a cura di avv. Margherita Corriere
*
Le politiche sociali sono sempre
state considerate la cenerentola delle politiche, eppure
hanno un ruolo prioritario nella qualità della vita del
soggetto disabile in difficoltà. Oggi si vive per più
anni e questo comporta l'aumento della percentuale delle
invalidità. La condizione e la qualità di vita di
persone con disabilità sono ancora oggi veramente
precarie; si parla spesso di integrazione, di supporti
alla disabilità, di tutela dei diversamente abili, ma
molto c'è ancora da fare.
Già se si osservano gli importi
medi annui delle pensioni di disabilità si può avere una
visione non propria rosea del supporto di tipo monetario
che lo Stato offre alle persone disabili. I benefici di
tipo monetario rimangono infatti la principale tipologia
di supporto e rappresentano ad oggi ancora una delle
poche fonti che consente di dimensionare la condizione
economica delle persone con disabilità. I corrispettivi
valori in Italia sono mediamente di 2.252.574 maschi
disabili che percepiscono in media 12.334 euro annui di
pensione, 2.464.306 femmine che percepiscono in media
11.130 euro l'anno, per un totale di 4.716.880 disabili
e una pensione media di 11.705 euro l'anno.
Alla Calabria - secondo un rapporto
nazionale - spetta il primato negativo della minore
spesa pro capite per assistenza sociale ai disabili: a
fronte di una media italiana di 2.184,3 euro l'anno per
le persone con disabilità, la spesa sociale che ha come
utenza la popolazione disabile in Calabria è di appena
326,4 euro pro capite. Le politiche sociali relative
alla disabilità hanno subito in modo particolare la
concezione assistenzialistica e di custodia, poiché la
disabilità viene troppo spesso erroneamente considerata
malattia e, come tale, è privata dalla concezione
essenziale che fa intravedere una prospettiva inclusiva:
quella secondo cui la disabilità è la conseguenza della
malattia e, al di là delle limitazioni con cui bisogna
fare i conti, la persona con disabilità può vivere una
vita dignitosa se accompagnata da un sostegno mirato e
in molti casi diventare soggetto attivo e produttivo.
La Legge 104/92, "Legge-quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate", specialmente nel meridione, non è
mai stata recepita nel suo vero significato e nella sua
autentica ratio. Ad oggi, in tal senso, non sono bastate
le pressioni del mondo associativo. L'assenza di
adeguati servizi per numero e qualità di standard, nel
territorio, ha favorito la permanenza di risposte di
tipo prettamente assistenzialistico. Infatti, se andiamo
a verificare la situazione esistente, ci accorgiamo che
i servizi che hanno trovato più spazio e diffusione sono
le Residenze Sanitarie Assistenziali, i Centri Diurni
Riabilitativi e la Riabilitazione ambulatoriale: tutti
servizi riconducibili all'area del diritto alla salute.
Per il resto, abbiamo una frammentazione di servizi
territoriali, come ad esempio i Centri Socio-Educativi e
dell'Assistenza Domiciliare, concentrati particolarmente
nelle zone in cui è più presente l'associazionismo
attivo e fattivo.
Molti Centri Socio-Educativi per
persone diversamente abili sono organizzati dalle
associazioni di familiari di persone con disabilità e
usufruiscono di contributi dei Comuni o di donazioni.;
altri sono promossi dagli enti locali; altri ancora sono
gestiti da associazioni non-profit, in convenzione con
il pubblico. L'assistenza domiciliare si è sviluppata in
particolar modo negli ultimi anni, ed è andata a
sostituire il servizio di aiuto alla persona, garantito
con i fondi della Legge 162/98.La Legge 328/2001, "Legge
quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali" prevede la realizzazione
di "Piani regionali degli interventi e dei servizi
sociali e indirizzi per la definizione dei Piani di
zona.
Nulla di valido potrebbe essere
realizzato senza tenere nel dovuto conto l'assetto
organizzativo dei servizi alla persona e le linee
metodologiche e strumenti per la predisposizione del
Piano di Zona. Probabilmente tali strumenti sono
insufficienti e, comunque, non hanno prodotto l'effetto
sperato nell'avvio dei Piani di Zona in Calabria, come
nelle altre realtà regionali. C'è da rilevare che, con
l'avvio dei piani di zona, i Comuni hanno ricevuto
ingenti fondi da gestire, non solo quelli del fondo
indistinto, ma anche quelli per la non autosufficienza ,
quelli relativi all'impegno delle donne in difficoltà
nei servizi di assistenza domiciliar e quelli per gli
anziani gravi allettati. Ma una autentica buona politica
sociale potrà essere raggiunta solo con una costruttiva
concertazione e attraverso scelte condivise e legate ai
bisogni delle persone e dei territori e il
coinvolgimento delle parti sociali.
