Nel merito.it
Il progetto di riforma delle
pensioni del ministro Elsa Fornero evidenzia più di una
criticità. Innanzitutto c’è da rilevare che l’impianto
generale dell’intervento mostra notevoli differenze
rispetto all’impostazione più volte avanzata dalla nota
studiosa. Tali difformità, evidentemente, sono una
conseguenza della situazione di emergenza in cui il
nuovo ministro si è trovato ad operare.
Il rischio default dei conti
pubblici ha portato al rapido cedimento alle pressioni e
ai diktat dell’Unione europea che chiedevano soltanto
misure tese ad ottenere l’aumento dell’età pensionabile
e consistenti, per quanto solo contingenti, risparmi di
spesa.
Gli aspetti più problematici
dell’intervento riformatore sembrano i seguenti:
1) le pensioni di vecchiaia:
l’intervallo flessibile di uscita dal mercato del lavoro
(62-70 anni per le donne, destinato ad uniformarsi entro
il 2018 a quello dell’altro sesso, e 66-70 per gli
uomini con almeno 20 anni di contributi effettivi ed un
reddito pari ad almeno 1,5 volte l’importo mensile
dell’assegno sociale) appare troppo penalizzante
rispetto, ad esempio, a quello stabilito dall’ottimo
sistema svedese (61-67 anni).
Ad avviso di chi scrive sarebbe
stato molto più adeguata l’ipotesi avanzata dal Cerp
(Center of Research on pensions and Welfare policies),
il gruppo di ricerca guidato dalla stessa ministra
Fornero, che, in una sua proposta di riforma del sistema
previdenziale1, ipotizzava un altro range (63-68/70 anni
con almeno 5 anni di contributi effettivi).
L’individuazione di un’età minima con cui andare in
pensione può essere accettabile in un contesto in cui si
vive sempre più a lungo. Tuttavia, quando il sistema
contributivo sarà pienamente operativo, se saranno
apportate le necessarie correzioni attuariali, si
otterrà in termini di prestazioni pensionistiche
esattamente ciò che è stato versato durante la vita
lavorativa in termini di Contributi. Dunque, il momento
in cui andare in pensione sarà, ai fini della tenuta
finanziaria del sistema, del tutto irrilevante. Inoltre,
l'aumento obbligatorio dell’età pensionabile ha effetti
regressivi in quanto chi ha redditi più bassi tende ad
avere un’aspettativa di vita minore2. Pertanto, un
aumento così radicale dell’età minima pensionabile,
seppure a fronte dell’introduzione di un meccanismo
flessibile di uscita, tende a sfavorire i ceti meno
abbienti. Ancora: le aziende tendono a liberarsi dei
lavoratori più anziani e, pertanto, più che preoccuparsi
in modo quasi ossessivo dell’età legale di uscita ci si
dovrebbe interessare di quella effettiva. Quest’ultima
osservazione implica un’ulteriore, grave, conseguenza
degli interventi approvati: molte persone si troveranno,
a causa della ‘brutalità’ con cui entreranno in vigore
le nuove disposizioni (la cui entità è soltanto
‘scalfita’ dagli ultimi emendamenti approvati che
prevedono deroghe alla regola generale per i dipendenti
e le donne del settore privato che maturano, entro il 31
dicembre 2012, i requisiti per il pensionamento secondo
le regole previgenti alla riforma Monti-Fornero), a
57-58 anni senza lavoro e saranno costretti ad attendere
anche 8-9 anni prima di percepire la pensione. Per tali
casi non sono state studiate soluzioni ad hoc.
2) La deindicizzazione, totale e
parziale, delle pensioni che ha causato le lacrime,
certamente autentiche, della ministra è l’aspetto più
inaccettabile di tutta la manovra previdenziale. Tale
giudizio resta invariato anche in considerazione delle
ultime misure approvate che tendono ad attenuare gli
inevitabili effetti sociali che derivano dalla riforma.
