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Sommario
1. Premessa
2. Principi ispiratori della
riforma del sistema sanzionatorio tributario
3. Disapplicazione delle sanzioni
tributarie - Abolitio criminis - Favor rei
1. Premessa
Il sistema sanzionatorio tributario
ha lo scopo di assicurare l’osservanza dei precetti e
degli obblighi che la normativa fiscale pone a carico
dei contribuenti.
La norma giuridica prevede il
sorgere di determinate situazioni passive al verificarsi
dei cd. presupposti d’imposta, fatti e circostanze che
attivano il meccanismo di applicazione del tributo.
Con riferimento alle principali
fattispecie impositive, il cd. sistema della denuncia
verificata comporta l’obbligo per ogni contribuente di
provvedere autonomamente e periodicamente alla
presentazione della dichiarazione anche allorché dalla
stessa non consegua alcun debito d’imposta. La sanzione
tributaria, in quest’ottica, svolge da un lato funzione
preventiva e deterrente e, dall’altro, funzione
repressiva, addebitando al responsabile della violazione
un onere maggiore di quello previsto dalla norma
violata. L’attuale sistema sanzionatorio tributario si
pone dunque l’obiettivo di punire l’autore
dell’illecito, allontanandosi in tal modo dal precedente
modello risarcitorio e avvicinandosi a un modello
personalistico o penalistico. Nel nuovo sistema
sanzionatorio tributario, configura dunque illecito
qualunque fatto o comportamento che, contrastando con
l’attività finanziaria dello Stato, lede il corretto
svolgimento del rapporto impositivo. Il rapporto
d’imposta consiste non solo nell’obbligo di adempiere le
prescrizioni della normativa fiscale ma anche in una
serie di altri obblighi strumentali al corretto
assolvimento dell’obbligazione tributaria ovvero a
rendere possibile l’attività di verifica
dell’Amministrazione finanziaria. Per molto tempo
l’intera normativa delle sanzioni tributarie è stata
disciplinata esclusivamente dalla Legge n. 4 del 7
gennaio 1929. Il Sistema delineato da tale legge operava
una netta distinzione delle sanzioni tributarie in
penali e amministrative. In relazione alla condotta
posta in essere dal contribuente ed della gravità della
lesione del bene pubblico tutelato si configuravano
illeciti amministrativi ovvero penali. Erano previste
due sanzioni amministrative non penali: la pena
pecuniaria, fissata a priori dalla legge che consisteva
nella prestazione di una somma di denaro allo Stato e la
sopratassa che consisteva in una somma di denaro
determinata in percentuale fissa, inflitta dall’organo
accertatore. Il legislatore aveva poi tipizzato una
serie di circostanze esimenti che consentivano la non
punibilità dell’illecito tributario. Con il passare del
tempo questa normativa ha subito una serie di modifiche
sostanziali che hanno condotto alla complessiva riforma
del sistema.
In attuazione della delega di cui
all’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n.
662, la riforma delle sanzioni tributarie non penali ha
fissato una serie di principi generali che hanno
organicamente rinnovato l’ordinamento giuridico
previgente. I tre decreti del 1997 (numeri 471, 472 e
473) hanno ridisegnato l’impianto normativo con
un’impostazione che ricalca quella del codice penale e
allineando il sistema sanzionatorio tributario al
dettato della Legge n. 689/81 sulle depenalizzazioni.
Venuta a mancare l’iniziale impronta risarcitoria della
sanzione, la riforma ne ha riconosciuta la natura
eminentemente afflittiva, ispirata a criteri penalistici
e dunque riferibili esclusivamente all’autore della
violazione. Le sanzioni penali, invece, sono state
riformate con il D.Lgs. n. 74/2000.
Atteso il carattere afflittivo sia
della sanzione penale sia quella amministrativa non
potranno essere applicate contemporaneamente: per il
principio di specialità o “ne bis in idem sostanziale”,
con riferimento ad un determinato comportamento
finalizzato a violare le norme tributarie si applicherà
la sola disposizione speciale, che prevale dunque su
quella generale.
