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PENSIONI: UNA RIFORMA DELUDENTE-di Mariano Di Trolio

 

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Il progetto di riforma delle pensioni del ministro Elsa Fornero evidenzia più di una criticità. Innanzitutto c’è da rilevare che l’impianto generale dell’intervento mostra notevoli differenze rispetto all’impostazione più volte avanzata dalla nota studiosa. Tali difformità, evidentemente, sono una conseguenza della situazione di emergenza in cui il nuovo ministro si è trovato ad operare.

 

Il rischio default dei conti pubblici ha portato al rapido cedimento alle pressioni e ai diktat dell’Unione europea che chiedevano soltanto misure tese ad ottenere l’aumento dell’età pensionabile e consistenti, per quanto solo contingenti, risparmi di spesa.

 

Gli aspetti più problematici dell’intervento riformatore sembrano i seguenti:

 

1) le pensioni di vecchiaia: l’intervallo flessibile di uscita dal mercato del lavoro (62-70 anni per le donne, destinato ad uniformarsi entro il 2018 a quello dell’altro sesso, e 66-70 per gli uomini con almeno 20 anni di contributi effettivi ed un reddito pari ad almeno 1,5 volte l’importo mensile dell’assegno sociale) appare troppo penalizzante rispetto, ad esempio, a quello stabilito dall’ottimo sistema svedese (61-67 anni).

Ad avviso di chi scrive sarebbe stato molto più adeguata l’ipotesi avanzata dal Cerp (Center of Research on pensions and Welfare policies), il gruppo di ricerca guidato dalla stessa ministra Fornero, che, in una sua proposta di riforma del sistema previdenziale1, ipotizzava un altro range (63-68/70 anni con almeno 5 anni di contributi effettivi). L’individuazione di un’età minima con cui andare in pensione può essere accettabile in un contesto in cui si vive sempre più a lungo. Tuttavia, quando il sistema contributivo sarà pienamente operativo, se saranno apportate le necessarie correzioni attuariali, si otterrà in termini di prestazioni pensionistiche esattamente ciò che è stato versato durante la vita lavorativa in termini di Contributi. Dunque, il momento in cui andare in pensione sarà, ai fini della tenuta finanziaria del sistema, del tutto irrilevante. Inoltre, l'aumento obbligatorio dell’età pensionabile ha effetti regressivi in quanto chi ha redditi più bassi tende ad avere un’aspettativa di vita minore2. Pertanto, un aumento così radicale dell’età minima pensionabile, seppure a fronte dell’introduzione di un meccanismo flessibile di uscita, tende a sfavorire i ceti meno abbienti. Ancora: le aziende tendono a liberarsi dei lavoratori più anziani e, pertanto, più che preoccuparsi in modo quasi ossessivo dell’età legale di uscita ci si dovrebbe interessare di quella effettiva. Quest’ultima osservazione implica un’ulteriore, grave, conseguenza degli interventi approvati: molte persone si troveranno, a causa della ‘brutalità’ con cui entreranno in vigore le nuove disposizioni (la cui entità è soltanto ‘scalfita’ dagli ultimi emendamenti approvati che prevedono deroghe alla regola generale per i dipendenti e le donne del settore privato che maturano, entro il 31 dicembre 2012, i requisiti per il pensionamento secondo le regole previgenti alla riforma Monti-Fornero), a 57-58 anni senza lavoro e saranno costretti ad attendere anche 8-9 anni prima di percepire la pensione. Per tali casi non sono state studiate soluzioni ad hoc.

 

2) La deindicizzazione, totale e parziale, delle pensioni che ha causato le lacrime, certamente autentiche, della ministra è l’aspetto più inaccettabile di tutta la manovra previdenziale. Tale giudizio resta invariato anche in considerazione delle ultime misure approvate che tendono ad attenuare gli inevitabili effetti sociali che derivano dalla riforma. Si tratta di un intervento del tutto iniquo per tutta una serie di ragioni, evidenziate da Luca Beltrametti in un suo recente contributo pubblicato in questa rivista3, tra cui spicca l’impossibilità per le persone interessate di variare la propria offerta di lavoro per ovviare alla riduzione del reddito reale e l’assenza di progressività. La misura inoltre, così com’è strutturata, può causare, come rilevato da Clara Busana e Antonio Salera4, “fenomeni di re-ranking”. In pratica, chi ha una pensione più elevata senza inflazione si potrebbe trovare, anche solo per un euro in più, ad essere più povero di chi invece si trova nella fascia protetta, se l’inflazione si verifica. L’intervento inoltre non è strutturale (interessa solo il biennio 2012-2013) e serve solo per “fare cassa”. Tradisce le stesse convinzioni, più volte manifestate, dall’allora ‘soltanto’ studiosa Elsa Fornero. Anche qui, per esplicita ammissione della stessa, ha avuto un peso rilevante l'azione di vincolo esterno esercitata dall'Ue. Le conseguenze regressive di un simile intervento sono facilmente prevedibili: un’ulteriore depressione della domanda e l’inasprirsi di un circolo vizioso determinato dal crollo di consumi, produzione e occupazione. Tratto quest’ultimo che, purtroppo, caratterizza la gran parte del “pacchetto Monti”. Il rigore prevale decisamente sulle misure per la crescita. Queste non sembrano le premesse per creare quel lavoro che, ad opinione del ministro Fornero e su cui si è assolutamente d’accordo, è l’unica leva in grado di consentire nel lungo periodo l’erogazione di pensioni dignitose ed adeguate.