Si tratta di un intervento del tutto iniquo per tutta
una serie di ragioni, evidenziate da Luca Beltrametti in
un suo recente contributo pubblicato in questa rivista3,
tra cui spicca l’impossibilità per le persone
interessate di variare la propria offerta di lavoro per
ovviare alla riduzione del reddito reale e l’assenza di
progressività. La misura inoltre, così com’è
strutturata, può causare, come rilevato da Clara Busana
e Antonio Salera4, “fenomeni di re-ranking”. In pratica,
chi ha una pensione più elevata senza inflazione si
potrebbe trovare, anche solo per un euro in più, ad
essere più povero di chi invece si trova nella fascia
protetta, se l’inflazione si verifica. L’intervento
inoltre non è strutturale (interessa solo il biennio
2012-2013) e serve solo per “fare cassa”. Tradisce le
stesse convinzioni, più volte manifestate, dall’allora
‘soltanto’ studiosa Elsa Fornero. Anche qui, per
esplicita ammissione della stessa, ha avuto un peso
rilevante l'azione di vincolo esterno esercitata
dall'Ue. Le conseguenze regressive di un simile
intervento sono facilmente prevedibili: un’ulteriore
depressione della domanda e l’inasprirsi di un circolo
vizioso determinato dal crollo di consumi, produzione e
occupazione. Tratto quest’ultimo che, purtroppo,
caratterizza la gran parte del “pacchetto Monti”. Il
rigore prevale decisamente sulle misure per la crescita.
Queste non sembrano le premesse per creare quel lavoro
che, ad opinione del ministro Fornero e su cui si è
assolutamente d’accordo, è l’unica leva in grado di
consentire nel lungo periodo l’erogazione di pensioni
dignitose ed adeguate.
La riforma delle pensioni è dunque
inscindibilmente legata a quella del mercato del lavoro,
così come ha affermato, tra gli altri, Michele Faioli in
un suo recente intervento su questa rivista5. L’autore,
in modo del tutto condivisibile, chiarisce che l’unico
modo di garantire pensioni dignitose è quello di
assicurare un lavoro dignitoso e, si aggiunge, stabile e
di qualità. Ad avviso di chi scrive tale obiettivo può
essere raggiunto soltanto con un nuovo slancio del
progetto comunitario6 che garantisca tassi di crescita
ben più sostenuti di quelli registrati negli ultimi
anni. Un più accelerato tasso di crescita dell’economia
potrebbe essere ottenuto, così come sostenuto anche in
alcuni contributi sempre qui pubblicati (a firma di M.
Messori, A. Maiocchi, F. Targetti), attraverso
l’emissione di obbligazioni comunitarie sulla base del
progetto proposto per primo da J. Delors. Tale
operazione, com’è ormai ampiamente noto, ha incontrato
ed incontra tuttora la ferrea opposizione della Germania
che, ad avviso di Martin Wolf7, è attualmente l’unico
beneficiario netto della costruzione europea, avendo
usufruito negli ultimi anni di tassi di interesse
inferiori a quelli garantiti dalla Bundesbank.
Necessaria appare anche una radicale riforma della Banca
Centrale Europea che, come già messo in luce da
autorevoli commentatori, dovrebbe ‘somigliare’ di più
alla Federal Reserve. Ciò consentirebbe di ottenere
tassi di interesse più bassi nel medio-lungo periodo e,
per questa via, una maggiore sostenibilità del debito
sovrano nazionale. La presenza inoltre di un
“prestatore di ultima istanza” porrebbe fine alla
speculazione sul debito sovrano (si può vedere su questo
la proposta di P. De Grauwe, D. Gros, S. Micossi). Si
liberebbero, per questa via, maggiori risorse per
realizzare i necessari investimenti per aumentare la
competitività su base nazionale. Inoltre, il venir meno
dello spettro del default, che attualmente legittima
l’adozione di politiche regressive, consentirebbe, pur
nel rispetto dei parametri stabiliti a Maastricht,
l’attuazione di interventi espansivi in campo sociale e
previdenziale. Questi sono i punti che un governo
italiano autorevole, quale quello Monti certamente è,
dovrebbe cercare di imporre nel dibattito comunitario.
