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Ritengo che la sentenza in commento
si ponga (e possa essere, quindi, considerata) come un
caso di vera e propria estrema evoluzione interpretativa
– una sorta di provocazione ermeneutica, (probabilmente
involontaria ed incidentale) – del concetto di
detenzione punibile di sostanza stupefacenti.
La pronunzia, infatti, criticando e
censurando le carenze motivazionali dell’ordinanza
emessa dal Tribunale del Riesame, afferma la
indefettibile necessità che l’esame della condotta
detentiva avvenga, avendo riguardo a tutte quei canoni
valutativi che il legislatore ha introdotto con la
novella del 2006, nessuno escluso.
Ma il significato della decisione
non si ferma qui, perchè vi è, però, molto di più!
La Suprema Corte si sofferma,
infatti, specificatamente su alcuni altri controversi
profili, che hanno fatto versare, a tutt’oggi, fiumi di
inchiostro a giurisprudenza e dottrina, senza, peraltro,
addivenire a soluzioni univoche.
La sentenza cioè:
1) esclude che, a seguito
della L. 49/2006 sia stata introdotta un’inversione
onere della prova in ordine alla destinazione allo
spaccio dello stupefacente;
2) afferma che il dato
ponderale deve essere assoggettato ad un generale
criterio di equiparazione sostanziale, rispetto a
qualsiasi altro fra gli indicatori contenuti nel comma 1
bis dell’art. 73 dpr 309/90;
3) riconnette particolare
importanza alla indagine valutativa concernente sia la
tipologia di confezionamento (unico involucro), sia
l’assenza – o la presenza - di strumenti per il taglio
dello stupefacente e per la pesatura dello stesso,
elementi sintomatici di un successiva diluizione e
moltiplicazione del quantitativo originario;
4) ritiene non eludibile la
valutazione della condizione di tossicomania del
detentore, delle sue effettive condizioni economiche,
onde comprendere se le stesse siano compatibili con
l’acquisto di un certo quantitativo di stupefacente,
nonchè della presunta convenienza del rapporto
quantità-prezzo, che legittima la cd. “scorta”.
1)
Non è un principio inedito che
debba essere il PM a provare la destinazione allo
spaccio dello stupefacente e non l’inverso.
E’ questo, assioma sacrosanto ed
irrinunciabile, allo stato, però, troppo discontinuo
nella sua applicazione, pur nella convinzione che, negli
ultimi anni, si sia stratificato l’auspicabile
orientamento di assoluta ortodossia al principio
dell’onere della prova.
Significativa in proposito, è,
infatti, la pronunzia della Sez. VI, 12-02-2009, n.
12146 [(rv. 242923), Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale di Trento c. D.G., in CED Cassazione,
2009, Riv. Polizia, 2009, 10-11, 709] che ha statuito
che “In materia di stupefacenti, il mero dato
quantitativo del
superamento dei limiti tabellari
previsti dall'art. 73, comma primo-bis, lett. a), d.P.R.
n. 309 del 1990, come modificato dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49, non vale ad invertire l'onere della prova a
carico dell'imputato, ovvero ad introdurre una sorta di
presunzione, sia pure relativa, in ordine alla
destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente
personale, dovendo il giudice globalmente valutare,
sulla base degli ulteriori parametri indicati nella
predetta disposizione normativa, se le modalità di
presentazione e le altre circostanze dell'azione siano
tali da escludere una finalità esclusivamente personale
della detenzione.” [conf. ex plurimis
Cass. Sez. IV Sent., 17-12-2007, n. 16373 (rv. 239962),
in www.leggiditalia.it].
Una seria e concreta realizzazione
di tale principio, presuppone, dunque, di addivenire ad
un’armonizzazione di fondo della legge sugli
stupefacenti, la quale, invece, per converso, opera,
sulla base di una presunzione juris tantum di
destinazione allo spaccio dello stupefacente detenuto.
Vale a dire che – ancor prima della
disamina dei canoni di ausilio ermeneutico, introdotti
con la L. 49/2006 – la valutazione da cui l’esegeta
muove è, purtroppo, quella del sospetto di un
destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.