La riforma delle pensioni è dunque inscindibilmente legata a quella del mercato del lavoro, così come ha affermato, tra gli altri, Michele Faioli in un suo recente intervento su questa rivista5. L’autore, in modo del tutto condivisibile, chiarisce che l’unico modo di garantire pensioni dignitose è quello di assicurare un lavoro dignitoso e, si aggiunge, stabile e di qualità. Ad avviso di chi scrive tale obiettivo può essere raggiunto soltanto con un nuovo slancio del progetto comunitario6 che garantisca tassi di crescita ben più sostenuti di quelli registrati negli ultimi anni. Un più accelerato tasso di crescita dell’economia potrebbe essere ottenuto, così come sostenuto anche in alcuni contributi sempre qui pubblicati (a firma di M. Messori, A. Maiocchi, F. Targetti), attraverso l’emissione di obbligazioni comunitarie sulla base del progetto proposto per primo da J. Delors. Tale operazione, com’è ormai ampiamente noto, ha incontrato ed incontra tuttora la ferrea opposizione della Germania che, ad avviso di Martin Wolf7, è attualmente l’unico beneficiario netto della costruzione europea, avendo usufruito negli ultimi anni di tassi di interesse inferiori a quelli garantiti dalla Bundesbank. Necessaria appare anche una radicale riforma della Banca Centrale Europea che, come già messo in luce da autorevoli commentatori, dovrebbe ‘somigliare’ di più alla Federal Reserve. Ciò consentirebbe di ottenere tassi di interesse più bassi nel medio-lungo periodo e, per questa via, una maggiore sostenibilità del debito sovrano nazionale.  La presenza inoltre di un “prestatore di ultima istanza” porrebbe fine alla speculazione sul debito sovrano (si può vedere su questo la proposta di P. De Grauwe, D. Gros, S. Micossi). Si liberebbero, per questa via, maggiori risorse per realizzare i necessari investimenti per aumentare la competitività su base nazionale. Inoltre, il venir meno dello spettro del default, che attualmente legittima l’adozione di politiche regressive, consentirebbe, pur nel rispetto dei parametri stabiliti a Maastricht, l’attuazione di interventi espansivi in campo sociale e previdenziale. Questi sono i punti che un governo italiano autorevole, quale quello Monti certamente è, dovrebbe cercare di imporre nel dibattito comunitario. Si tratta di temi che, indipendentemente dalla posizione tedesca, non sono più eludibili. Il futuro stesso dell’euro è legato infatti, ad avviso di chi scrive, alla realizzazione di questi obiettivi.

 

3) Le pensioni anticipate. L’aumento dei contributi, da 40 a 41 e un mese per le donne, era già in essere seppure ‘nascosto’ dal bizantinismo del meccanismo delle “finestre”. Agli uomini invece viene chiesto un ulteriore sacrificio di un anno: sono infatti ora richiesti 42 anni e un mese di  contributi per ottenere la “pensione anticipata” (si ottiene la pensione piena, senza penalizzazioni per ciò che concerne la quota calcolata con il metodo retributivo, soltanto all’età di 62 anni8). Tale decisione può essere ‘sopportata’ poiché riguarda le pensioni erogate, interamente o prevalentemente, con il metodo retributivo. Infatti queste ultime hanno goduto di un rendimento assai elevato, in rapporto ai contributi versati, e dunque un piccolo sacrificio per ridurre tale ‘regalo’ (il cui costo viene lasciato in eredità alle casse del sistema previdenziale) può essere ragionevolmente accettato.

Le “pensioni anticipate” non scompariranno nemmeno quando il sistema contributivo sarà a regime. Infatti, sarà possibile andare in pensione anticipata con 63 anni di età e con 20 anni di contributi. Tuttavia, per accedere a tale forma di pensionamento, “l’ammontare mensile della prima rata di pensione [deve] essere non inferiore ad un importo soglia mensile [...] pari per l'anno 2012 a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale”9. Pertanto, soltanto chi avrà versato di più potrà andarsene prima dei limiti previsti dall’età di vecchiaia. Si condivide la ratio della norma che tende ad evitare i pensionamenti precoci e l’erogazione di pensioni eccessivamente basse (che, tra l’altro, non potrebbero essere integrate a causa dell’eliminazione già decisa dalla riforma del 1995, in ambiente contributivo, dell'istituto dell’integrazione al minimo). Tuttavia anche questa disposizione appare un limite ulteriore ad un’autentica flessibilità nell’uscita dal mercato del lavoro e, con essa, ad una piena esplicazione del principio della libertà di scelta individuale. Un lavoratore con reddito basso che perderà il lavoro, riprendendo l’esempio di sopra, a 58 anni con 20/30 anni di contributi effettivi versati avrà enormi difficoltà ad arrivare ai 63 anni ma, con i limiti introdotti, dovrà ‘resistere’ sino al compimento dei 66/67 anni (o alla soglia minima prevista nel momento in cui andrà in pensione di vecchiaia).