I tre decreti vigenti dal primo
aprile 1998, in particolare, disciplinano: - i principi
generali in materia di sanzioni amministrative per le
violazioni di norme tributarie (D.Lgs. 472/1997); - le
sanzioni amministrative per le violazioni in materia
d’imposte dirette e Iva (D.Lgs. 471/1997); - la riforma
delle sanzioni amministrative per le violazioni in
materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui
consumi e di altri tributi diretti (D.Lgs. 473/97). Tra
i suddetti decreti, che hanno comportato una profonda
innovazione di tutto l’impianto normativo previgente, il
più significativo in termini di cambiamento è
sicuramente il D.Lgs. n. 472, il quale, tra l’atro, ha
sostituito alle pene pecuniarie e sopratasse le sanzioni
pecuniarie[1] e quelle accessorie[2].
2. Principi ispiratori della
riforma del sistema sanzionatorio tributario
Il legislatore ha attribuito al
novellato sistema sanzionatorio tributario una struttura
coerente e compatibile con i principi costituzionali
vigenti in materia punitiva. Con l’art. 3 del D.Lgs. n.
472 è stata sancita l’applicabilità anche in materia di
sanzioni tributarie del principio di legalità e di tutti
i suoi corollari (principio della riserva di legge,
principio di tassatività, divieto di analogia). A tenore
del primo comma della richiamata disposizione, infatti,
“nessuno può essere punito se non in forza di una legge
entrata in vigore prima della commissione della
violazione”. Le leggi intervenute in seguito alla
violazione sono dunque applicabili solo allorchè
prevedano sanzioni favorevoli agli interessi del
contribuente. Secondo la richiamata disposizione,
inoltre, ove il fatto commesso non sia più qualificabile
in termini d’illecito tributario a seguito dell’entrata
in vigore di una norma successiva, le sanzioni non
saranno più applicabili, salvo le stesse siano divenute
definitive. Se invece la norma successiva punisce il
fatto con una sanzione più mite, si applicherà
quest’ultima, sempre a condizione che il provvedimento
d’irrogazione non sia divenuto definitivo.
Il principio della riserva di legge
garantisce che l’intero sistema sia regolato
esclusivamente da una fonte di tipo primario. Il
principio di tassatività impone al legislatore di
descrivere in modo chiaro la violazione sanzionata, così
da non lasciare alcuna discrezionalità
nell’individuazione della condotta punibile dal Giudice.
Il divieto di analogia, infine, è il meccanismo che
impedisce l’applicazione a una determinata fattispecie
non specificamente disciplinata normativamente, della
normativa che disciplina casi simili (analogia legis)
ovvero dei principi desumibili dall’ordinamento
giuridico (analogia iuris). Ulteriori corollari del
principio personalistico che ha informato la riforma
sono il cd. principio d’imputabilità e quello di
colpevolezza secondo i quali, ai fini dell’irrogazione
della sanzione tributaria, è necessario, in primo luogo,
che il soggetto trasgressore sia capace di intendere e
di volere e, inoltre, che abbia commesso la violazione
con dolo (intenzionalità) o colpa (negligenza,
imprudenza o imperizia)[3]. Oltre all’autore della
violazione risponde in solido della violazione commessa
che il soggetto nell’interesse del quale ha agito
l’autore della violazione.