Si tratta, dunque, di uno schema di
ordine mentale, che si pone in irreversibile
contraddizione con la regola generale dell’onere della
prova, e, dunque, una situazione che crea indubbi
imbarazzi interpretativi e che le successive modifiche
del T.U. sugli stupefacenti, in epoca posteriore alla L.
685/1975 non hanno saputo (o voluto) risolvere.
D’altronde, una modifica che avesse
introdotto una presunzione di segno opposto a quella
attualmente vigente, non avrebbe potuto suscitare, sul
piano giuridico, nessuno scandalo, proprio perché
conforme al postulato su cui si fonda il nostro
ordinamento costituzionale, la presunzione di non
colpevolezza.
Allo stato attuale, invece, viviamo
un paradosso processuale, che la giurisprudenza tenta di
risolvere contingentemente dando – come giusto –
preferendo al criterio generale dell’onere della prova.
2)
Il parametro dato dal peso dello
stupefacente – dopo numerose oscillazioni
giurisprudenziali, ora nel senso di conferire importanza
decisiva, ora in senso opposto – pare avere
definitivamente perso quel carattere di assoluta
decisività prognostica, che lo rendeva un unicum
differente e, comunque, prevalente su tutti gli altri
canoni (1).
Il Supremo Collegio, Sez. VI, con
la sentenza 18-09-2008, n. 39017 [(rv. 241405),
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte
d'Appello di Bologna c. C.G. in CED Cassazione, 2008]
ha, infatti, ribadito l’esistenza, in capo “..al giudice
un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che
dagli altri parametri normativi (modalità di
presentazione, peso lordo complessivo, confezionamento
frazionato, altre circostanze dell'azione) si debba
escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente
personale, pur in presenza del superamento dei suddetti
limiti massimi”, con ciò conferendo una valenza
paritaria anche agli altri canoni legislativi, che,
inizialmente parevano confinati in un ruolo subordinato.
Rimane, comunque, a monte di ogni
interpretazione che si intenda proporre, un problema
metodologico di assoluta e decisiva importanza, vale a
dire che l’attuale interpretazione data dalla
giurisprudenza, la quale supera il dettato della norma
(che avrebbe circoscritto la detenzione alla dose media
giornaliera, secondo i criteri tabellari), costituisce
una supplenza contingente, nell’insipienza del
legislatore.
La assoluta precarietà di tale
intervento interpretativo, viene confermata dalla
considerazione che esso potrebbe essere destinato ad
essere agevolmente superato, anche
in modo repentino ed improvviso,
ovviamente in caso di mutazione soggettiva
dell’orientamento indicato, circostanza tutt’altro che
inusuale o remota, non essendo – nella fattispecie – in
presenza di un dato normativo.
La stessa pronunzia che si esamina
in questa sede, come detto all’inizio, non sfugge ad
influenze di carattere soggettivo.
Essa appare, quindi, molto
particolare ed estrema, in quanto ipotizza – in linea
teorica e giurisprudenzialmente inedita (non si
ricordano, infatti, prese di posizione analoghe) - che
anche un quantitativo tutt’altro che modico e, comunque,
affatto limitato come quello di 500 grammi di sostanze
stupefacente, possa rientrare nel concetto di detenzione
personale, ove anche gli altri fattori interpretativi,
che il T.U. stup. prevede, non risultino ostativi a tale
prognosi.
Di fronte ad un’applicazione così
plastica ed oggettiva del principio di ininfluenza del
connotato ponderale, se inteso in re ipsa, parametro che
(bene o male) anche seppure circoscritto, aveva funto da
bussola, in presenza di quantitativi del tipo di quello
oggetto dell’imputazione (ed anche in casi minori,
comunque, sempre superiori ai 50 grammi lordi), non si
può rimanere inerti ed accettare tout court una simile
soluzione del problema.