In conclusione, per ragioni di equità, si condivide l'estensione del pro-rata temporis a tutti. Infatti, per la prima volta rispetto al passato, come ha sostenuto Luca Beltrametti in un suo già citato contributo pubblicato su questa rivista, una manovra colpisce più duramente le generazioni anziane rispetto a quelle più giovani. Un giudizio allo stesso modo positivo può essere espresso sul contributo di solidarietà e sulla ‘stretta’ sulle casse professionali privatizzate. A proposito di queste ultime infatti si deve rilevare che esse sono caratterizzate, nella gran parte dei casi, da una situazione di insostenibilità finanziaria. Le casse privatizzate con il Decreto 509/1994 erogano infatti le prestazioni utilizzando il più ricco sistema retributivo ma non sono in grado di assicurare la sostenibilità finanziaria nel medio-lungo periodo. Molti di questi Enti, si veda ad esempio l’ultima vicenda che ha riguardato l’Enpam (l’Ente di previdenza dei medici),  evidenziano inoltre una cattiva gestione caratterizzata da operazioni finanziarie eccessivamente rischiose. Tale giudizio trova conferma nelle Indagini conoscitive della “Commissione parlamentare di controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale”10. L’ultima in ordine cronologico ha messo in luce, ad esempio, che le esposizioni indirette11 delle Casse privatizzate nei confronti di Lehman Brothers sono pari a ben il 3,42% del loro patrimonio complessivo. Per le Casse con un’esposizione indiretta si pone dunque il problema di valutare la possibilità di recuperare il capitale investito.

Una valutazione negativa viene espressa invece, come già detto, sui provvedimenti che riguardano l’aumento dell’età pensionabile e la deindicizzazione degli assegni12. Una considerazione infine la meritano le dure reazioni dei sindacati che hanno fatto seguito all’annuncio delle nuove misure di austerità. Chi scrive le condivide per larghi tratti, tuttavia non si può non ricordare l’assenza di proteste di uguale vigore ai tempi dell’introduzione della riforma Dini quando, eludendo qualsiasi principio di equità tra le generazioni, tutte le organizzazioni sindacali decisero di avallare, con lo strumento della concertazione, una riforma che, palesemente, scaricava tutti i sacrifici sulle future generazioni a difesa di presunti “diritti acquisiti”13.

 

1. Il testo integrale è disponibile al seguente link: http://cerp.unito.it/

2. Cfr. C. D’Ippoliti, L’austerità vista da sinistra, LaVoce.info del 12 aprile 2011.

3. L. Beltrametti, Gli interventi sulle pensioni, Nel Merito del 9 dicembre 2011.

4. C. Busana, A. Salera, Pensioni, previsioni, trasparenza comunicativa, Nel Merito del 9 dicembre 2011.

5. M. Faioli, Visualizing the tragic. Spunti sulla riforma pensionistica Monti-Fornero, Nel Merito del 9 dicembre 2011.

6. Si veda su questo la proposta degli economisti cosiddetti eterodossi contenuta nella Lettera degli Economisti (www.letteradeglieconomisti.it).

7. M. Wolf, La Germania dica: «danke euro», Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2010, p. 1.

8. Alcuni emendamenti in discussione propongono, dopo il ridimensionamento già deciso delle penalizzazioni, l’eliminazione di qualsiasi forma di penalizzazione per chi, avendo iniziato precocemente l’attività lavorativa, lascia il lavoro prima dei 62 anni.

9. Dl 201/2011 - Capo IV Riduzioni di spesa. Pensioni, art. 24 - Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici – comma 11.

10. Tutti i documenti prodotti da questa speciale Commissione sono disponibili al link: http://parlamento.camera.it/organismi_bicamerali/16/96/98/101/114/scheda_commissione.asp?i=10

11. Per esposizioni indirette si intendono gli investimenti in attività finanziarie nelle quali il coinvolgimento della Lehman si concretizza in forme diverse dall’essere emittente di un titolo.

12. Sulla annosa quanto complessa questione delle indicizzazioni si possono consultare i numerosi contributi sul tema di S. Gronchi. L’ultimo in ordine cronologico è S. Gronchi, Pensioni, un buon inizio. Ma c'è altro da fare, LaVoce.info del 6 dicembre 2011.

13.  Cfr. E. Fornero, Le pensioni, il Pil e il fantasma dei diritti acquisiti, Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2011, p. 8.

 

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