Nel merito.it
Stiamo attraversando un passaggio
cruciale, che modificherà non solo la rappresentanza
politica, ma anche le modalità di produzione e
ridistribuzione del reddito, e l’offerta di beni
pubblici. Condivido il proposito di Grillo e Silva di
delineare un nuovo patto sociale. Ma quali debbono
esserne gli elementi costitutivi? E soprattutto, quali
sono i costi sociali del nuovo patto?
Grillo e Silva1 suggeriscono che il
nucleo del nuovo patto sociale dovrebbe essere
costituito da due elementi: rapido allungamento della
vita lavorativa e tassazione sui patrimoni. Questi due
interventi rafforzerebbero la “dimensione assicurativa”
del patto sociale, offrendo una soluzione agli
accresciuti rischi dell’attività economica causati dalla
globalizzazione. Inoltre, l’immediato e generalizzato
allungamento della vita lavorativa aumenterebbe la
competitività del sistema produttivo italiano. Infatti,
aumentando l’età di pensionamento degli individui si
possono ridurre i versamenti contributivi, e quindi il
costo del lavoro, senza intaccare i trattamenti ricevuti
dai pensionati.
Pur provando simpatia per il loro
proposito, trovo difficile condividere la loro scelta di
ancorare il nuovo patto sociale a un nuovo radicale
intervento sul sistema pensionistico e all’introduzione
della tassazione patrimoniale. Le mie osservazioni hanno
a che fare sia con la praticabilità politica delle loro
proposte, che con la loro desiderabilità ai fini della
ristrutturazione e della crescita del sistema economico
italiano.
Affronto per primo il tema che
conosco relativamente meglio: il sistema pensionistico.
La loro proposta di un intervento così radicale da
trasformare la previdenza da costoso sistema collettivo
di assicurazione della vecchiaia a leva di supporto
della competitività nazionale è originale e
istintivamente accattivante. Ma potrebbe funzionare
soltanto a due condizioni. Innanzitutto, alla riduzione
dei contributi previdenziali dovrebbe corrispondere una
pari e immediata riduzione del costo del lavoro
unitario, a parità di retribuzione diretta unitaria. In
secondo luogo, i requisiti anagrafici e contributivi di
pensionamento andrebbero tutti e immediatamente
incrementati, sacrificando ogni residuo spazio per la
determinazione individuale dei tempi di ritiro dal
lavoro e di erogazione del trattamento pensionistico
pubblico. In assenza di entrambe queste condizioni
l’intervento assumerebbe un carattere molto diverso da
quello prospettato. Se si riducessero i contributi e si
trasferissero un pari ammontare di risorse ai
lavoratori, non si produrrebbe alcun aumento della
competitività del sistema produttivo, almeno
nell’immediato. D’altra parte, se non si aumentassero
forzosamente e per tutti i requisiti di pensionamento si
creerebbe un forte disequilibrio tra entrate e uscite
del sistema previdenziale pubblico, vanificando di fatto
il proposito di rafforzamento della competitività del
sistema produttivo. Inoltre, se i contributi si
riducessero senza un pari aumento dei requisiti di
pensionamento, si creerebbero le condizioni di una
riduzione del peso della previdenza pubblica, in favore
di un probabile sviluppo della previdenza privata, sia
in forma individuale che collettiva. Ma non sembra
questo l’obiettivo della proposta.
Realizzare le due condizioni sopra
descritte creerebbe conflitti sociali facilmente
immaginabili. Si tratta di convincere gli individui ad
accettare un modello di distribuzione del tempo della
propria vita tra lavoro e riposo deciso politicamente e
con pochissimi elementi di flessibilità. Tutto questo
dovrebbe essere accettato non semplicemente per
adeguarsi a indicazioni politiche europee e uniformarsi
a orientamenti comuni, imposti dalle dinamiche
demografiche. L’obiettivo del progetto, infatti, è
proprio quello di anticipare e andare oltre gli
orientamenti degli altri paesi europei e fondare la
rinnovata competitività e coesione del nostro sistema
produttivo e sociale su un immediato incremento dei
tempi di lavoro, al di là di quanto stia già avvenendo
negli altri paesi nostri competitori.