E’ necessaria, infatti, una
soluzione legislativa, che eviti che l’applicazione di
un principio teoricamente giusto e corretto, possa
degenerare, però, come pare potrebbe accadere nella
fattispecie, in soluzioni di potenziale impunità, che
non sembrano accettabili, perché ontologicamente
incompatibili con la detenzione ad uso personale.
L’esperienza forense (2) ci ha
insegnato che è plausibile anche la costituzione di una
piccola scorta (“quantità non esigue”), ma, francamente,
pare di difficile comprensione l’assimilazione di
quantitativo quale in questione alla categoria dell’uso
personale.
La soluzione da adottare, per porre
termine, quantomeno, a denunziato stato di incertezza
deve essere di natura legislativa.
Due sono ad avviso di chi scrive
le soluzioni possibili.
O si depenalizza qualsiasi condotta
detentiva, qualunque sia il peso dello stupefacente
detenuto – intraprendendo una pericolosissima deriva,
che favorirebbe la
proliferazione di sacche di
illegalità –, oppure, più preferibilmente, si cerca di
stabilire in maniera meno empirica un limite
aritmetico-ponderale per la detenzione.
Chiunque può comprendere che la
seconda auspicata soluzione costituisce una coperta
corta, ma pur sempre un contributo maggiormente
praticabile alla soluzione dela questione.
Non credo, infatti, vi siano altre
opzioni serie.
Con la scelta di fissare limiti
quantitativi, infatti, non vi sono rischi di
proliferazione ed aumento della circolazione e
diffusione degli stupefacenti, perché è dato reale e di
esperienza che il crimine organizzato continuerà il
proprio business, importando ed esportando, detenendo,
producendo o cedendo quantitativi di droga certamente
superiori a quelli che potrebbero formare oggetto della
previsione.
E’ bene precisare che la soluzione
sin qui esposta, non sta affatto a proporre od a
significare, quindi, l’introduzione di una presunzione
di non punibilità juris et de jure, in favore di chi
detenesse un certo quantitativo di droga, normativamente
predeterminato.
In realtà, il parametro la cui
introduzione si auspica, servirebbe a circoscrivere e
rendere tassative le fattispecie nelle quali, il
giudice, in presenza di ulteriori canoni valutativi
favorevoli all’indagato/imputato, potrebbe operare
fattivamente la delibazione in ordine alla
configurabilità dell’uso personale.
3)
Il depotenziamento del valore
assoluto – sul piano probatorio - riconnesso al profilo
ponderale, permette – in pari tempo – di conferire
rilevo ed importanza alla indagine valutativa che venga
a riguardare sia il tipo di confezionamento
(specialmente in ipotesi di un unico involucro), sia
l’assenza – o la presenza – di quegli strumenti per il
taglio dello stupefacente e per la pesatura dello
stesso, cioè di elementi che risultano sintomatici di un
successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo
originario di droga.
Si tratta di paradigmi, oggetto di
particolare valorizzazione da parte della novella del
2006 e, certamente hanno prodotto effetti di carattere
positivo, permettendo l’introduzione, all’interno della
dinamica processuale, di ulteriori criteri decisori, che
permettono di pervenire ad un giudizio finale di
maggiore completezza in punto al carattere ed alla
rilevanza penale della condotta di detenzione.
La sentenza in esame, quindi, non
deroga affatto a tale condivisibile indirizzo, anzi,
essa conferisce agli stessi (e nello specifico alla loro
presenza od assenza ed alla metodologia del
confezionamento) valore fortemente sintomatico, che
condiziona le conclusioni da formulare (3).
4)
Ultimo aspetto, potenzialmente
esimente, su cui appare opportuno soffermarsi
brevemente, è quello concernente i parametri economici,
vale a dire quell’insieme di indicatori, che possono
indurre il giudice ad affermare che la detenzione dello
stupefacente è destinata ad uso personale, in quanto
l’agente – che sia abituale assuntore - possiede una
capacità economico-finanziaria congrua in relazione al
quantitativo rinvenuto nella sua disponibilità.
