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La Corte mantiene inalterato il
principio secondo il quale sono considerati invalidi per
illiceità della causa gli accordi intercorsi tra i
coniugi, con i quali fissano in sede di separazione
personale il regime giuridico patrimoniale in vista del
divorzio futuro.
Corte di Cassazione, sez. I Civile,
sentenza 10 - 25 gennaio 2012, n. 1084
Presidente Luccioli – Relatore
Didone
Ritenuto in fatto e in diritto
1.- Con sentenza del 16.1.2003 il
Tribunale di Rimini ha dichiarato la cessazione degli
effetti civili del matrimonio tra L.L. e M.E. ,
rimettendo le parti dinanzi al G.I. per la trattazione
delle questioni relative alla quantificazione
dell'assegno di divorzio da quest'ultima richiesto.
Sulle conclusioni rassegnate dalle parti (L.L. chiedeva
dichiarare che la scrittura inter partes prodotta in
atti, contenente disposizioni patrimoniali a favore
della M. , costituiva accordo di rendita vitalizia ex
art. 1872 c.c., e per l'effetto ritenere equa e
satisfattiva anche a fini divorzili l'una tantum
corrisposta - denaro e immobile - con rigetto di ogni
diversa richiesta della M. ; quest'ultima concludeva
chiedendo l'assegnazione della casa coniugale e la
corresponsione di un assegno mensile rivalutabile di
Euro 2.582,28), con sentenza del 18.8.2006 il Tribunale
di Rimini ha accolto parzialmente la domanda della M. ,
ponendo a carico dell'ex marito, con decorrenza dal
febbraio 2002, un assegno mensile rivalutabile di Euro
500,00.
Con sentenza del 24.8.2007 la Corte
di appello di Bologna ha confermato la decisione del
tribunale.
1.1.- Ha osservato la corte di
merito che era insussistente il dedotto vizio di omessa
pronuncia su di un punto fondamentale della controversia
e/o di ultrapetizione così come erano infondate le
censure che investivano la interpretazione, l'esecuzione
e la valenza ai fini del giudizio degli accordi di
contenuto patrimoniale sottoscritti tra le parti in sede
di separazione con scrittura 16.11.1999 (parzialmente
recepiti nel verbale di separazione consensuale
omologato dal Tribunale il 18.2.2000).
All'epoca della separazione le
parti avevano convenuto di definire ogni rapporto
patrimoniale tra esse sorto in pendenza di matrimonio,
anche con riferimento alla divisione di beni e
partecipazioni a qualunque titolo in comune tra i
coniugi, mediante il trasferimento della proprietà della
casa coniugale a favore della M. ed il versamento da
parte del marito di una somma di denaro complessiva (una
tantum) di lire 300.000.000. Secondo gli accordi tale
pattuizione doveva essere osservata anche in sede di
divorzio.
Come sostanzialmente risultava dal
tenore della scritturagli trasferimento dell'immobile e
il versamento della somma in contante erano stati
convenuti quale definizione transattiva delle pretese
vantate dalla M. sul patrimonio del marito. Il patto
aveva la funzione di porre fine alla controversia
insorta tra i coniugi circa la divisione di tale
patrimonio, alla cui formazione la moglie vantava di
avere contribuito anche mediante cessione di beni
personali.
Inoltre la corte di merito ha
richiamato il costante orientamento giurisprudenziale
secondo il quale devono considerarsi invalidi per
illiceità della causa gli accordi con i quali i coniugi
abbiano fissato in sede di separazione il regime
giuridico patrimoniale in vista del futuro divorzio, e
che in ogni caso le precedenti determinazioni anche
convenzionali dell'assegno di mantenimento in sede di
separazione non vincolano il giudice del divorzio
nell'esercizio del suo potere discrezionale circa
l'attribuzione e la quantificazione dell'assegno (Cass.