Ma tutto questo potrebbe non
bastare. Potrà essere necessario ridisegnare la mappa
delle risorse e dei bisogni, dandosi l'obiettivo di
garantire un'eguale opportunità a tutte le persone
disabili e alle loro famiglie. È fondamentale che ci sia
una campagna di sensibilizzazione che favorisca
l'integrazione nel substrato sociale delle persone
portatrici di handicap e si realizzino interventi
specifici mirati allo stato di disabilità della persona.
Bisogna riflettere anche sull'importanza di creare pari
opportunità a tutela dei disabili: oggi una persona con
grave disabilità che vive in un piccolo paesino interno
non ha le stesse opportunità di una persona con le
stesse caratteristiche che vive in una città.
I singoli Comuni hanno sempre
operato in base alle risorse economiche e alla relazione
con le risorse del territorio. Molti piccoli Comuni non
hanno neppure l'assistente sociale e una voce in
bilancio finalizzata alle politiche sociali. Altri si
limitano a dare piccoli contributi a pioggia alle
famiglie in difficoltà che chiedono abitualmente tali
interventi. Questo modo di affrontare i bisogni locali
ha favorito nei piccoli Comuni una rete stabile di
relazioni, riconosciute dalla cittadinanza, che
individua nel primo cittadino più un benefattore che il
Sindaco.
Ma i disabili non sono dei
beneficiati, sono soggetti di diritto,che pretendono
l'applicazione della legge e di essere trattati come
cittadini pari agli altri e non di serie b o c.
Dobbiamo attuare un costante e
lungo cammino di civiltà affinché la persona disabile si
riappropri dei suoi diritti ed in primis del diritto a
vivere una vita di senso e non a lasciarsi vivere in
maniera passiva. La disabilità è una condizione
dell'essere umano e come tale deve essere accettata, ma
non può restare solo come fonte di sofferenza; occorrono
interventi che diano l'opportunità alle persone con
disabilità di vivere una vita di senso: non ghetti ma
luoghi di vita, luoghi in cui le persone disabili si
sentano parti della comunità, componenti attivi della
società. Sono indispensabili percorsi che aiutino le
persone con disabilità a comprendere e utilizzare le
loro potenziali abilità e a diventare soggetti attivi
nella società.
La disabilità diventa insostenibile
se vissuta nella solitudine e nell'abbandono. È
importante il sostegno attraverso una rete di servizi e
di relazioni umane che favoriscano l'inclusione sociale.
E mi sia permesso di sottolineare che l'integrazione e
lo sviluppo delle potenzialità residue comincia dalla
scuola. Ma quali opportunità oggi concede agli studenti
diversamente abili e, soprattutto a quelli portatori di
handicap in situazione di gravità? Molteplici volte
abbiamo evidenziato come sia la legislazione nazionale
(legge 104/1992) che le varie normative internazionali,
tra cui da ultimo la dichiarazione internazionale dei
diritti delle persone disabili, sottolineano
l'importanza della formazione scolastica, del diritto
allo studio del minore disabile grave, mediante il
supporto del docente di sostegno con rapporto
individualizzato 1:1.
Ma attualmente anche dopo la
sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 2010
purtroppo viene spesso negato il diritto allo studio dei
disabili gravi: a costoro spesso viene negato di
usufruire del sostegno con rapporto individualizzato,
dovendo accontentarsi di 11-12 ore settimanali. Anche
quest' anno ci siamo imbattuti in numerosi casi di tal
genere, che sono di una gravità inaudita. Sono
molteplici, ma quelli veramente più gravi sono quelli
che riguardano minori disabili gravi che passano ad un
corso superiore (es . dalla scuola dell'infanzia alla
primaria) e che, all'improvviso, nel nuovo anno
scolastico, devono sopportare il nuovo carico scolastico
depauperati dalla presenza dell'insegnante di sostegno
con rapporto 1:1.