In coerenza con quanto unanimemente
sostenuto dalla dottrina e giurisprudenza di merito
precedente alla riforma e con l’art. 7 della richiamata
Legge n. 689/1981, con l’art. 8 D.Lgs. n. 472/1997 è
stato altresì introdotto il principio della non
trasmissibilità agli eredi della sanzione. Atteso il
carattere personale delle nuove sanzioni amministrative,
irrogabili esclusivamente al soggetto che ha
concretamente commesso l’infrazione, le stesse non
potranno per nessuna ragione essere trasmesse agli
eredi. Ai sensi dell’articolo 12 del D.Lgs. n. 472/1997,
inoltre, è stato previsto che in caso di concorso di più
violazioni o di continuazione, risulterà applicabile
esclusivamente la sanzione stabilita per la violazione
più grave, aumentata secondo le previsioni di legge. Il
rapporto tra Fisco e contribuenti, storicamente
caratterizzato da reciproca diffidenza ed elevata
conflittualità, ha prodotto nel corso degli anni
notevoli inefficienze che hanno spinto il legislatore a
valorizzare la collaborazione tra contribuenti e
Amministrazione, incentivando la partecipazione attiva
del contribuente al procedimento di controllo ed
accertamento dei tributi. Il mezzo scelto dal
legislatore per incentivare tale partecipazione consiste
nel riconoscimento al contribuente collaborativo di un
trattamento sanzionatorio tanto più favorevole quanto
più questi si dimostri accondiscendente e mite circa la
correttezza delle contestazioni mosse
dall’Amministrazione. Con l’art. 13 del D. Lgs n.
472/1997[4] è stata riconosciuta al contribuente la
possibilità di rimediare in modo del tutto spontaneo
alle proprie omissioni di natura formale o sostanziale,
beneficiando di una consistente riduzione delle sanzioni
amministrative previste (cd. ravvedimento operoso). Il
D.L. n. 98/2011 convertito nella Legge 15 luglio 2011,
n. 111 (cd. manovra correttiva) ha inoltre affiancato al
richiamato istituto quello del cd. mini ravvedimento
(cfr. articolo 23, comma 31 del D.L. n. 98/2011), che
consente al contribuente, in caso di pagamento tardivo
effettuato entro i quattordici giorni successivi alla
scadenza, di versare una sanzione dello 0,2% per ogni
giorno di ritardo, fino ad un massimo del 2,80%[5]. Al
medesimo fine di deflazionare il contenzioso tributario
e favorire la collaborazione del soggetto accertato alla
procedura di accertamento con un trattamento
sanzionatorio più favorevole, è stata riconosciuta al
contribuente la possibilità di: 1) definire gli atti di
accertamento a seguito dai controlli automatici (cd.
procedura di definizione degli avvisi bonari di cui agli
artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 462/1997); 2) aderire ai processi
verbali di constatazione e agli inviti al
contraddittorio previsti (art. 5, comma 1 bis del D.Lgs.
218/1997); 3) fare acquiescenza all’atto impositivo
emesso dall’Ufficio (art. 15 D.Lgs. n. 218/1997); 4)
definire le sole sanzioni irrogate (ex artt. 16 e 17 del
D.Lgs. n. 472/1997); 5) procedere ad accertamento con
adesione (artt. 1 e 13 del D.Lgs. 218/1997); 6)
acconsentire o proporre all’Ufficio la conciliazione
giudiziale della controversia (art. 48 del D.Lgs. n.
546/1992).
3. Disapplicazione delle sanzioni
tributarie - Abolitio criminis - Favor rei
Esaurita la rassegna del novellato
sistema sanzionatorio tributario siano consentite talune
brevi osservazioni su due dei più importanti principi
introdotti a seguito della riforma, non sufficientemente
approfonditi dagli operatori di settore: il principio
del favor rei e quello dell’abolitio criminis.
Il tema della successione delle
leggi nel tempo in ambito tributario, infatti, è stato
radicalmente innovato ad opera dei richiamati decreti
legislativi del ’97.
Il sistema previgente di cui alla
L. n. 4/1929 (cfr. art. 20) era fondato principio di
fissità e ultrattività: le norme fiscali non potevano
essere abrogate o modificate da Leggi posteriori. La
disposizione in parola, infatti, disciplinava la
successione delle leggi nel tempo stabilendo: “le
disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che
prevedono ogni altra violazione di dette leggi si
applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni
erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime
siano abrogate o modificate al tempo della loro
applicazione”[6].