Si tratta di temi che, indipendentemente dalla posizione
tedesca, non sono più eludibili. Il futuro stesso
dell’euro è legato infatti, ad avviso di chi scrive,
alla realizzazione di questi obiettivi.
3) Le pensioni anticipate.
L’aumento dei contributi, da 40 a 41 e un mese per le
donne, era già in essere seppure ‘nascosto’ dal
bizantinismo del meccanismo delle “finestre”. Agli
uomini invece viene chiesto un ulteriore sacrificio di
un anno: sono infatti ora richiesti 42 anni e un mese
di contributi per ottenere la “pensione anticipata” (si
ottiene la pensione piena, senza penalizzazioni per ciò
che concerne la quota calcolata con il metodo
retributivo, soltanto all’età di 62 anni8). Tale
decisione può essere ‘sopportata’ poiché riguarda le
pensioni erogate, interamente o prevalentemente, con il
metodo retributivo. Infatti queste ultime hanno goduto
di un rendimento assai elevato, in rapporto ai
contributi versati, e dunque un piccolo sacrificio per
ridurre tale ‘regalo’ (il cui costo viene lasciato in
eredità alle casse del sistema previdenziale) può essere
ragionevolmente accettato.
Le “pensioni anticipate” non
scompariranno nemmeno quando il sistema contributivo
sarà a regime. Infatti, sarà possibile andare in
pensione anticipata con 63 anni di età e con 20 anni di
contributi. Tuttavia, per accedere a tale forma di
pensionamento, “l’ammontare mensile della prima rata di
pensione [deve] essere non inferiore ad un importo
soglia mensile [...] pari per l'anno 2012 a 2,8 volte
l’importo mensile dell’assegno sociale”9. Pertanto,
soltanto chi avrà versato di più potrà andarsene prima
dei limiti previsti dall’età di vecchiaia. Si condivide
la ratio della norma che tende ad evitare i
pensionamenti precoci e l’erogazione di pensioni
eccessivamente basse (che, tra l’altro, non potrebbero
essere integrate a causa dell’eliminazione già decisa
dalla riforma del 1995, in ambiente contributivo,
dell'istituto dell’integrazione al minimo). Tuttavia
anche questa disposizione appare un limite ulteriore ad
un’autentica flessibilità nell’uscita dal mercato del
lavoro e, con essa, ad una piena esplicazione del
principio della libertà di scelta individuale. Un
lavoratore con reddito basso che perderà il lavoro,
riprendendo l’esempio di sopra, a 58 anni con 20/30 anni
di contributi effettivi versati avrà enormi difficoltà
ad arrivare ai 63 anni ma, con i limiti introdotti,
dovrà ‘resistere’ sino al compimento dei 66/67 anni (o
alla soglia minima prevista nel momento in cui andrà in
pensione di vecchiaia).
