorato, ai contributivi
pieni (cioè a coloro che con la previdenza pubblica
imitano le logiche di un fondo previdenziale o di un
sistema a capitalizzazione effettiva) vengono imposti:
un intervallo di scelta dell’età di
pensionamento più restrittivo, dai 63 ai 70 anni -
soggetto peraltro ad ulteriori vincoli di minimo
trattamento maturato (2,8 volte l’assegno sociale per
pensionarsi da 63 a 66 anni, 1,5 volte oltre i 66 anni),
oltre che a più stringenti aumenti dell’età legati
all’evolvere delle aspettative di vita.
un minimo di 20 anni di
contribuzione per acquisire il diritto alla pensione
(tale vincolo era di almeno 5 anni ed una pensione
maturata di almeno 1,2 volte l’assegno sociale con la
riforma Dini, ma era stato poi modificato
progressivamente fino a 36 anni di contributi per
pensionarsi a 61-62 anni, oppure a 5 anni di contributi
con 66 anni di età).
Si tratta evidentemente della
conferma – nella maggior parte dei casi perfino
dell’accentuazione - di uno stravolgimento dell’impianto
contributivo-attuariale del sistema di riferimento a
regime che non trova giustificazione coerente se non in
future esigenze di cassa per far fronte ad uno
squilibrio previdenziale (la famosa “gobba”) dovuto ai
numerosi e generosi trattamenti retributivi e misti, del
passato e in maturazione per i prossimi anni: a fronte
di un trattamento sostanzialmente pari ai versamenti
effettuati, al lavoratore contribuente vengono
confermati e rafforzati forti vincoli alle proprie
scelte, che in qualche caso ripropongono il vecchio
“storno” dei propri accantonamenti previdenziali a
favore di altri utilizzi. Cosa succederà infatti al
lavoratore precario che accumulerà complessivamente meno
di 20 anni di contribuzione? E con quale logica il
trattamento fruibile dai 63 ai 66 anni, calcolato
rigorosamente senza i “regali” del passato (e del
presente e futuro), viene negato a chi ha meno di 2,8
volte l’assegno sociale?
Per quanto riguarda le pensioni ex
retributive e miste, l’accesso al pensionamento sarà
possibile dai 66-67 anni in poi (a meno che siano
maturati 42 anni di contribuzione). In questo caso,
secondo la logica qui proposta, i forti vincoli posti al
pensionamento (nel 2012 l’età per andare in pensione di
anzianità sarebbe stata di fatto pari a 61 anni) sono
giustificabili con la maggior pensione percepita
rispetto a quanto versato, ed appaiono perciò coerenti
con il desiderato azzeramento del deficit pubblico a
breve3.
Tuttavia, nel contesto di una
scelta tra l’approccio rigido (o “paternalistico”) e
quello flessibile, anche in questo caso si sarebbe
potuto centrare i vincoli di finanza pubblica seguendo
un approccio più flessibile e più “equo”, in senso
attuariale e intergenerazionale. Sarebbe bastato
infatti seguire appieno la logica di opportune riduzioni
di importo legate all’età di pensionamento - peraltro
introdotte in forma attenuata con il decalage dell’1%
per ogni anno antecedente i 62 anni di età per i
pensionamenti con almeno 42 anni di contribuzione – per
avvicinare i trattamenti pensionistici retributivi e
misti alla logica del contributivo, ed allo stesso tempo
per scoraggiare, in un contesto di flessibilità delle
scelte, l’anticipo dell’età di pensionamento. E invece
il soggetto ex retributivo o misto che andrà in pensione
a 67 anni lo farà beneficiando comunque del citato
regalo finanziario connesso all’aggancio del trattamento
alle ultime retribuzioni a prescindere dall’entità dei
contributi versati (pur attenuato dalla maggiore età di
pensionamento e dall’introduzione del calcolo
contributivo pro rata).
Si noti che l’approccio
paternalistico al sistema pensionistico e l’attenzione
alle esigenze di cassa, che escono confermati e
rafforzati da questa riforma, non hanno effetti solo
sulle pur rispettabili diverse scelte ed esigenze di
vita, ma anche su un mercato del lavoro che, in un
contesto di globalizzazione e competizione spinti,
tenderà probabilmente ad espellere gli ultracinquantenni
con maggiore frequenza di quanto avvenga già ora4.
L’aver continuato ad impedire l’opzione per il
contributivo pieno, cioè per un trattamento inferiore e
senza regali, ma con età ben inferiori ai 66-67 anni
previsti, esporrà segmenti non irrilevanti del mercato
del lavoro a restare senza retribuzione e senza pensione
per un notevole numero di anni a condizioni
difficilmente sostenibili5.
Un’ultima considerazione di rilievo
è che con queste regole, specie quelle riservate ai
contributivi pieni, un fondo di previdenza privato, che
a fronte di strette regole attuariali lascia ampie
scelte al sottoscrittore ed è caratterizzato da forti
agevolazioni fiscali, risulta in molti casi preferibile
a quello pubblico, con le inevitabili ripercussioni in
termini di evasione o elusione contributiva.
Di questi problemi, e delle
dolorose scelte effettuate, il decisore politico sembra
essere pienamente consapevole: nel comma 28 dell’art.24
del DL 201 si prevede infatti una Commissione volta ad
esplorare “possibili ed ulteriori forme di gradualità
nell’accesso al trattamento pensionistico determinato
secondo il metodo contributivo rispetto a quelle
previste dal presente decreto … funzionali a scelte di
vita individuali, anche correlate alle dinamiche del
mercato del lavoro”. Resta solo da sperare che in
questo caso non viga il proverbio che “quando non si
vuole risolvere un problema, lo si affida ad una
Commissione”.
1. Come pur in un diverso contesto
logico ricordava Beltrametti su nel merito.com del 9
dicembre scorso: “una riforma seria ed equa non può
produrre risparmi immediati; risparmi nel breve periodo
si possono ottenere solo tradendo qualche aspettativa
ormai fortemente radicata”. Ma i forti condizionamenti
delle esigenze di bilancio permeavano anche i commenti
di Faioli (nel merito.com del 9-dic-2011) e Gronchi (la
voce.info del 6-dic-2011).
2. Si noti che quest’ultima
opzione per il contributivo pieno fu successivamente
rimossa, sempre nell’affannoso tentativo di far cassa,
con una delle riforme dell’ultimo decennio.
3. Nel medio periodo, infatti, chi
è stato costretto a posticipare l’età di pensionamento
fruirà di una maggior pensione, calcolata con il
favorevole metodo misto anche in base agli anni di
contribuzione.
4. Né convince l’assunzione
implicita che la maggiore aspettativa di sopravvivenza
comporti un’uguale maggiore vita lavorativa in
condizioni di efficiente produttività.
5. Anche l’auspicata riforma degli
ammortizzatori sociali, messa in agenda dal Governo in
carica, come dai precedenti, non modificherebbe
sostanzialmente questo rischio, stante la condivisa
filosofia di flexicurity, che assicurerebbe un sussidio
(probabilmente decrescente) per due o tre anni. |