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Il decreto del governo in tema di
liberalizzazioni coinvolge un insieme molto ampio di
settori e attività. Con alcune tematiche trasversali.
Bisogna resistere all'impulso di fornire stime immediate
sui benefici attesi dai provvedimenti. Da evitare anche
un approccio quasi contabile alla quantificazione degli
effetti, che ignora come lo sviluppo della concorrenza
operi sull'intera catena produttiva. La maggior
flessibilità in settori fino a ieri protetti richiede
ammortizzatori sociali calibrati sulle loro
caratteristiche e interventi capaci di accompagnarne la
riqualificazione.
Il decreto varato dal governo Monti
in tema di liberalizzazioni coinvolge un insieme molto
ampio di settori e attività promuovendo un articolato
insieme di misure. Molti pezzi commentano su lavoce.info
le misure adottate riferendosi ai principali comparti
produttivi. È tuttavia utile affrontare alcune tematiche
trasversali che si ripresentano in molti settori oggi
sottoposti alle liberalizzazioni.
LA CONTABILITÀ DEI BENEFICI
Il primo problema è quello di
resistere all’impulso di fornire immediate stime sui
benefici attesi dalle misure. In questi giorni abbiamo
assistito a una girandola di numeri, risparmi per
famiglia che da un giorno all’altro passavano da 400
euro annui a oltre 1.000 per poi tornare a 500. Inutile
dire che queste stime sono prodotte senza spiegare la
metodologia, spesso per la totale assenza di
quest’ultima. Ma anche i riferimenti avanzati dal
governo, con un impatto fino a 10 punti di Pil, per
quanto riferite a studi dell’Ocse, usano riferimenti che
difficilmente possono corrispondere allo specifico
pacchetto adottato, nella specifica situazione in cui si
trovano l’economia italiana ed europea. Esiste molta
evidenza sugli effetti benefici che le liberalizzazioni
hanno esercitato in specifici settori, e anche numerosi
studi a livello macro. Ma ci offrono al massimo un
riferimento qualitativo (gli interventi servono, e in
tempi non biblici).
Un secondo errore che si riscontra
spesso nei commenti di questi giorni riguarda un
approccio quasi contabile alla quantificazione degli
effetti: si sostiene che, se il segmento liberalizzato,
ad esempio la distribuzione dei carburanti nelle
stazioni di servizio, nella complessiva filiera
produttiva conta per una percentuale limitata sul prezzo
finale, una compressione dei margini in quella attività
a seguito della concorrenza non potrà che avere effetti
limitati sul prezzo che il consumatore finale paga. In
questi commenti si perde tuttavia di vista un aspetto
fondamentale su come lo sviluppo della concorrenza operi
sull’intera catena produttiva a partire dalla fase a
valle della distribuzione. Se, seguendo l’esempio
precedente, le stazioni di servizio possono operare
rifornendosi da raffinatori diversi, sottoporranno
questi ultimi a una concorrenza che oggi non avviene,
con effetti benefici sul costo all’ingrosso del
carburante che, quello sì, rappresenta una voce
significativa del prezzo finale.
L'IMPATTO SOCIALE
Una terza osservazione relativa ai
processi di liberalizzazione riguarda l’impatto sociale
sugli assetti del settore. Nella scorsa settimana, ad
esempio, abbiamo letto nelle stesse pagine dei giornali
tre diverse notizie relative alla categoria dei taxisti,
che grazie alla loro grande vocalità e ai toni
gladiatori che hanno assunto, si sono guadagnati le
prime pagine al di là della reale importanza di questo
settore nel capitolo liberalizzazioni. Abbiamo letto che
denunciano un reddito medio di 19mila euro all’anno, che
pagano una licenza tra i 100mila e i 200mila euro e che
l’utilizzo dell’auto e le forme di organizzazione del
lavoro sono spesso inefficienti. Questi tre dati
illustrano un intreccio di problemi che si ritrovano
anche in altri settori sottoposti a liberalizzazione e
che si caratterizzavano per le barriere e i regolamenti
che impediscono la libera entrata, dal commercio al
dettaglio ai servizi professionali. In queste
situazioni, forme di organizzazione del lavoro
inefficienti sopravvivono grazie a una diffusa evasione
fiscale e a prezzi eccessivi: l’utente ne risulta
penalizzato due volte, come acquirente e come
contribuente.
E tuttavia, aprendoli alla
liberalizzazione, non è possibile trascurare il fatto
che questi settori richiedano processi di
ristrutturazione rilevanti, senza i quali la
compressione dei margini dovuta alla concorrenza, unita
a più incisive politiche di contrasto all’evasione
fiscale che il governo ha annunciato, rischiano di
espellere dal mercato molti operatori. Il parallelo con
la filosofia che il governo intende adottare nelle
riforme del mercato del lavoro, con più flessibilità
unita ad ammortizzatori sociali e a processi di
riqualificazione professionale, appare evidente. Settori
esposti alle liberalizzazioni richiedono la gestione di
fasi transitorie durante le quali le piccole imprese e
le attività individuali dei prestatori di servizi
dovranno riqualificarsi, accedere a forme di
organizzazione del lavoro più efficienti, promuovere
processi di aggregazione in grado di sfruttare possibili
economie di scala. La maggior flessibilità a cui settori
fino a ieri protetti si sottoporranno dovrà richiedere
anche ammortizzatori sociali calibrati per le
caratteristiche di queste attività e interventi capaci
di accompagnarne i sentieri di riqualificazione. Queste
problematiche non sono diverse da quelle che le imprese
manifatturiere italiane hanno dovuto affrontare con
l’euro e la fine della lunga stagione della
competitività riguadagnata a suon di svalutazioni della
lira. Riconoscere la necessità di accompagnare i
processi di aggiustamento può accelerare l’emergere dei
frutti delle liberalizzazioni e stemperare
l’arroccamento difensivo delle categorie interessate. |