Si possono intuire i gravosi
problemi quando l'alunno viene supportato dal docente di
sostegno solo per 11 ore settimanali: ci saranno dei
giorni in cui lo studente rimane senza il valido ausilio
e si troverà in balia di se stesso alla mercé di docenti
curriculari, che, nonostante la loro buona volontà, non
saranno in grado di badare contemporaneamente a lui e
all'intera classe. È allora che lo studente disabile
comincerà a provare disagio, si sentirà isolato,
abbandonato, discriminato… E magari ci saranno le volte
in cui qualcuno a scuola "consiglierà " ai genitori di
non portarlo a scuola quel tot giorno in cui non c'è
l'insegnante di sostegno…
Ma tutto questo non può essere
permesso, i diritti non hanno handicap; i diritti
fondamentali, quali quello allo studio, allo sviluppo
della propria personalità, devono essere garantiti e
tutelati. Proprio per questo sono stati avviati dei
ricorsi antidiscriminazione a tutela dei disabili:
abbiamo questa normativa , procediamo e facciamo valere
i diritti dei disabili. Infatti le scuole che riducono
le ore del sostegno rispetto al precedente anno
scolastico compiono una discriminazione e devono
ripristinare il monte ore stabilito per l'anno
precedente, ai sensi della Convenzione Onu e della
importante legge n.67 del 2006 (normativa contro le
discriminazioni perpetrate nei confronti di persone
portatrici di grave handicap).
Per primo si è pronunciato il
Tribunale di Milano che ha accolto il ricorso proposto
da Ledha e da un gruppo di genitori contro i tagli al
sostegno scolastico degli alunni disabili. Il Tribunale
ha dichiarato che ridurre le ore di sostegno assegnate
ad uno studente portatore di handicap l'anno precedente,
senza una motivazione di carattere pedagogico, ma solo
per ragioni di risparmio, è discriminazione verso gli
alunni con disabilità. Ha specificato poi che non vi
sarebbe stata discriminazione se fossero state ridotte
le ore di scuola a tutti gli alunni della classe. Ma il
fatto oggettivo di avere invece ridotto solo le ore di
sostegno agli alunni con disabilità pone questi ultimi
in condizione di disuguaglianza nei confronti dei
compagni.
L'esistenza di un diritto
soggettivo "incomprimibile" del disabile a un adeguato
sostegno scolastico era già stata affermata in varie
pronunce dei TAR e anche dalla Corte Costituzionale
nella sentenza 80/2010, ma la decisione del Tribunale di
Milano è importante perchè è la prima che si è
pronunciata in una causa che ha utilizzato la speciale
procedura della "azione civile contro la
discriminazione" introdotta dapprima dal D.Lgs. 216/2003
per la discriminazione del disabile in ambiente di
lavoro e estesa poi dalla L. 67/2006 a tutti gli ambiti
della vita sociale e dunque anche alla scuola.
Il Tribunale di Milano, nella sua
ordinanza ha sottolineato che, anche sulla base della
convenzione ONU 13.12.2006 recepita con la legge 18/2009
il divieto di discriminazione comporta non solo il
riconoscimento di una astratta "parità", ma anche
l'obbligo per la pubblica amministrazione di porre il
disabile in condizioni tali da poter effettivamente
esercitare i diritti fondamentali, tra i quali appunto
il diritto all'istruzione. La decisione ha quindi una
importanza fondamentale ed è utilizzabile per
intraprendere nuove azioni antidiscriminazione in tutta
Italia.
Osservatorio : rapporto sulla
Disabilita' 2011 - 3
a cura di avv. Margherita Corriere*
Si segnala una interessante
pronuncia del Giudice Tutelare del Tribunale di Varese
che evidenzia come il diritto alla sessualità sia un
diritto inviolabile, tutelato dalla Costituzione, da
riconoscere anche alle persone adulte con disabilità
psichiche, non potendosi la misura di protezione (nel
caso di specie: l'interdizione) tradursi in un
"esproprio" dei diritti fondamentali dell'individuo.
Testualmente afferma il decreto del
24 ottobre 2011 che "almeno dalla riforma dei delitti
sessuali del 1996, il Legislatore ha voluto riconoscere
il diritto alla affettività e alla sessualità anche alle
persone affette da minorazione fisica o psichica.
Riconoscimento che la legislazione contemporanea più
recente ha amplificato e ribadito. E' sufficiente far
riferimento alla Convenzione sui diritti delle persone
con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, e
ratificata dall'Italia per effetto degli artt. 1 e 2
della legge 3 marzo 2009 n. 18. Il trattato in esame
riconosce espressamente l'importanza per le persone con
disabilità della loro autonomia ed indipendenza
individuale, compresa la libertà di compiere le proprie
scelte".
