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Protagonista della vicenda che ha
occupato la Suprema Corte è un imprenditore giudicato
dalla Corte territoriale penalmente responsabile in
ordine al reato continuato di appropriazione indebita ex
artt. 81 e 646 c.p., per essersi appropriato, in qualità
di legale rappresentante di una società a responsabilità
limitata, in tempi diversi e in esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, di denaro di una dipendente
della società medesima.
Ad estinzione di un credito in
precedenza contratto con un istituto finanziario, la
dipendente decideva di cedere parte del proprio
stipendio con la stipulazione di un contratto di
cessione pro solvendo.
L’imprenditore, al quale ai sensi
dell’art. 1260 c.c. veniva notificata la cessione,
accettava di adempiere al predetto contratto assumendo
l’obbligo di trattenere ogni mese una quota pari al
quinto dello stipendio corrisposto alla lavoratrice
Accadeva, tuttavia, che le somme di
denaro risultavano soltanto formalmente trattenute sulla
busta paga del dipendente per destinarle al terzo
creditore, mentre, invece, il datore di lavoro se ne
appropriava per scopi estranei a quelli perseguiti
dall’accordo.
La Corte nel condannare
l’appellante, riteneva infondati i rilievi sollevati dal
legale rappresentante della società, il quale affermava
l’inconsistenza dell’elemento costitutivo dell’altruità
del bene – denaro oggetto di appropriazione, evocando i
principi affermati con la sezioni unite 1327 del
27.10.2004.
Si è a lungo dibattuto se il
mancato versamento da parte del datore di lavoro al
cessionario della quota di retribuzione spettante al
lavoratore possa o meno integrare il reato di
appropriazione indebita.
Gli “Ermellini” sono recentemente
intervenuti a comporre il contrasto giurisprudenziale
con sentenza pronunciata a Sezioni Unite del 25 maggio
2011, n. 37954.
Si tratta di una questione sulla
quale già in passato le Sezioni Unite avevano avuto modo
di interrogarsi, concludendo per la mancata
configurabilità del reato in commento (cfr. Cass. S.U.
27 ottobre 2004 n. 1327, Li Calzi).
Tuttavia, la pronuncia del 2004 non
poneva fine al contrasto, che veniva di nuovo portato
alla luce da sentenze di segno opposto (cfr. Cass. sez.
II, 7 febbraio 2008 n. 8023 e Cass. sez. II, del 18
aprile 2007 n. 19911).
L’elemento di contrasto su cui i
due orientamenti divergono è la nozione di altruità
della cosa.
Tenuto conto che l’art. 646 c.p.
punisce chiunque si appropri di denaro o cosa mobile
altrui di cui legittimamente dispone, al fine di
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto,
va chiarito se il denaro trattenuto
dal datore di lavoro al fine di trasmetterlo al
cessionario possa essere considerato “altrui” rispetto
al suo patrimonio e già appartenente al patrimonio del
lavoratore, sin dal momento in cui la trattenuta viene
calcolata ed operata in busta paga.
Secondo un primo orientamento, le
somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione
del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per
legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o
fatto idoneo a far sorgere nel datore di lavoro un
obbligo giuridico di versare somme per conto del
lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione
spettante al lavoratore come corrispettivo per la
prestazione già resa.
Si ritiene, dunque, che tali somme
non appartengano più al datore di lavoro, che ne ha solo
una disponibilità precaria, intesa come vincolata al
raggiungimento di un determinato scopo.
La quota retributiva trattenuta,
infatti, ha una destinazione precisa che non può essere
modificata unilateralmente in maniera lecita, ed è
vincolata ad un versamento da effettuare entro un
termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore.
Proprio questo vincolo di
indisponibilità dimostra, secondo la tesi in commento,
l’altruità delle somme accantonate (cfr. Cass. pen., n.
5785/99).
Il principio espresso, sebbene
sovvertito con la nota sentenza S.U. Li Calzi, nondimeno
è stato di recente ripreso dalle sentenze più recenti.
Il riaffiorare, dunque, del
contrasto giurisprudenziale, nonostante la pronuncia del
2004, ha spinto la Suprema Corte ad affrontare, ancora
una volta a Sezioni Unite, la questione.
Il secondo orientamento parte da un
presupposto diverso rispetto al precedente indirizzo
interpretativo, che ravvisa nelle somme trattenute un
vinculum iuris di destinazione.
Secondo l’ultima tesi, le somme di
denaro che il datore di lavoro trattiene per sé non
costituiscono parte del patrimonio del dipendente, ma
restano nella esclusiva disponibilità del datore di
lavoro-possessore.
Due sono le ragioni su cui si fonda
tale iter argomentativo.
Da un lato, la quota retributiva
trattenuta, non viene mai materialmente versata al
lavoratore; dall’altro, mai potrebbe esserlo, avendo il
dipendente soltanto il diritto di percepire la
retribuzione al netto delle trattenute alla fonte dal
datore di lavoro.
Dacché, le trattenute oggetto del
reato di appropriazione indebita si risolverebbero,
tutt’al più,
in un’operazione meramente
contabile diretta a determinare l’importo effettivo
della somma che il datore di lavoro è obbligato a
versare al lavoratore a titolo di retribuzione (Cass.
pen. 4.3.2010, n. 15115).
L’insegnamento in commento, quindi,
pone alla base del suo ragionamento la relazione
giuridica che intercorre tra la somma vincolata ed il
patrimonio del datore di lavoro, che qui riveste al
contempo anche la funzione di debitore ceduto.
Ebbene, a sostegno del principio
espresso, la Suprema Corte a Sezioni Unite osserva che
“non v’è dubbio che al momento del sorgere
dell’obbligazione tale somma sia rappresentata da una
quota ideale del suo patrimonio, indistinta da tutti gli
altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo.”
Se, dunque, il datore di lavoro si
assume l’obbligo giuridico di impiegare denaro o cose
facenti parte del suo patrimonio, ove risulti
inadempiente, sarà al massimo responsabile per
l’inadempimento civile, non potendogli essere imputata
alcuna condotta appropriativa, mancando proprio il
presupposto dell’altruità della cosa.
Ne consegue, a contrariis, che solo
ove l’inadempiente riceva il denaro o la cosa per
impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la
sua condotta di apprensione e sottrazione del bene alla
destinazione integrerà il delitto di cui all’art. 646
c.p..
Ciò che rileva, in sostanza, è
l’origine del denaro o della cosa oggetto del reato,
sicchè la provenienza dall’esterno rispetto al
patrimonio dell’agente dell’oggetto materiale del reato,
rappresenta il discrimine tra le condotte sanzionate
penalmente e quelle che integrano, invece, un mero
inadempimento di natura civilistica.
Va, dunque, ribadita la regola
secondo la quale, mancando un conferimento di denaro ab
externo, il mero inadempimento ad opera del datore di
lavoro dell’obbligazione di consegnare una somma di
danaro, ad uopo trattenuta dalla busta paga del
lavoratore, ad un creditore cessionario da questi
individuato, non integra la nozione di appropriazione
indebita.
La Corte di Cassazione a Sezioni
Unite, in conclusione, a sostegno delle ragioni qui
espresse ha stabilito che “non può rispondere del
delitto in questione colui che non adempia ad
obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte
con quote del proprio patrimonio non conferite e
vincolate a tale scopo” (Cass. pen. SS.UU, 25 maggio
2011 n. 37954). |