Nel merito.it
Da giugno lo spread – o meglio il
tasso d’interesse sul nostro debito pubblico – ha
iniziato a salire in modo allarmante e si sono
susseguite quattro “manovre” con l’obiettivo di azzerare
il disavanzo del settore pubblico nel 2013, nella
speranza che ciò avrebbe riportato fiducia sui mercati.
E’chiaro infatti che, se non vi
sarà una sensibile riduzione dei tassi pagati dallo
stato, alla lunga aumenterà il rischio di un default e/o
un’uscita dall’euro. Tutta l’attenzione, nei dibattiti
di politica economica, è stata rivolta dunque al
problema del debito pubblico e del rapporto debito/PIL.
Non potendo ridurre più di tanto il
numeratore, si invoca una aumento del denominatore:
politiche per la crescita che, aumentando il PIL,
riducano il peso relativo del debito. Le misure per
ridurre il disavanzo hanno però effetti recessivi che
rischiano di innescare un circolo vizioso. Ma
quand’anche si riuscisse a riportare in crescita il PIL
reale, ad esempio incentivando gli investimenti in
infrastrutture, ed a far crescere il PIL nominale ad un
tasso più elevato del tasso d’interesse sul debito
pubblico complice un’inflazione indotta dall’aumento
delle accise e dell’IVA, quand’anche si riuscisse così
a stabilizzare e poi ridurre gradualmente il rapporto
debito/PIL, potremmo pensare di essere usciti
dall’emergenza? No, perché c’è un altro vincolo di cui
non si parla ormai più da tempo, quello estero.
Prima dell’euro, si era abituati a
considerare il saldo della bilancia dei pagamenti (BoP)
come uno dei limiti più rilevanti alla crescita del PIL:
oltre certi tassi di crescita la BoP andava in disavanzo
e costringeva a politiche monetarie e/o fiscali
restrittive per evitare o contenere la svalutazione del
cambio. Con l’introduzione dell’euro ci si è per così
dire dimenticati del vincolo estero: disavanzi nella
bilancia corrente venivano “automaticamente” compensati
con afflussi netti di capitale e non era più necessario
né possibile, per alcun paese, intervenire sul cambio.
Ma da giugno, da quando il mercato ha iniziato a
“prezzare” un rischio paese Italia, la situazione è
cambiata perché un euro prestato a residenti italiani,
pubblici o privati, è percepito come diverso da un euro
prestato a residenti tedeschi. Sul mercato finanziaro lo
“spread” tra Germania ed Italia è tornato ai livelli
precedenti l’introduzione dell’euro: sotto questo
aspetto potremmo dire che siamo già tornati alla lira!
Indebitarci ci costa molto di più,
ma per coprire il disavanzo di parte corrente siamo
costretti ad aumentare il debito netto (pubblico o
privato) verso l’estero. Il disavanzo di parte corrente
dell’Italia è salito progressivamente da 11 miliardi nel
2004 a 54 miliardi nel 2010 sino a 59 miliardi nei soli
primi nove mesi del 2011. Questo disavanzo è stato
coperto sinora prevalentemente con indebitamento
bancario, oltre che collocando nuovo debito pubblico
all’estero; ma per quanto ancora, ed a che costi,
riusciremo a finanziare un disavanzo corrente che
viaggia ormai vicino al 4% del PIL?
Anche se riuscissimo a raggiungere
il pareggio di bilancio, come riusciremo a ridurre il
disavanzo della BoP? Occorrerebbe un fortissimo recupero
di competitività sull’estero, senza il quale ci
avviteremo in una spirale perversa di tassi d’interesse
sempre più alti e progressive cadute del PIL. E’
possibile recuperare tanta competitività restando
nell’euro? Mi pare che questo, molto più che il pareggio
del bilancio pubblico o la crescita del “denominatore”,
dovrebbe essere il punto focale della politica
economica nell’immediato futuro.
Per accrescere la competitività si
può intervenire in molte direzioni: minore fiscalità
sulle imprese, alleggerimento dei costi burocratici,
giustizia civile, ricerca, maggior concorrenza nei
servizi, politiche industriali (ad esempio tagliando gli
enormi sussidi alle energie rinnovabili) etc. Tutte
misure che richiedono tempi lunghi sia per essere
introdotte sia per esplicare effetti significativi. Il
costo del lavoro resta comunque un fattore determinante.
Il Governo punta ad accrescerne la flessibilità ma
interventi in questa direzione non possono portare
nell’immediato a sensibili riduzioni nel costo del
lavoro ed anzi alcune proposte, come quella del senatore
Ichino, potrebbero accollare maggiori costi alle
imprese. Bisognerebbe piuttosto avere il coraggio di
dire al paese che, per restare nell’euro, occorre una
pesante “politica dei redditi” che preveda ad esempio il
congelamento per alcuni anni di tutti i salari
medio/bassi e la riduzione di quelli oltre un certo
livello. Una medicina tanto amara è già stata
sperimentata con successo da alcuni paesi baltici, e
forse potrebbe essere accettata anche dagli italiani se
venisse proposta nell’ambito di un grande “patto” che
includa anche severi tagli a tutte le grandi sacche di
privilegio, a cominciare dai costi della politica.
Purtroppo non pare che nemmeno questo governo sia in
grado di ottenere granchè in questa direzione. |