È stato precisato il principio che
il diritto soggettivo inviolabile non può essere
"congelato" in conseguenza della misura di protezione
giuridica dell'adulto incapace , specificando che non è
in questione il diritto del disabile alla sessualità, ma
può venirne in rilievo il suo concreto esercizio, nel
senso che potrebbe risultare che la sessualità non è
consapevolmente vissuta dall'interdetto il quale non è
"soggetto" della situazione sessuale ma "oggetto".
Pertanto Il Giudice tutelare può, invece, intervenire
dove accerti che la sessualità è vissuta dall'interdetto
non come soggetto ma come "oggetto", nel senso, cioè,
che vi sia il rischio di violenze, abusi o sfruttamento
della situazione di vulnerabilità.
A proposito di salvaguardia
dell'integrità psicofisica delle persone disabili è bene
ricordare le importanti sentenze che hanno posto
l'attenzione sulla tutela di persone diversamente abili
vittime di abusi e violenze sessuali.
In particolare segnaliamo la
sentenza del 2dicembre 2011 emessa dal Gup del Tribunale
di Cosenza, dott. Salvatore Carpino nel cosiddetto
processo contro gli Orchi: sono state comminate condanne
per mezzo secolo di carcere; infatti il Gup ha irrogato
pene pesanti nei confronti dei nove imputati che hanno
scelto d'essere giudicati col rito abbreviato. La
condanna più alta è stata di sette anni di reclusione
più l'interdizione dai pubblici uffici. Dagli atti
emerge una storia turpe e atroce di tredici uomini che
avrebbero abusato in maniera tremenda di un ragazzo
affetto da disturbi mentali. È una storia che va al di
là di ogni immaginazione, una storia di orrori e degrado
emerso chiaramente anche dalle confessioni che alcuni
degli indagati avevano reso davanti al Pubblico
Ministero, dott. Tridico.
A Roma, invece, un assistente
scolastico di 38 anni, è stato condannato dal Tribunale
a 2 anni e mezzo di reclusione e all' interdizione
perpetua da ogni ufficio in strutture frequentate da
minori, comprese le scuole. Gli episodi risalgono al
2008 quando l' uomo, in servizio in un istituto
riservato a ragazzi con handicap, avrebbe abusato,
toccandolo nelle parti intime, di un adolescente di 16
anni con disturbi psichici.
A Monza è stata condannata a otto
anni di reclusione per violenza sessuale aggravata una
neuro-psicomotricista, accusata di aver abusato di una
bambina di otto anni. Per la donna, il PM Vincenzo
Nicolini aveva chiesto 10 anni di reclusione basandosi
sulla testimonianza della piccola, portatrice di
handicap fisico e mentale. Tutto ebbe inizio quattro
anni fa: la piccola paziente, seguita dall'imputata,
dopo qualche mese confidò ai genitori di aver ricevuto
particolari attenzioni durante la terapia. I genitori
presentarono immediatamente denuncia alla Procura di
Monza, accusando la donna di aver palpeggiato la figlia,
un comportamento che basta ad a integrare il reato
previsto dall'articolo 609 bis del codice penale, che
disciplina il reato di violenza sessuale.