Si deve osservare che questo
indirizzo, maturato nel tempo ha sempre più condizionato
le valutazioni dei giudici – v. ad esempio Trib. Napoli,
6 aprile 2009, che assume tra i criteri per la
valutazione prognostica della destinazione della
sostanza anche “…le condizioni di reddito del detentore
e del suo nucleo familiare…” -, divenendo, così, a pieno
titolo canone ermeneutico tutt’altro che secondario.
Appare, però, necessario che il
ricorso all’uso di tale parametro tenga in debito conto
alcuni elementi fattuali, che la quotidiana esperienza
presenta.
I parametri puramente economici
possono assumere una valenza meramente teorica, si da
privarli di concreta significanza, e renderli vani, ove
non consideri che :
a) il prezzo di cessione
dell’hashish e della marjiuana in special modo (ma anche
delle droghe pesanti) appare obbiettivamente non
elevato, sicchè anche quantitativi non modicissimi non
comportano affatto esborsi rilevanti.
Si può affermare, quindi, che
acquisti di tali sostanze possono venire affrontati,
attraverso la costituzione, in tempi brevi, di riserve
di danaro all’uopo destinate;
b) è evidente che anche il
commercio illecito della droga, segue criteri puramente
mercantili e, dunque, si adegua a logiche di sconto del
prezzo praticato in proporzione al quantitativo di
droga fornito, si da indurre all’acquisto di
quantitativi non limitati, attraverso un meccanismo di
cospicua riduzione od abbattimento l prezzo, in questo
si esplicita il rapporto “quantità/prezzo”;
c) il limite
dell’argomento-esimente “scorta”, riposa nella natura
dello stupefacente (in particolare hashish o marjiuana),
il quale, spesse volte, non essendo stato trattato
chimicamente, ma costituendo diretto risultato di una
coltivazione – talora puramente biologica – è portato ad
un naturale degrado ed ad un’altrettanto naturale
consunzione.
Sicchè si dovrebbe, a fini
prognostici, anche valutare il tempo di conservazione
del prodotto, vale a dire entro quanto tempo un certo
quantitativo possa essere assunto od utilizzato in modo
da produrre effetti stupefacenti.
Vi è, poi, da considerare che
un’eventuale scelta consistente nell’ancorare in modo
automatico ed acritico la non punibilità della
detenzione dello stupefacente (e la sua destinazione ad
un uso esclusivamente personale) alla disponibilità di
danaro da parte dell’agente, o, meglio, alla sua
capacità di produrre un reddito di natura lecita,
determinerebbe - pertanto – una palese disparità di
trattamento sotto svariati profili.
In primo luogo, come detto, così
opinando – dal punto di vista oggettivo - verrebbero
poste sul medesimo piano condotte tra loro
ontologicamente e radicalmente differenti e
caratterizzate da un diversa carica di offensività,
legato, ovviamente, al profilo ponderale.
Il comparare come omologhi
quantitivi tra loro all’evidenza differenti (ad esempio
alcune decine con alcune centinaia di grammi o,
addirittura, con qualche chilo), sol perché il detentore
– in assenza di quegli elementi che, a mente del comma 1
bis dell’art. 73 dpr 309/90) inducano ad ipotizzare una
destinazione parziale o totale allo spaccio della
sostanza – appare in grado di giustificare l’acquisto,
appare intuitivamente opzione di difficile, se non
impossibile, configurazione giuridica.
In secondo luogo, a cascata, deriva
anche la considerazione che la punibilità o la non
punibilità del singolo detentore-assuntore subirebbe il
condizionamento del censo dell’indagato/imputato.
Dunque, una vera e propria
discriminazione fra persone oggettivamente ed
originariamente nella medesima condizione di
tossicomania (con sospetti di contrasto con l’art. 3
Costituzione), posto che in una simile impostazione,
verrebbe valorizzato un dato che non necessariamente –
in presenza di quantitativi tutt’altro che esigui –
dimostra la finalizzazione a scopi personali della
detenzione e che verrebbe premiato in ammissibilmente lo
status economico e/o sociale.