2003/1681; Cass. 2002/1368; Cass. 2000/5866). Un simile
patto non poteva pertanto avere efficacia preclusiva
della domanda di contenuto economico proposta dalla M. ,
ma poteva invece costituire elemento di valutazione in
ordine alle condizioni economiche dei coniugi, così come
aveva ritenuto il giudice di primo grado.
Quanto alle condizioni patrimoniali
dei coniugi, la corte di merito ha condiviso le
argomentazioni del tribunale circa la superiorità
economico - patrimoniale del marito e la mancanza, da
parte della moglie, di mezzi adeguati a mantenere il
tenore di vita elevato goduto durante il matrimonio, che
emergevano con sufficiente chiarezza dai riferimenti in
atti, nella gran parte non contestati.
M.E. non risultava possedere
redditi propri, né godere di trattamento pensionistico.
L'età avanzata (65 anni) e la mancanza di attitudini
professionali specifiche (in passato si era dedicata
alla conduzione familiare fornendo anche un importante
contributo personale alla formazione del patrimonio del
marito) non le consentivano di avviare una attività
confacente o comunque adeguata al precedente livello di
vita. Per contro, da una relazione della Guardia di
Finanza in data 8.3.1996, prodotta in atti, risultava
una lunga serie di proprietà patrimoniali nella
disponibilità del L. , ivi compresa la proprietà di una
imbarcazione e la disponibilità di auto di grossa
cilindrata, nonché l'attestazione espressa e documentata
dell'elevato tenore di vita condotto dall'interessato,
il quale percepiva gli emolumenti relativi alla carica
di amministratore unico della società Torrianese
Pannelli s.r.l., di cui era socio di maggioranza
(58,3%), e godeva anche di un modesto trattamento
pensionistico.
Correttamente, dunque, il tribunale
aveva accolto parzialmente la domanda, tenuto conto del
tardivo trasferimento della casa coniugale, riconoscendo
l'obbligo del contributo in misura (Euro 500,00)
largamente inferiore a quanto richiesto.
2.- Contro la sentenza di appello
il L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a
cinque motivi.
Resiste con controricorso
l'intimata.
3.- La presente sentenza è redatta
con motivazione semplificata così come disposto dal
Collegio in esito alla deliberazione in camera di
consiglio.
3.1.- Con il primo motivo il
ricorrente denuncia vizio di motivazione e violazione
dell'art. 112 c.p.c. in relazione al vizio di
ultrapetizione dedotto in appello. Formula il seguente
quesito ex art. 366 bis c.p.c.: “se nel giudizio di
divorzio, i provvedimenti riguardanti l'attribuzione e
determinazione dell'assegno divorzile possano essere
adottati d'ufficio, pur non essendo rivolti a soddisfare
esigenze e finalità pubblicistiche (come nel caso in cui
non vi sia prole o esigenze alimentari) sottratte
all'iniziativa e alla disponibilità delle parti. E
quindi se anche nei/ giudizio di divorzio debba valere
il principio della corrispondenza fra chiesto e
pronunciato”.
In applicazione del menzionato
principio, secondo il ricorrente, la Corte d'Appello
avrebbe dovuto rilevare il vizio di ultrapetizione della
sentenza di primo grado, laddove aveva travalicato i
limiti imposti dalla causa petendi originaria,
pronunciando sull'assegno di divorzio nonostante ne
fossero venuti meno i presupposti stabiliti dalla
ricorrente.
3.1.1.- Nelle pagg. 4 e 5 del
ricorso sono trascritte le conclusioni formulate in
primo grado dalla resistente. Esse si riferiscono
all'assegnazione della casa coniugale e alla richiesta
di assegno di mantenimento. La corte di merito ha preso
in considerazione - ritenendola correttamente infondata
- la censura relativa all'ultrapetizione.
È insussistente, dunque, la
violazione denunciata. Il motivo svolge considerazioni
circa la validità (negata dalla giurisprudenza costante
di questa Corte: cfr. Cass., n. 23908/2009; Cass., n.