Queste sentenze sono molto
importanti, in quanto evidenziano come sia cresciuta
l'attenzione verso la tutela concreta, in campo
processuale, delle persone affette da handicap motorio o
psichico, però è importante anche attivare e ottimizzare
al meglio la prevenzione contro tali reati, cercando di
combattere anche il degrado sociale e morale di alcuni
ambienti dove vengono perpetrati alcuni di questi reati,
anzi direi i più orribili. Cambiando argomento, ma
trattando sempre di fondamentali diritti del disabile,
quale il diritto al lavoro, nel 2011 si è avuta
l'interessante sentenza della Corte di Cassazione,
sezione Lavoro n.17720, che statuisce i seguenti
importanti principi:
1- nell'ipotesi di rapporto di
lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi
della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a
malattie collegate con lo stato di invalidità non
possono essere computate nel periodo di comporto, ai
fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro
ex art. 2110 cod. civ., se l'invalido sia stato
destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni
fisiche (in violazione dell'art. 20 della legge n. 482
del 1968), derivando in tal caso l'impossibilità della
prestazione dalla violazione da parte del datore di
lavoro dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del
lavoratore (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23
aprile 2004, n. 7730);
2 - al fine di accertare
l'obiettiva incompatibilità fra le malattie che
determinano le assenze dal lavoro e la condizione di
invalidità del dipendente assunto obbligatoriamente, non
si può non prendere in considerazione il principio
dell'equivalenza causale di cui all'art. 41 cod. penale
che trova applicazione anche nel settore degli infortuni
sul lavoro e delle malattie professionali e, comunque,
rispetto agli obblighi di tutela ex art. 2087 cod. civ.,
imponendo di riconoscere un ruolo di concausa anche ad
elementi che, in ipotesi, possano avere una influenza
causale minima ;
3- sia le assenze derivanti da
malattie aventi un collegamento causale diretto con le
mansioni svolte dall'invalido, sia le assenze derivanti
da malattie rispetto alle quali le mansioni svolte
abbiano solo un ruolo di concausa devono essere escluse
da quelle utili per la determinazione del periodo di
comporto, tenuto conto sia del diritto del lavoratore -
tanto più se invalido - di pretendere, sia,
correlativamente, dell'obbligo del datore di lavoro di
ricercare una collocazione lavorativa idonea a
salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto
dell'organizzazione aziendale in concreto realizzata
dall'imprenditore (arg. ex: Cass. 30 dicembre 2009, n.
27845 cit.);
4 - in particolare, nel caso di un
rapporto di lavoro instaurato con un prestatore
invalido, assunto obbligatoriamente a norma della legge
2 aprile 1968 n. 482. il datore di lavoro, che a norma
dell'ex art. 2087 cod. civ. deve adottare tutte le
misure necessarie per l'adeguata tutela dell'integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore, deve
in ispecie in osservanza delle disposizioni della detta
legge far sì che le mansioni alle quali il lavoratore
invalido viene adibito siano compatibili con la sua
condizione;
5 - in questo ambito, gli
accertamenti sanitari di cui all'art. 5 della legge n.
300 del 1970, attengono proprio all'interesse del datore
di lavoro di controllare l'idoneità fisica del
lavoratore, diversamente dagli accertamenti sanitari
previsti dalle norme concernenti particolari istituti
della sicurezza sociale, che sono finalizzati a
soddisfare l'interesse del lavoratore ad un determinato
trattamento previdenziale-assicurativo diretto a
soccorrere o ad attenuare lo stato di bisogno
conseguente alle menomate condizioni di salute.
6 - Tali principi trovano
fondamento nella Costituzione ( artt. 3, 32, 38, terzo
comma) e devono essere oggetto di applicazione ancora
più rigorosa in conseguenza dell'evoluzione normativa di
origine internazionale e UE che si è avuta in questa
materia. Infatti, la Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea (detta anche Carta di Nizza) è stata
originariamente proclamata a Nizza nei 2000 e, pure
prima che le venisse attribuito il valore giuridico dei
trattati (col Trattato di Lisbona), ad essa era stato
riconosciuto "carattere espressivo di principi comuni
agli ordinamenti europei" (Corte costituzionale,
sentenze n. 135 del 2002, n. 393 e n. 394 del 2006)
avente quindi, come tale, valore di ausilio
interpretativo.
In merito alla gestione del
servizio educativo-assistenziale alla persona a favore
degli studenti disabili frequentanti la scuola
secondaria di secondo grado si porta all'attenzione il
Parere della Corte dei Conti 8 -Lombardia n. 576/2011.
La Corte dei Conti, in particolare, conferma che il
servizio di trasporto degli alunni disabili rientra nel
concetto di "supporto organizzativo per l'integrazione
scolastica" e, richiamando il principio di
sussidiarietà, ribadisce l'onere del Comune di attivarsi
per evitare l'interruzione del servizio, salvo poi
chiedere alla Provincia il rimborso delle spese
sostenute. La Corte dei Conti sottolinea che spetta alla
Regione la competenza legislativa nell'ambito dei
principi fissati dalla legge statale, incardinando nelle
Province i servizi di supporto organizzativo del
servizio di istruzione per gli alunni disabili.
In particolare la Corte afferma che
"Appare evidente l'intenzione del legislatore nazionale,
seguita dal legislatore regionale, di distinguere dai
servizi sociali i servizi di supporto organizzativo dal
servizio di istruzione, legando questi ultimi alle
competenze in materia di istruzione scolastica. Essi,
pertanto, per la specialità della previsione normativa
finalizzata ad assicurare l'effettività del diritto
all'istruzione, non possono essere inseriti nell'ambito
dei servizi di integrazione sociale."