La condizione di possesso di
risorse economiche, idonee a giustificare la
disponibilità anche di quantitativi rilevanti, comunque
eccedenti i criteri di modicità, di per sé sola, non
potrebbe (e non dovrà) mai, quindi, apparire risolutiva.
Soprattutto potrebbe divenire un
pericoloso – quanto apparente – presupposto, atto a
falsare la realtà, creando, così, in capo a taluni
soggetti, situazioni di impunità.
Si pensi solo alla elementare
circostanza che sodalizi criminosi potrebbero fare
sempre più uso, quali detentori, di persone che, pur
assuntori, siano incensurate e si trovino in condizione
di abbienza, onde eludere “legalmente” il divieto ex
lege di accumulo di quantitativi non limitati (e,
comunque, logicamente e giuridicamente incompatibili
anche con il concetto di scorta).
** ** **
La pronunzia della Suprema Corte,
quindi, pone molti interrogativi, ma soprattutto
ripropone la necessità di mettere mano in modo serio ed
articolato ad un progetto complessivo di revisione della
normativa vigente in materia di stupefacenti.
Avv. Carlo Alberto Zaina
_________
(1) Ciò non di meno, permangono
talora ancora indirizzi seguaci della valorizzazione
del profilo ponderale, vedi ad esempio Uff. indagini
preliminari Napoli Sez. VII, 13-12-2010, n. 2771 In tema
di detenzione e spaccio di stupefacenti, qualora il dato
ponderale della droga superi il limite rappresentato da
una soglia ragionevole di valore economico ed il dato
quantitativo della sostanza stupefacente assuma valore
preponderante per il giudizio, diviene irrilevante la
valutazione di ogni altro elemento.
(2) Cass. Sez. VI Sent.,
01-10-2008, n. 40575 (rv. 241522) , Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Trento c. M.F.
(3) Sul punto esplicativa appare
la sentenza Trib. Bari Sez. II, 26 luglio 2011, in
www.leggiditalia.it “Incorre nell'imputazione per il
reato di detenzione di sostanza stupefacente, ai fini di
spaccio, il prevenuto che detenga sostanze psicotrope di
tipo hashish che per modalità di confezionamento e
rinvenimento appare destinata allo spaccio. Nel caso di
specie, rivelano la finalità di spaccio il rinvenimento,
nell'abitazione del prevenuto degli strumenti atti alla
preparazione della sostanza oltre a due piantine di
marijuana coltivate, già estirpate ed in fase di
essiccamento, un tritaerba, un bilancino di precisione,
un taglierino, delle banconote di piccolo taglio
nascoste in una confezione ed una lista di nominativi
con delle cifre indicanti i pagamenti. Tutti questi
elementi, complessivamente valutati, escludono che possa
parlarsi di uso personale della sostanza rinvenuta, in
quanto sintomatici di un'attività organizzata a
procurarsi numerose confezioni di stupefacenti destinati
alla vendita.
Censurato l’avvocato scorretto che induce in errore il
legale di controparte per transigere la controversia
(Cass. n. 529/2012)
Svolgimento del processo
1. - Con decisione depositata il 1 aprile 2009, il
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Vicenza irrogò
la sanzione della censura all'avv. G.M. per essere
venuta meno al dovere di correttezza, lealtà e
colleganza, inducendo nell'avvocato D.N.M.,
rappresentante della controparte in una controversia
successoria, l'erroneo convincimento che i tre libretti
al portatore recanti somme che rappresentavano il
credito litigioso ed erano vincolati all'esito della
causa o della transazione fossero nella sua
disponibilità, senza mai smentire la circostanza e
giustificando di volta in volta la mancata restituzione
con i più svariati argomenti, ed in tal modo impedendo
all'avv. D.N. di attivarsi per il recupero della somma.
L'avv. G. impugnò la decisione sulla base di tre motivi.