Ma al di là dei dubbi sulla
praticabilità politica di una proposta così
rivoluzionaria, la questione che vorrei porre è
un’altra. Ma è veramente di questo che abbiamo bisogno?
Per rifondare il patto sociale, rafforzare la
competitività, rilanciare la crescita non sarebbe meglio
affrontare innanzitutto le cause della attuale
situazione critica. E quali sono queste cause? E da dove
originano i nostri problemi attuali? Delineare alcune
risposte a queste domande mi permetterà di aggiungere
qualche considerazione finale a proposito del secondo
basilare elemento del patto sociale proposto da Grillo e
Silva: l’imposta patrimoniale.
Per suggerire risposte a quesiti
talmente impegnativi, mi avvalgo con gratitudine di un
paio di interventi comparsi recentemente. Parto dal
breve saggio di Michele Salvati2 che esprime una visione
molto netta sull’origine della crisi e del ristagno
economico italiano. La fonte dei nostri problemi non va
cercata nell’inerzia politica degli ultimi quindici
anni, e nemmeno nei guasti prodotti dall’ultima stagione
della Prima Repubblica. Anche se il debito pubblico
esplode negli anni ottanta, i presupposti della sua
crescita vanno ricercati negli anni settanta, gli anni
del centro-sinistra. È la stessa tesi che sostenevano
Giavazzi e Spaventa qualche anno fa3. All’inizio degli
anni settanta vengono realizzate grandi riforme sociali,
che hanno configurato lo stato sociale italiano nei
decenni successivi: l’innalzamento dell’età scolastica,
la riorganizzazione del sistema ospedaliero,
l’ancoraggio dei trattamenti pensionistici alla crescita
delle retribuzioni. La realizzazione di quelle riforme
crea un disequilibrio nelle finanze pubbliche, che non
viene mai più colmato, nonostante le riforme fiscali
realizzate a partire dalla metà degli anni settanta. In
definitiva, all’origine dei problemi odierni c’è
l’incapacità di auto-finanziare un moderno stato sociale
di tipo europeo.
E come è possibile che una crisi
fiscale che risale a 40 anni fa si sia trasformata
nell’attuale ristagno del sistema produttivo? Su questo
sono illuminanti le riflessioni sviluppate su questo
sito da Roberto Tamborini4, che pone l’accento su tre
cause tra loro concatenate: esplosiva combinazione di
eccesso di pressione fiscale ed evasione endemica, stato
primitivo del settore dei servizi, nanismo delle imprese
italiane associato a scarsa attitudine imprenditoriale
di molti dei loro titolari. Dall’analisi di Tamborini
emerge che il sistema produttivo ha bisogno di un
urgente processo di ristrutturazione, che induca la
selezione delle imprese o dei sistemi di imprese
migliori e che li aiuti a rafforzarsi e crescere.
In definitiva, le analisi di
Salvati e Tamborini evidenziano la centralità della
questione fiscale. La diffusa evasione e la diseguale
distribuzione del carico fiscale tra le imprese
contribuiscono a spiegare la crescita del debito, ma
anche l’inefficienza e l’inadeguato sviluppo di interi
settori del nostro apparato produttivo, e quindi il
ristagno economico. In definitiva, la ristrutturazione
del sistema produttivo è la priorità: elemento
essenziale, anche se non esclusivo, di questo progetto è
l’eradicazione dell’evasione fiscale.
Sotto questo profilo l’introduzione
di norme che rendano ordinaria l’attività amministrativa
di raccolta e incrocio delle informazioni sulle imprese
a fini fiscali e che scoraggino l’uso del contante
assume una connotazione molto netta: la fine
dell’evasione è soprattutto una essenziale condizione
per uscire dal ristagno, avviare una fase di
ristrutturazione, recuperare la crescita economica.