La Corte dei Conti, pertanto, non
assegna al Comune la competenza dell'assistenza
scolastica agli alunni disabili delle superiori, anzi
esclude che la materia possa rientrare nell'ambito dei
servizi di integrazione sociale, tipicamente assegnati
ai Comuni, ma rinvia all'ambito scolastico la competenza
in proposito. C'è da rilevare che l'ANCI Lombardia ha
manifestato la propria volontà di segnalare agli organi
competenti il richiamo agli obblighi in materia di
istruzione, auspicando modelli convenzionali tra
Regione, Provincia e Comune per l'attuazione degli
interventi richiesti ed invitando i Comuni a proseguire
nella collaborazione alla gestione del servizio di
trasporto, chiedendo alla Provincia il rimborso delle
spese sostenute, distinguendo quelle per il trasporto da
quelle per l'assistenza. In merito alle spese per
terapie di riabilitazione si segnala la sentenza della
Corte di Cassazione , sezione Lavoro, n.17541 del
23.06.2011. Ecco l'antefatto della sentenza: Il giudice
del lavoro del Tribunale di Firenze, aveva condannato
l'Azienda Sanitaria all'erogazione gratuita in favore di
un cittadino della terapia per recupero motorio,
denominata "Dikul" per tutto il tempo necessario alla
stessa. Ma l'Azienda promuoveva appello.
Il giudice di appello confermava la
sentenza di primo grado e motivava la decisione di
rigetto osservando che non esisteva un margine di
discrezionalità dell'amministrazione sanitaria nei casi,
quali quello di specie, nei quali la richiesta di
intervento economico era giustificata da motivi di
urgenza o dalla necessità di evitare pregiudizi gravi o
irreversibili, che la sussistenza del diritto al
rimborso delle spese andava parametrata alla sussistenza
dei soli presupposti di legge e che, tra questi, quello
dell'efficacia doveva essere valutato unitamente a
quello della appropriatezza, inteso nel senso di un
confronto tra i risultati positivi della cura e
eventuali riflessi negativi della terapia stessa sulle
condizioni di vita del paziente. L'Azienda Sanitaria
promuoveva ricorso per Cassazione, rappresentando che
non sussistevano nella fattispecie i motivi di urgenza
per la richiesta dell'intervento economico connesso alla
particolare terapia medica di cui trattasi, tali da
consentire la mancanza della discrezionalità
dell'amministrazione sanitaria in ordine allo
stanziamento della relativa spesa e che non sussisteva
neppure il pericolo di un pregiudizio grave o
irreparabile.
Ma la Corte di Cassazione, con
l'importante sentenza, rigettando il ricorso, ha
ribadito che, data la dimensione di diritto assoluto e
primario, costituzionalmente garantito, della situazione
soggettiva fatta valere, questa non poteva essere
definitivamente sacrificata o compromessa, per cui
allorquando si prospettano motivi di urgenza
suscettibili di esporla a pregiudizi gravi e
irreversibili, alla pubblica amministrazione manca
qualsiasi potere discrezionale di incidere su tale
diritto Pertanto la Corte ribadisce il diritto all'
erogazione a carico del SSN di cure tempestive non
ottenibili dal servizio pubblico, allorquando siano
prospettati motivi di urgenza suscettibili di esporre la
salute a pregiudizi gravi e irreversibili, accertati
sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina
dettata in materia sanitaria dall'art. 1 del d.lgs. 30
dicembre 1992, n. 502, nel testo modificato dall'art.
1del decreto_legislativo_229_1999.
Con la decisione n. 1607 del 2011
il Consiglio di Stato ha preso posizione su un problema
di grande rilievo economico e sociale, quello del costo
dei servizi sociali a favore dei disabili, in
particolare, delle rette per le residenze sociali
assistite, RSA. La querelle era sul punto se sia
legittimo per regioni ed enti locali considerare, nella
determinazione di tali costi e rette, la situazione
economica della famiglia dell'assistito, nonché
pretendere il coinvolgimento dei familiari nei relativi
pagamenti. Il Consiglio di Stato ritiene legittimo
considerare la situazione economica dei familiari e
attendersi che questi aiutino l'assistito nel
partecipare ai costi del servizio, tuttavia questa tesi
è accompagnata da importanti precisazioni e,
soprattutto, eccezioni.