17634/2007; Cass., n. 5302/2006; Cass., n. 1810/2000;
Cass., n. 2955/1998) degli accordi economici "in
contemplazione di divorzio" (categoria nella quale
andrebbe sussunta la convenzione del 16.11.1999
stipulata dalle parti) in modo del tutto slegato dal
quesito formulato e dalla violazione dell'art. 112
c.p.c. denunciata.
Manca, infine, qualsiasi sintesi
conclusiva del fatto controverso in relazione al quale è
denunciato il vizio di motivazione.
3.2.- Con il secondo motivo parte
ricorrente denuncia: “violazione e falsa applicazione
dell'art. 5 legge divorzio in relazione alla valutazione
delle condizioni patrimoniali dei coniugi da effettuarsi
tanto al momento del giudizio quanto in costanza di
matrimonio”. Formula, ex art. 366 bis c.p.c., il
seguente quesito: “se la valutazione delle condizioni
patrimoniali dei coniugi in sede di divorzio debba
essere effettuata soltanto con riferimento al tenore di
vita goduto in costanza di matrimonio oppure se debba
essere comparata con le condizioni esistenti al momento
della pronuncia del divorzio”.
Deduce che sul punto la Corte
d'Appello, nonostante la documentazione prodotta in
secondo grado, non spende parola, ostinandosi a riferire
sulla situazione dei coniugi in costanza di matrimonio.
Fatta corretta applicazione del
principio sopra enunciato, la Corte bolognese avrebbe
dovuto rilevare la sensibile riduzione del patrimonio
del L. e per l'effetto revocare la disposizione relativa
all'assegno divorziale, poiché tale disposizione non può
andare a detrimento del coniuge onerato.
3.2.1.- Il motivo è inammissibile
per violazione dell'art. 366 bis c.p.c. dovendo il
quesito compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli
elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la
sintetica indicazione della regola di diritto applicata
da quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad
avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al
caso di specie (Sez. 3, ordinanza n. 19769 del
17/07/2008). Il quesito formulato dal ricorrente, per
contro, è del tutto generico e privo di riferimenti alla
fattispecie concreta.
3.3.- Con il terzo motivo il
ricorrente denuncia violazione dell'art. 155 c.c., come
novellato dall'art. 4, comma 2, l. n. 54/2006.
Formula il quesito ex art. 366 bis
c.p.c.: “se gli accertamenti a mezzo Polizia Tributaria,
alla luce della novella introdotta dalla legge 54/2006,
rimangano una facoltà discrezionale del Giudice oppure
sia esclusa qualunque discrezionalità in caso di
reciproca contestazione sulla consistenza patrimoniale
dei cespiti degli ex coniugi”.
Alla luce della dedotta ufficiosità
del dovere di disporre le indagini a mezzo Polizia
Tributaria la Corte d'Appello avrebbe dovuto integrare
l'apparato istruttorio avvalendosi di tale mezzo invece,
né ha disposto in tal senso, né ha speso parola sui
motivi di rigetto dell'istanza.
3.3.1.- Il motivo è inammissibile
perché riferito a norma (art. 155 c.c.) non applicabile
alla concreta fattispecie e in concreto esattamente non
applicata, riferendosi al mantenimento della prole,
mentre la norma applicabile è l'art. 5, 9 comma, l.
div., secondo cui “in caso di contestazioni il tribunale
dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e
sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso,
anche della polizia tributaria”.
La predetta norma non impone al
tribunale in via diretta ed automatica di disporre
indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta
in cui sia contestato un reddito indicato e documentato,
ma rimette allo stesso giudice la valutazione di detta
esigenza, in forza del principio generale dettato
dall'art. 187 cod. proc. civ., che affida al giudice la
facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle
parti e di ordinare gli altri che può disporre
d'ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e
concludenza (Sez. 1, Sentenza n. 7435 del 21/05/2002) e
il mancato esercizio di quei poteri può essere
denunciato soltanto per vizio di motivazione.
Nella concreta fattispecie il
motivo denuncia violazione di legge e non denuncia alcun
vizio di motivazione in ordine al mancato esercizio da
parte della corte di merito del potere di cui alla norma
richiamata.