2. - Il Consiglio Nazionale Forense, con decisione
depositata il 21 aprile 2011, ha rigettato il gravame,
osservando che dalla documentazione acquisita, e, in
particolare, dalle cinque missive inviate dall'avv. G.
al collega D.N., emergeva la esattezza della valutazione
del CO.A.: da esse, infatti, risultavano le diverse
giustificazioni via via addotte per la mancata
restituzione dei libretti, in nessun caso attinenti alla
vera ragione, e cioè la mancata disponibilità degli
stessi, mentre per la prima volta solo nella memoria
difensiva presentata al CO.A., che le aveva contestato
la mancata messa a disposizione del collega dei
libretti, cinque mesi dopo l'inizio della citata
corrispondenza, era stata affermata tale circostanza. Il
comportamento dell'avv. G., determinato dalla volontà di
indurre il collega in errore al fine di guadagnare tempo
per studiare la propria strategia processuale e
ritardare la realizzazione de diritto della controparte,
non era giustificabile alla luce dello scopo della
difesa degli interessi del cliente.
3. - Per la cassazione di tale decisione ricorre l'avv.
G. sulla base di quattro motivi.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo di ricorso si lamenta la
violazione dell'art. 56, in relazione al R.D.L. 27
novembre 1933, n. 1578, art. 38, nonchè dell'art. 22 del
codice deontologico forense, del principio di
ragionevolezza nell'ipotesi di illecito disciplinare
ascritto all'incolpato, violazione degli artt. 622, 380
e 381 c.p., art. 88 c.p.c., e artt. 7, 8, 9, 12, 36 e 40
del citato codice deontologico, e sviamento di potere
R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 56 e art. 3 Cost..
Sarebbe affetta da irragionevolezza la sussunzione dello
specifico comportamento contestato alla ricorrente nel
precetto generale di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933,
art. 38, che fa divieto di commettere fatti non conformi
al decoro e alla dignità professionale. Si osserva al
riguardo che rientra tra i doveri del difensore quello
di non compiere atti che possono recare danno al proprio
assistito: il diritto di difesa prevale sul rapporto di
colleganza. Nè è rinvenibile nella disciplina del
processo civile un obbligo per la parte e per il suo
difensore di essere completo nelle allegazioni nè di
avvantaggiare la controparte, salva la ricorrenza del
dolo revocatorio: e ciò che è processualmente lecito non
può essere deontologicamente scorretto.
2.1. - La censura non merita accoglimento.
2.2. - Posto che le previsioni del codice deontologico
forense hanno la natura di fonte meramente integrativa
dei precetti normativi e possono ispirarsi
legittimamente a concetti diffusi e generalmente
compresi dalla collettività, il Consiglio Nazionale
Forense non è vincolato alla definizione dell'illecito
quale scaturisce dal testo delle disposizioni del codice
deontologico forense, essendo libero di individuare
l'esatta configurazione della violazione tanto in
clausole generali richiamanti il dovere di astensione da
contegni lesivi del decoro e della dignità
professionale, quanto in diverse norme deontologiche, o
anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante
in condotte atipiche non previste da dette norme (v.,
sul punto, Cass., S.U., sentt. 13/6/2011, n. 12903;
7/7/2009, n. 15852).
2.3. - Nella specie, il C.N.F. ha motivatamente ritenuto
che, nella specie, l'avv. G. abbia manifestato la
volontà di indurre il collega in errore con l'omissione
voluta di una circostanza decisiva, quale la detenzione
dei libretti in capo ad altri, e che ciò abbia
costituisca comportamento strumentale per ritardare la
realizzazione del diritto altrui facendo divenire il
collega di controparte strumento inconsapevole della
realizzazione del suo disegno dilatorio, ed ha ritenuto
che tale comportamento, per la sua ambiguità,
costituisca violazione di quei doveri di correttezza,
lealtà e colleganza che sono ricompresi nel più ampio
precetto di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38,
comma 1, e specificamente disciplinati dagli artt. 6 e
22 del codice deontologico.
3. - Con il secondo motivo si deduce la omessa e
insufficiente motivazione su fatto controverso decisivo.
