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Il contratto psicologico è definito
come “un accordo implicito, non scritto, che racchiude
l’insieme delle reciproche aspettative tra
l’organizzazione e i suoi membri” ( Tosi-Pilati), esso
viene ad essere complementare con il contratto formale
ed esplicito sottoscritto dal lavoratore, acquista
quindi la funzione di completamento degli elementi di
scambio tra le parti.
Nelle aspettative vi è qualcosa di
più della retribuzione in relazione alla quantità di
lavoro svolto in una determinata posizione, vi sono
l’insieme di speranze nello svilupparsi del rapporto nel
tempo secondo determinati obblighi e diritti.
Questo particolare contratto non
scritto è continuamente e informalmente rinegoziato tra
le parti durante tutta la vita professionale e su di
esso si fondano le aspettative della pianificazione
esistenziale dell’individuo, ciò comporta che vi sono
comunque dei limiti entro cui può agire l’autorità
restando legittima, oltre questi confini vi è un
disconoscimento e la parte sente di avere subito un
abuso.
Il superamento del confine
trasforma l’autorità fondata sul contratto psicologico
in un “potere” che si auto-legittima e attraverso l’uso
della forza “estorce” l’acquiescenza, esso cerca di
determinare qual è la verità nell’organizzazione e ne
definisce la politica.
Il confine è innanzitutto un
fattore culturale, l’espressione di ciò che è
accettabile in una determinata cultura che dall’esterno
si riflette nella cultura organizzativa interna, il
mutare di tale rapporto culturale crea una possibile
scissione nei soggetti coinvolti dall’impegno preso.
Il diritto acquisito riflette e
cristallizza giuridicamente l’aspettativa che si crea
nel contratto psicologico, il quale tuttavia è in
divenire, si crea quindi un rapporto fondato su una
serie di “fasi di aspettativa” che si sovrappongono fra
di loro.
Se l’aspettativa nel contratto
psicologico riguarda l’aspetto più propriamente
psicologico nell’organizzazione del rapporto di lavoro,
questi può venire a configgere con l’altro aspetto
aziendalistico, quello economico - ragioneristico, in
altre parole della sua sostenibilità nel tempo in
termini di cassa.
Qui rientrano le responsabilità di
politica organizzativa, di coloro che avendone le
possibilità, per incuria o altro, nel creare le
aspettative su cui si fonda la parte non scritta del
rapporto lavorativo non valutano la sostenibilità
economica nel tempo, compresa l’alea del rischio
derivante dalla ciclicità.
Le proiezioni sono d’altronde
inutili se vi è la necessità politica della rielezione e
quella culturale della spesa ripianabile attraverso il
debito pubblico, con una distorsione dei concetti
Keynesiani di sostegno ai consumi e assorbimento delle
capacità di surplus produttivo, che da provvisoria e
anticiclica diventa strutturale e permanente.
La tensione che si realizza tra
aspettative e realtà rinegoziata porta alla necessità di
un riequilibrio tra lavoro e vita privata ( Work- life
bilance), dando al contempo un nuovo e più alto
significato sociale al proprio lavoro che non si può
ridurre al semplice scambio economico o al luogo di
scarico dei propri rancori (La vera chiave è
l’equilibrio tra lavoro e vita familiare, in Speciale
Qualità del Lavoro, 7, Il Sole 24 Ore, 12/12/2011), come
d’altronde necessita variare la tipologia lavorativa
anche in funzione dell’età lavorativa.
Nota
Tosi- Pilati, Comportamento
organizzativo, 238, Egea, 2008.
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