Ecco le precisazioni:
1- i crediti alimentari rimangono
strettamente personali, sicché il comune non può
sostituirsi al titolare nel loro esercizio, ma può solo
pretendere che essi siano dichiarati e attivati.
2- il sistema della previsione
regolamentare locale "lascia fermo" l'obbligo per il
comune di valutare quelle situazioni, in cui la
condizione di bisogno permane anche a causa di una
obiettiva inerzia dei soggetti obbligati o dei
familiari"; il che sembra riferirsi non solo ai casi in
cui i crediti alimentari non esistono, ma anche a quelli
in cui essi non sono esigibili o comunque non sono
prontamente accessibili alla persona non
autosufficiente.
Ed ecco poi le eccezioni: - L'art.
3, co. 2-ter, del d.lgs. n. 109 del 1998 (introdotto dal
d.lgs. correttivo e integrativo n. 130 del 2000) ha
previsto norme speciali per l'accesso di disabili gravi
e persone ultrasessantacinquenni (non autosufficienti) a
prestazioni inserite in percorsi integrati di natura
sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente
residenziale, di tipo diurno oppure continuativo. In
questi casi, la disciplina generale dell'ISEE si applica
nei limiti che avrebbero dovuto essere stabiliti con un
apposito decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri.
Tale decreto avrebbe dovuto essere
adottato "al fine di favorire la permanenza
dell'assistito presso il nucleo familiare di
appartenenza e di evidenziare la situazione economica
del solo assistito, anche in relazione alle modalità di
contribuzione al costo della prestazione", ma non è
stato mai emanato. In sua assenza, deve ritenersi
comunque vincolante per regioni ed enti locali la regola
di evidenziare la situazione economica del solo
assistito, e quindi non la situazione economica
familiare. Pertanto secondo il Consiglio di Stato "anche
in attesa dell'adozione del decreto, sia il legislatore
regionale sia i regolamenti comunali devono attenersi ad
un principio, idoneo a costituire uno dei livelli
essenziali delle prestazioni da garantire in modo
uniforme sull'intero territorio nazionale, attendendo
proprio ad una facilitazione all'accesso ai servizi
sociali per le persone più bisognose di assistenza".
Non si può ultimare questa rassegna
senza citare la sentenza della Corte Costituzionale
n.329 del 16 dicembre 2011, che ha dichiarato
l'incostituzionalità dell'art.80 c.19 della legge n.
388/2000 - Legge finanziaria 2001- nella parte in cui
subordina l'erogazione dell'indennità di frequenza per i
minori extracomunitari alla titolarità della carta di
soggiorno.
L'introduzione dell'art. 80 c.19
della legge finanziaria 2001 limitava l'accesso a tale
beneficio economico solo ai minori invalidi
extracomunitari titolari di carta di soggiorno (o
permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti). La
Consulta ha evidenziato come tale discriminazione è
incompatibile con i principi sanciti dalla Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità, ratificata dall'Italia con legge 3 marzo
2009 n.18 e richiamata dalla stessa Corte nell'
ordinanza n.285/2009 in cui veniva censurata la parte
relativa all'indennità di frequenza.
Nella sentenza, la Corte non ha
mancato di sottolineare il diritto alla tutela
psico-fisica della persona disabile, affermando che: "il
contesto in cui si iscrive la indennità di frequenza è,
dunque, quanto mai composito e costellato di finalità
sociali che coinvolgono beni e valori, tutti, di
primario risalto nel quadro dei diritti fondamentali
della persona. Si va, infatti, dalla tutela della
infanzia e della salute alle garanzie che devono essere
assicurate, in situazioni di parità, ai portatori di
handicap, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita
accettabili per il contesto familiare in cui il minore
disabile si trova inserito, coinvolgendo al tempo stesso
l'esigenza di agevolare il futuro progresso del minore
nel mondo del lavoro e la partecipazione attiva alla
vita sociale".
L'Osservatorio, per questo nuovo
anno, si augura che la società e le istituzioni tutte
prendano sempre più coscienza dei diritti dei disabili e
che una autentica cultura del rispetto e dell'attenzione
verso il diverso si diffonda: la diversità deve essere
sempre di più intesa come risorsa, come potenzialità di
capacità indispensabili per una sana e coerente crescita
del substrato di una collettività. |