Nel merito.it
Negli ultimi mesi, l’equità è
diventata il valore clou del dibattito pubblico
italiano, capace di unire destra e sinistra, governo e
opposizione, sindacati e partiti. La cosa non stupisce.
Già scriveva Hume come le questioni
di giustizia distributiva insorgano a causa della
scarsità delle risorse: il contesto attuale si dimostra,
dunque, particolarmente ospitale al valore. Il pericolo,
tuttavia, è che l’equità diventi un mantra
tranquillizzante, sotto il quale si cela la difesa dei
propri credi se non addirittura dei propri interessi. Il
che preoccupa non solo per ragioni di correttezza
terminologica. Il pericolo è quello di svuotare un
criterio fondamentale per la pratica democratica,
accettando come eque posizioni che con l'equità hanno
ben poco a che fare, mentre si trascurano le scelte più
esigenti che l'equità potrebbe richiedere.
L’idea centrale, al cuore
dell’equità, è che le pretese pubbliche siano
giustificate sulla base di argomentazioni accettabili
per la generalità dei soggetti che potremmo essere: nei
termini di Nagel, abbandonando il primo pronome
personale per abbracciare il primo pronome plurale o,
nei termini di Veca, assumendo il punto di vista
dell’individuo chiunque. La ragione che spinge a porsi
in questo modo nei confronti degli altri è il
convincimento nel valore fondamentale dell’uguaglianza
morale di considerazione e di rispetto dovuta a
ciascuno. In questo senso, l’equità è il linguaggio
della cittadinanza.
Si noti la contrapposizione,
fortissima, rispetto ad una visione della politica come
mera ricerca del consenso. In questa visione, preferenze
e condizioni della contrattazione sono considerate date
e l’accordo, se si raggiunge, verte sul sotto-insieme di
interessi che, alla luce dei rapporti di forza
esistenti, alle parti conviene accettare. Per l’equità,
invece, le preferenze non solo vanno giustificate, ma,
proprio in ragione dell’uguaglianza di considerazione e
rispetto dovuta agli altri, vanno giustificate
prescindendo dalle specifiche condizioni in cui ci si
trova nei mondi reali. Nel primo caso, si potrebbe
acconsentire a scelte cui si è contrari, qualora ciò
fosse il prezzo da pagare per ottenere il consenso
altrui. Nel secondo, i rapporti di potere potranno
essere inevitabili nella presa di decisioni finali. La
richiesta, tuttavia, è di giustificare le posizioni
avanzate nell’arena pubblica in termini accettabili per
tutti (ipotizzando, ovviamente, che gli altri si
comportino in modo equitativo).
L’equità non conduce
inevitabilmente a posizioni univoche. L’uguaglianza
morale di considerazione e rispetto, che ne è alla base,
è un valore incompleto, compatibile con specificazioni
assai diverse di altri valori, in primis,
dell’uguaglianza distributiva. Basti pensare alla
possibile compatibilità sia con posizioni alla Rawls, in
difesa di distribuzioni ugualitarie di risorse, sia con
posizioni alla Sen, in difesa di un’uguaglianza in
termini di stare bene. Ciò nondimeno, l’equità è un
valore sufficientemente forte da permettere di
distinguere insiemi di posizioni inaccettabili da
insiemi di posizioni accettabili.