In conclusione, per ragioni di
equità, si condivide l'estensione del pro-rata temporis
a tutti. Infatti, per la prima volta rispetto al
passato, come ha sostenuto Luca Beltrametti in un suo
già citato contributo pubblicato su questa rivista, una
manovra colpisce più duramente le generazioni anziane
rispetto a quelle più giovani. Un giudizio allo stesso
modo positivo può essere espresso sul contributo di
solidarietà e sulla ‘stretta’ sulle casse professionali
privatizzate. A proposito di queste ultime infatti si
deve rilevare che esse sono caratterizzate, nella gran
parte dei casi, da una situazione di insostenibilità
finanziaria. Le casse privatizzate con il Decreto
509/1994 erogano infatti le prestazioni utilizzando il
più ricco sistema retributivo ma non sono in grado di
assicurare la sostenibilità finanziaria nel medio-lungo
periodo. Molti di questi Enti, si veda ad esempio
l’ultima vicenda che ha riguardato l’Enpam (l’Ente di
previdenza dei medici), evidenziano inoltre una cattiva
gestione caratterizzata da operazioni finanziarie
eccessivamente rischiose. Tale giudizio trova conferma
nelle Indagini conoscitive della “Commissione
parlamentare di controllo sull’attività degli enti
gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza
sociale”10. L’ultima in ordine cronologico ha messo in
luce, ad esempio, che le esposizioni indirette11 delle
Casse privatizzate nei confronti di Lehman Brothers sono
pari a ben il 3,42% del loro patrimonio complessivo. Per
le Casse con un’esposizione indiretta si pone dunque il
problema di valutare la possibilità di recuperare il
capitale investito.
Una valutazione negativa viene
espressa invece, come già detto, sui provvedimenti che
riguardano l’aumento dell’età pensionabile e la
deindicizzazione degli assegni12. Una considerazione
infine la meritano le dure reazioni dei sindacati che
hanno fatto seguito all’annuncio delle nuove misure di
austerità. Chi scrive le condivide per larghi tratti,
tuttavia non si può non ricordare l’assenza di proteste
di uguale vigore ai tempi dell’introduzione della
riforma Dini quando, eludendo qualsiasi principio di
equità tra le generazioni, tutte le organizzazioni
sindacali decisero di avallare, con lo strumento della
concertazione, una riforma che, palesemente, scaricava
tutti i sacrifici sulle future generazioni a difesa di
presunti “diritti acquisiti”13.
1. Il testo integrale è disponibile
al seguente link: http://cerp.unito.it/
2. Cfr. C. D’Ippoliti, L’austerità
vista da sinistra, LaVoce.info del 12 aprile 2011.
3. L. Beltrametti, Gli interventi
sulle pensioni, Nel Merito del 9 dicembre 2011.
4. C. Busana, A. Salera, Pensioni,
previsioni, trasparenza comunicativa, Nel Merito del 9
dicembre 2011.
5. M. Faioli,
Visualizing the tragic. Spunti sulla riforma
pensionistica Monti-Fornero, Nel Merito del 9 dicembre
2011.
6. Si veda su questo la proposta
degli economisti cosiddetti eterodossi contenuta nella
Lettera degli Economisti
(www.letteradeglieconomisti.it).
7. M. Wolf, La Germania dica: «danke
euro», Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2010, p. 1.
8. Alcuni emendamenti in
discussione propongono, dopo il ridimensionamento già
deciso delle penalizzazioni, l’eliminazione di qualsiasi
forma di penalizzazione per chi, avendo iniziato
precocemente l’attività lavorativa, lascia il lavoro
prima dei 62 anni.
9. Dl 201/2011 - Capo IV Riduzioni
di spesa. Pensioni, art. 24 - Disposizioni in materia di
trattamenti pensionistici – comma 11.
10. Tutti i documenti prodotti da
questa speciale Commissione sono disponibili al link:
http://parlamento.camera.it/organismi_bicamerali/16/96/98/101/114/scheda_commissione.asp?i=10
11. Per esposizioni indirette si
intendono gli investimenti in attività finanziarie nelle
quali il coinvolgimento della Lehman si concretizza in
forme diverse dall’essere emittente di un titolo.
12. Sulla annosa quanto complessa
questione delle indicizzazioni si possono consultare i
numerosi contributi sul tema di S. Gronchi. L’ultimo in
ordine cronologico è S. Gronchi, Pensioni, un buon
inizio. Ma c'è altro da fare, LaVoce.info del 6 dicembre
2011.
13. Cfr. E. Fornero, Le pensioni,
il Pil e il fantasma dei diritti acquisiti, Il Sole 24
Ore, 14 marzo 2011, p. 8. |