Il principio, ben radicato nel
nostro ordinamento, traeva origine da una risalente
giurisprudenza Pretoria che si risolveva nell’ordinaria
applicazione del criterio naturalistico del tempus regit
actum[7]. Tale status quo è stato radicalmente innovato
dalla riforma. Il richiamato art. 3 del D.Lgs. n.
472/97, infatti, ha esteso al sistema sanzionatorio
tributario non solo il generale principio di legalità ma
anche quello della cd. abolitio criminis, all’unica
condizione che il provvedimento sanzionatorio non possa
qualificarsi definitivo.
Recita testualmente il secondo
comma della disposizione in parola: “Salvo diversa
previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a
sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore,
non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è
già stata irrogata con provvedimento definitivo il
debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione
di quanto pagato”. Il principio di irretroattività delle
leggi è un corollario del principio di legalità che, già
posto dall’art. 2 disp. prel. al codice civile, è stato
esplicitamente riaffermato anche con riferimento alle
sanzioni tributarie. L’illecito tributario, così come il
reato, consiste nella violazione di un ordine che,
necessariamente, non può essere successivo alla propria
inosservanza. Il principio d’irretroattività, in
particolare, comporta che: 1) le sanzioni tributarie
devono essere previste da una legge entrata in vigore
prima della commissione della violazione; 2) salvo
diversa previsione di legge, non può essere applicata
una sanzione per un fatto che, successivamente
all’entrata in vigore di una nuova legge, non
costituisca più una violazione punibile; 3) se sussiste
un contrasto tra la legge precedente e successiva circa
il quantum della sanzione per il fatto commesso, si
applica la legge più favorevole al contribuente, salvo
che il provvedimento di irrogazione sia ormai divenuto
definitivo. Tali regole valgono naturalmente per le sole
norme sostanziali, essendo viceversa in ogni modo
applicabile il principio del tempus regit actum con
riferimento alla successione delle norme di natura
processuale. In virtù del principio di retroattività,
l’abolizione di un tributo, come ad esempio avvenuto con
riferimento all’INVIM, costituisce un evento idoneo a
determinare la non punibilità di tutti gli illeciti
riferibili alla specifica forma impositiva, a
prescindere dalla tipologia di violazione commessa.
La cd. “abolitio” dell’imposta ha
dunque un effetto solutorio sostanzialmente integrale
fatta eccezione per le ipotesi in cui il rapporto
giuridico di riferimento sia già divenuto definitivo. La
concreta applicabilità del principio in commento,
nonostante la chiara formulazione letterale della norma,
ha dato luogo a molteplici criticità interpretative,
alimentate dagli orientamenti giurisprudenziali. Con la
sentenza n. 8717/2003 la Suprema Corte ha escluso
l’applicabilità del principio in parola sulla base della
mera considerazione dell’avvenuta sostituzione
dell’imposta abrogata con un’altra avente analoghi
contenuti.
Con detta pronuncia la Cassazione
ha rigettato il ricorso di un contribuente che
pretendeva di far derivare la propria non punibilità per
l’illecito d’infedele dichiarazione ai fini ILOR, de
plano, dall’intervenuta abrogazione dell’ILOR stessa. La
Suprema Corte, dopo aver riscontrato che all’abrogazione
dell’imposta in parola era seguita l’istituzione di
un’imposta omologa, l’IRAP, “la cui legge ha mantenuto
ferma la previsione dell’illecito di dichiarazione
infedele”, ha escluso l’applicabilità del principio
dell’abolitio criminis e sancito la sanzionabilità
dell’autore dell’illecito.
Ad analoghe conclusioni seppur in
ragione di motivazioni differenti è giunta la Corte di
Cassazione nella sentenza n. 24991 del 24 novembre 2006.
Nel caso di abrogazione dell’imposta a partire da una
particolare data prevista dalla legge, in applicazione
del principio tempus regit actum, non vi sarebbe
abolitio delle violazioni relative ai periodi d’imposta
antecedenti all’abrogazione.