Purtroppo, molte delle posizioni
espresse in questi tempi nel dibattito pubblico appaiono
largamente inaccettabili. Si consideri l’ambito
pensionistico, dove l’equità è ed è stata invocata per
difendere sia i diritti acquisiti dei pensionati sia il
metodo contributivo. L’equità, però, non solo rifugge
dall’appello a diritti acquisiti (l’unico valore dato è
l’uguaglianza morale di considerazione e rispetto), ma è
a base individualistica. Se le valutazioni si
riferiscono a gruppi, devono pertanto riferirsi a gruppi
di “uguali” (ad esempio, in termini di vantaggio e
svantaggio), mentre il gruppo dei pensionati include
soggetti in posizioni assai diverse. Al contempo,
l’equivalenza fra quanto si dà e quanto si riceve
assicurata dal metodo contributivo concerne più
l’efficienza che l’equità (a meno di non limitarsi a
definizioni attuariali dell’equità). Contro la logica
dell’inevitabilità dei trade off fra efficienza e
equità, l’equivalenza potrebbe, certamente, essere
difesa anche da una prospettiva equitativa. È, però,
solo un tassello che non può esistere senza la
simultanea compresenza della garanzia di un reddito
adeguato qualora profili di occupazioni instabili e
basse retribuzioni impediscano di accumulare contributi
sufficienti. L’attuazione di tale garanzia, che
rappresenta l’elemento prettamente equitativo, è
tuttavia costantemente messa in subordine dai
sostenitori del metodo contributivo, nonostante le
carenze del nostro sistema di sicurezza sociale in
materia (le integrazioni al minimo non solo presentano
seri difetti equitativi, ma sono, destinate a cessare).
Si pensi, altresì, ad affermazioni
secondo cui è equo che tutti facciano oggi la propria
parte, cedendo tutti qualcosa. Nulla, nella prospettiva
equitativa, obbliga, però, a tale comportamento. Al
contrario, proprio ponendosi in una posizione
equitativa, potremmo argomentare che chi oggi stia male
nulla dia. Già Locke, peraltro, riconosceva la non
simmetria nei comportamenti da richiedere, chiedendo ai
ricchi di aiutare i poveri, ma ai poveri solo di non
rubare ai ricchi.
Ancora, si pensi ad invocazioni per
cui dovremmo pensare un po’ meno all’equità e un po’ di
più alla rifondazione di un nuovo patto sociale. Ma,
come pensare alla ripartizione dei doveri e dei diritti
connessi ad un nuovo patto sociale se non sulla base di
una prospettiva equitativa?
Infine, si pensi alla supposta
equità delle liberalizzazioni. Se, facendo tabula rasa
del presente, si dovesse legiferare in un contesto
ideale, le ragioni per attribuire ad alcuni soggetti una
rendita derivante dalla mera restrizione dell’accesso al
mercato appaiono limitate (ad esempio, in presenza di
carenze informative degli acquirenti). L’apertura dei
mercati sarebbe, pertanto, difendibile, sebbene, anche
in ambito concorrenziale, resti aperta e tutta da
affrontare la questione dell’equità degli esiti
distributivi. Basti pensare ai rischi di basse
retribuzioni e alla pluralità di ragioni che militano
contro la piena titolarità dei frutti del gioco di
mercato (e, dunque, a favore della tassazione). In un
contesto, come l’odierno, in cui le restrizioni
all’accesso esistono, le scelte appaiono, però, più
complicate. Dovendo tenere conto dei diversi io che oggi
potremmo essere, soluzioni che riversino tutti i costi
(in particolare, perdite ingenti) su un un sotto-insieme
di individui appaiono difficilmente accettabili. Al
contrario, la via più ragionevole diventa quella della
ricerca di mediazioni fra costi e benefici per i diversi
soggetti che potremmo essere (in linea anche con la
vecchia idea aristotelica di equità, che richiede
attenzione ai casi singoli e ponderazione fra esigenze
diverse). In questa prospettiva, vorrei ricordare
l’ingegnosa proposta, formulata più di un ventennio
orsono da un economista liberale come Franco Romani, di
attribuzione di nuove licenze ai taxisti già operanti,
al fine di allargare l’accesso al mercato e al contempo
limitare le perdite per i taxisti stessi.
In conclusione, l’equità è solo uno
dei valori della convivenza civile, che va coniugata con
altri valori più sostantivi. Il punto, però, è che
nonostante i limiti, è un valore esigente che,
richiedendo di prendere il punto di vista degli altri,
come noi degni di uguale considerazione e rispetto,
investe il cuore della pratica democratica. Non può
essere un mantra utilizzabile per tutti gli scopi. |