La decisione del C.N.F. prescinde totalmente da fatti
decisivi prospettati dall'attuale ricorrente, e, in
particolare, dal fatto che la sentenza in relazione alla
quale l'avv. D.N. pretendeva i libretti per l'incasso
atteneva a domanda preliminare di riduzione per lesione
di legittima e alla domanda di divisione di asse
ereditario costituito da somma di danaro depositata in
banca e rappresentata da tre libretti cointestati ai due
eredi e vincolati all'esito del giudizio o transazione.
Detta decisione era una sentenza parziale relativa alla
prima fase dell'accertamento preliminare del contenuto
del diritto del legittimario leso, cliente della
ricorrente, e fino al momento della formazione del
giudicato su di essa non si sarebbe potuto procedere
alla fase della formazione delle quote nè a quella
successiva dell'attribuzione delle stesse. Tali temi,
che non sorreggevano, secondo la ricorrente, l'asserita
doverosità di comunicare il luogo di conservazione dei
libretti per consentire alla controparte di procedere
esecutivamente, erano stati inutilmente rappresentati al
CO.A. e, successivamente, al C.N.F., che, però, non li
ha considerati. Mancherebbero, comunque, nella decisione
impugnata i requisiti strutturali dell'argomentazione.
4.1. - Anche tale censura è infondata.
4.2. - Risulta, invero, inconferente il richiamo alla
natura del giudizio divisorio ed alla fase in cui si
colloca in esso la sentenza in relazione alla quale
l'avv. D.N. chiedeva i libretti per l'incasso, atteso
che la contestazione mossa alla attuale ricorrente era
quella di un comportamento integrante un non lineare
percorso difensivo, essendo le giustificazioni addotte a
motivazione della indisponibilità ad un incontro
finalizzate alla realizzazione del complessivo disegno
volto a far permanere una situazione di ambiguità che
inducesse il legale di controparte a confidare nella
possibilità di raggiungere una definizione
stragiudiziale della controversia.
5. - Con la terza doglianza si deduce error in
procedendo, violazione dell'art. 112 c.p.c., violazione
della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nullità
della sentenza. La decisione impugnata omette - si
osserva nel ricorso - di pronunciarsi sulla terza
censura, relativa alla errata determinazione dell'entità
dell'offesa all'etica forense ed alla inadeguatezza
della sanzione irrogata. Il C.N.F. avrebbe errato nei
non delibare la proporzionalità della sanzione con
riferimenti al caso concreto.
6. - Il motivo è infondato, sol che si consideri che la
decisione del C.N.F. si sofferma specificamente sul
punto della adeguatezza della sanzione irrogata,
considerando equa quella della censura, avuto riguardo
alla condotta ambigua e contraddittoria dell'incolpata,
tra l'altro protratta nel tempo e dettata da un preciso
disegno dilatorio.
7. - Con il quarto motivo, si lamenta la violazione del
R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56 in relazione all'art.
132 c.p.c., n. 4, nonchè la violazione dell'art. 111
Cost., per la motivazione carente/inesistente con
conseguente nullità della pronuncia per difetto di
requisito di forma indispensabile. Si denuncia la
carenza della esposizione dei motivi di fatto e di
diritto della decisione, la quale sarebbe passata dalla
enunciazione dei fatti di prova, costituiti dalle
lettere della attuale ricorrente, al giudizio di
responsabilità disciplinare senza esplicitare quali
sarebbero le frasi che violano i doveri di colleganza ed
il decoro professionale, quali le circostanze da cui
inferire l'elemento soggettivo dell'illecito, quale il
fine sotteso.
8.1. - La doglianza è destituita di fondamento.
8.2. - La decisione impugnata contiene una articolata e
dettagliata descrizione dei fatti posti a suo
fondamento, ed una puntigliosa ed analitica
ricostruzione del percorso logico che ha indotto il
C.N.F. a ravvisare nei fatti esposti la violazione
contestata, alla luce del comportamento tenuto dalla
incolpata e delle ragioni e finalità che lo avevano
orientato.
9. - Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
Non v'è luogo a provvedimenti sulle spese, non essendo
stata svolta attività difensiva dagli intimati.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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