Al contrario, con la sentenza n.
24559 del 26 novembre 2007, i Giudici di legittimità
hanno ammesso l’applicabilità del principio in parola ed
escluso la punibilità di un contribuente per infedele
dichiarazione in materia d’imposta sul patrimonio netto
delle imprese.
Si legge infatti testualmente nella
parte motiva della sentenza Cassazione n. 24559 del 26
novembre 2007 (in senso conforme cfr. anche sent. n.
27760 del 2005): “Questa Corte, inoltre, ha avuto modo
di pronunciarsi in materia esprimendo il principio di
diritto secondo cui "In applicazione del principio del
"favor rei" e di legalità, espresso in tema di sanzioni
tributarie dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3,
- il quale statuisce che "salvo diversa previsione di
legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
violazione punibile” -, il contribuente non può essere
sottoposto a sanzione in relazione a qualunque fatto
attinente ad un’imposta non più esistente (quale, nella
specie, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese,
soppressa dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 36),
tanto se si tratti di evasione della stessa, quanto se
si tratti di omessa o infedele dichiarazione - fatto
strettamente connesso con il tributo, essendo la
dichiarazione finalizzata al pagamento dell’imposta
soppressa -, con l’unica eccezione che il rapporto sia
ormai definito”.
Secondo tale pronuncia, dunque,
l’abolizione del tributo costituirebbe, di fatto, un
evento tale da determinare la sopravvenuta non
punibilità di tutti gli illeciti riferibili alla
specifica forma impositiva e ciò a prescindere dalla
tipologia di violazione commessa (omesso versamento,
omissione di dichiarazione, infedeltà dichiarativa).
Ulteriore deroga al previgente
principio di ultrattività previsto dall’art. 20 della
Legge n. 4 del 7 gennaio 1929 consiste nell’estensione
al sistema sanzionatorio tributario del principio
penalistico del favor rei, operata dal terzo comma
dell’art. 3 del decreto legislativo n. 472.
Recita testualmente la disposizione
in parola: “Se la legge in vigore al momento in cui è
stata commessa la violazione e le leggi posteriori
stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la
legge più favorevole, salvo che il provvedimento di
irrogazione sia divenuto definitivo”.
Come costantemente rilevato dalla
giurisprudenza della Suprema Corte con la previsione in
commento il legislatore ha voluto estendere il principio
del favor rei anche al settore tributario, sancendone
l’applicazione retroattiva, all’unica condizione che il
provvedimento sanzionatorio non debba qualificarsi
definitivo.
Con la sentenza n. 918 del 18
gennaio 2005 la Suprema Corte ha chiarito che in tema di
sanzioni per violazione di norme tributarie, il Giudice
tributario é tenuto all’applicazione d’ufficio,
indipendentemente da una specifica richiesta di parte,
della norma che prevede la sanzione più favorevole,
anche se posteriore al momento in cui fu commessa la
violazione.
Allorchè dunque non sia ancora
intervenuto un provvedimento definitivo, le più onerose
sanzioni irrogate nei confronti del contribuente sono
annullabili anche d’ufficio, in ogni stato e grado del
giudizio. Sul punto si legge testualmente nella sentenza
della Corte di Cassazione n. 9217 del 9 aprile 2008 “ …
salvo il caso d'intervenuta definitività del
provvedimento sanzionatorio - le più favorevoli norme
sanzionatorie sopravvenute devono essere applicate,
anche d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e,
quindi, pure in sede di legittimità, atteso che, nella
valutazione del legislatore, in ogni altro caso, la
natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del
principio del favor rei devono prevalere sulle
preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema
d'impugnazione. Ne consegue che - ove (come nel caso di
specie), persistendo controversia sull’an della
violazione tributaria, sussista ancora controversia
sulla debenza delle sanzioni, di cui la violazione
fiscale costituisce ineludibile presupposto - s'impone
la necessità di applicare il sopravvenuto più favorevole
regime”.