3.4.- Con il quarto motivo parte
ricorrente denuncia violazione dell'art. 5 l. n.
898/1970 e formula il seguente quesito ex art. 366 bis
c.p.c.: “se può il Giudice del merito, per accertare la
congruità dei cespiti patrimoniali del coniuge
richiedente l'assegno di divorzio fare ricorso alle
presunzioni semplici”. Sostiene il ricorrente che, alla
luce del summenzionato principio, la corte di appello
avrebbe dovuto dedurre un riequilibrio delle condizioni
patrimoniali degli ex coniugi tale da giustificare la
revoca della disposizione relativa all'assegno
divorzile.
3.4.1.- Si tratta di censure
inammissibili perché versate in fatto, oltre ad essere
il motivo inammissibile per genericità del quesito,
quindi per violazione dell'art. 366 bis c.p.c..
Peraltro, non è attinta con idonea
censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. la congrua e logica
motivazione del provvedimento impugnato sintetizzata
nella parte narrativa (v. supra p.1.1).
3.5.- Con il quinto motivo parte
ricorrente denuncia “violazione e/o falsa applicazione
dell'art. 1872 c.c. in relazione all'art. 1322 c.c.
(art. 360 n. 3 c.p.c.) e comunque vizio di omessa o
contraddittoria motivazione in ordine a un punto
decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) in
relazione alla qualificazione della scrittura privata
del 16.11.1999 quale rendita vitalizia”.
Formula il seguente quesito ai
sensi dell'art. 366 bis c.p.c.: “se è meritevole di
tutela l'interesse perseguito dalla costituzione di una
rendita vitalizia, mediante corresponsione di un bene
una tantum, in grado di assicurare i medesimi effetti
dell'assegno divorzile e pertanto se tale accordo possa
far venir meno il presupposto della domanda di assegno
di divorzio, poiché tale presupposto sarebbe assorbito
dalla funzione stessa della rendita vitalizia”.
Deduce che la Corte d'Appello
avrebbe dovuto qualificare la scrittura intercorsa fra
le parti quale rendita vitalizia seppure atipica e per
l'effetto avrebbe dovuto revocare la disposizione
relativa all'assegno di divorzio.
Inoltre, la sentenza impugnata
sarebbe contraddittoria nella motivazione perché da un
lato il giudice del merito afferma che "Il patto aveva
la funzione di porre fine alla controversia insorta tra
i coniugi circa la divisione del patrimonio, alla cui
formazione la moglie vantava di avere contribuito anche
mediante cessione di beni personali".
Dall'altro afferma comunque esservi
uno squilibrio delle condizioni patrimoniali degli ex
coniugi.
3.5.1.- Il ricorrente erra nella
individuazione della fattispecie normativa.
È del tutto incomprensibile la
pretesa di applicare la disciplina della rendita
vitalizia ad una fattispecie (del tutto al di fuori
dallo schema di cui all'art. 1872 c.c.) nella quale è
l'onerato dell'assegno ad aver alienato un immobile. Ciò
rende inadeguato il quesito e, dunque, inammissibile la
censura di violazione di legge per inosservanza
dell'art. 366 bis c.p.c..
Quanto al vizio di motivazione, il
motivo presuppone una (inammissibile) richiesta di
rilettura degli atti al fine di interpretare la
scrittura privata alla quale, con congrua e logica
motivazione, non attinta da specifica censura, la corte
di merito ha attribuito natura di transazione relativa
alle pretese della resistente in ordine alla
comproprietà di beni familiari. Transazione che ha
preceduto il giudizio di cessazione degli effetti civili
del matrimonio e che - a pena di nullità - non poteva
estendersi ai rapporti patrimoniali conseguenti alla
pronuncia di divorzio.
Al rigetto del ricorso consegue la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente a rimborsare alla resistente le
spese del giudizio di legittimità che liquida in
complessivi Euro 2.000,00, di cui Euro 200,00 per
esborsi, oltre spese generali e accessori come per
legge. |