Ma se questa è la prospettiva,
allora l’obiettivo di rilanciare la crescita rischia di
cozzare con l’introduzione di una patrimoniale,
soprattutto nel caso di una patrimoniale straordinaria.
Per chiarire questo punto occorre partire con il
sottolineare che l’eradicazione dell’evasione fiscale ha
considerevoli costi. L’opera di occultamento di guadagni
e compensi ha sì permesso ad alcuni di accumulare
considerevoli fortune, ma per moltissime imprese rimane
la condizione necessaria per la loro sopravvivenza.
Combattere l’evasione significa provocare la chiusura di
quelle imprese e costringere una grande quantità di
soggetti a modificare la loro attività economica. Tutto
questo ha rilevanti costi sociali, così come ogni
progetto di ristrutturazione dell’apparato produttivo.
Proprio per la presenza di tali
costi, è necessario un nuovo patto sociale per la
crescita, che abbia al centro la questione fiscale. E
qui mi ricollego finalmente alla proposta di Grillo e
Silva di affidare un ruolo preminente nel nuovo patto
sociale alla tassazione patrimoniale. La mia tesi è che
il nuovo patto sociale non possa fondarsi
contemporaneamente sull’eradicazione dell’evasione e
sulla tassazione patrimoniale, soprattutto se
straordinaria. La mia argomentazione si basa sul
presupposto che negli ultimi decenni si sia determinata
una concentrazione patrimoniale fra coloro che erano
coinvolti nel diffuso fenomeno dell’evasione fiscale.
Non mi riferisco qui soltanto a chi ha usato l’evasione
per aumentare un reddito che sarebbe stato comunque
notevole, ma soprattutto a coloro la cui impresa
sopravvive soltanto grazie all’evasione. Costoro, non
avendo contribuito al finanziamento del sistema pubblico
di protezione sociale, hanno necessariamente accumulato
patrimoni per provvedere privatamente alla loro
vecchiaia.
Ora, fondare il nuovo patto sociale
per la crescita sia sull’eradicazione dell’evasione che
sull’introduzione di una tassazione patrimoniale,
soprattutto se straordinaria, significherebbe colpire
due volte gli stessi soggetti. Questo renderebbe il
nuovo patto molto più costoso per alcuni. Inoltre,
ridurrebbe la loro capacità di adattarsi al necessario
processo di ristrutturazione produttiva o ritirandosi
definitivamente dall’attività lavorativa, oppure
investendo per il rilancio della loro attività su basi
più solide. Tutto ciò, indebolirebbe la praticabilità
economica, sociale e anche politica del processo di
ristrutturazione.
In sintesi, il nostro apparato
produttivo ha bisogno di una profonda ristrutturazione
per recuperare efficienza, competitività e capacità di
crescita. La via maestra in questa direzione conduce
alla questione fiscale e all’eradicazione della
evasione. Farsi carico dei costi sociali di un tale
ambizioso progetto di ristrutturazione produttiva
sconsiglia di porre al centro del nuovo patto sociale la
tassazione patrimoniale, soprattutto se straordinaria.
In due parole, dobbiamo scegliere se vogliamo eliminare
l’evasione fiscale futura e rilanciare la crescita,
oppure tassare i frutti dell’evasione passata.
1. Michele Grillo e Francesco
Silva, Le condizioni di un nuovo patto sociale,
nelmerito.com, 18 novembre 2011.
2. Michele Salvati, Tre pezzi
facili; Bologna, il Mulino; 2011
3. Francesco
Giavazzi, Luigi Spaventa, “Italy: The real effect of
inflation and disinflation”, Economic Policy 8; 1988.
4. Roberto Tamborini, Il naufragio,
nel merito.com, 17 giugno 2011. |