Ulteriore conferma implicita
dell’applicabilità del principio in parola nel sistema
sanzionatorio tributario è rinvenibile in un recente
arresto della Corte di Cassazione a sezioni unite, che
ha escluso l’applicabilità della disposizione ad una
fattispecie di irrogazione di sanzioni relative al c.d.
“lavoro sommerso”, sulla base esclusiva della mancata
previsione, nella L. n. 689/1981, di un principio simile
a quello contenuto nell’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997 in
materia di sanzioni tributarie. Si legge infatti
testualmente nella richiamata sentenza n. 356/2010: “La
censura svolta e l’afferente quesito di diritto,
infatti, non investono né contrastano l’affermazione
posta dal giudice a quo a fondamento della sua decisione
secondo cui la disciplina più favorevole invocata dal M.
non può trovare applicazione perché “in materia di
illecito amministrativo, vige il principio generale
tempus regit actum”.
(Altalex, 12 gennaio 2012. Nota di
Giancarlo Marzo)
______________
[1] La sanzione pecuniaria consiste
nel pagamento di una somma di denaro improduttiva
d’interessi ed è rivolta a chi ha commesso una
violazione, anche in concorso con altre persone. Gli
importi della sanzione possono essere aggiornati ogni
tre anni in base ai dati ISTAT sul cambiamento
dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai e impiegati.
[2] Esempio di sanzioni accessorie
sono la sospensione dell'attività commerciale, nei casi
di ripetuta violazione delle norme su ricevute e
scontrini fiscali, ovvero l'interdizione dalla
partecipazione a gare o dall'esercizio di cariche
sociali.
[3] E’ altresì necessario che non
sussista nessuna delle cause di esclusione tipizzate
dalla legge: semplice violazione formale, imputabilità
ad altrui comportamento, causa di forza maggiore,
obbiettiva incertezza della norma quando la legge e’
poco chiara e di difficile applicazione.
[4] In seguito alle modifiche
apportate dalla Finanziaria 2011, con riferimento alle
violazioni commesse dal 1° febbraio 2011, l’adozione
della procedura di ravvedimento comporta la riduzione
della sanzione, rispettivamente: - ad un decimo del
minimo in caso di regolarizzazione del mancato pagamento
del tributo entro i trenta giorni successivi
all’omissione; - ad un ottavo del minimo nel caso di
regolarizzazione di errori ed omissioni, anche incidenti
sulla determinazione o sul pagamento del tributo, entro
il termine per la presentazione della dichiarazione
relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa
la violazione ovvero entro un anno dall'omissione o
dall’errore, quando non è prevista dichiarazione
periodica; - ad un decimo del minimo di quella prevista
per l’omissione della presentazione della dichiarazione
nel caso in cui la stessa sia presentata entro novanta
giorni.
[5] Dopo il quindicesimo giorno di
ritardo e fino al trentesimo, secondo le regole
generali, si applicherà la sanzione del 3% (un decimo
del minimo) nonché, oltre il trentesimo giorno ma entro
il termine per la presentazione della dichiarazione
relativa all'anno nel corso del quale è stata commessa
la violazione, quella del 3,75% (un ottavo del minimo).
[6] Tale regola, comune ai reati ed
agli illeciti amministrativi tributari, si
contrapponeva al tradizionale principio penalistico
della retroattività della lex mitior, ex art. 2 c.p.
(cui, peraltro, non fa riferimento alcuno l'art. 25
Cost.). La dottrina aveva sempre vivacemente contestato
il principio di ultrattività in materia finanziaria, per
i reati, così come per gli illeciti amministrativi, in
quanto esso costituiva una irrazionale disparità di
trattamento a sfavore dell'autore di un illecito
tributario, rispetto all'autore di ogni altro tipo di
illecito.
[7] Cfr. Gallo, Lo legge penale.
Appunti di diritto penale, Torino, 1965, pag. 54.
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