La Voce.info
La crisi politica dell'Eurozona è
ormai un classico dilemma del prigioniero. L'equilibrio
finale è una serie di soluzioni non-cooperative
inefficienti. Ed è proprio la sottostima dei benefici
dell'equilibrio ottimale che non permette ai governi di
affrontare i due nodi essenziali: ribilanciamento degli
squilibri di competitività tra i paesi e creazione di
strumenti effettivi contro crisi di liquidità. Un'Europa
più unita politicamente potrebbe offuscare il ruolo di
molte potenze mondiali.
L’accordo del 9 dicembre 2011 tra
26 paesi europei, Gran Bretagna esclusa, delinea un'idea
interessante di assetto istituzionale comune, ma sia nel
breve che nel lungo termine non propone una soluzione
effettiva alla crisi di liquidità dei debiti sovrani.
PERCHÉ NON SI COOPERA
È un classico dilemma del
prigioniero, nel quale una parte decide di non cooperare
perché la potenziale decisione non cooperativa
dell’altra parte (per i maggiori benefici che ne trae
nel breve) potrebbe costargli troppo. In altre parole,
le nazioni più deboli, se cedessero sovranità, si
esporrebbero all’imposizione di meccanismi di controllo
e decisionali di lungo termine a favore delle nazioni
creditrici, mentre quelle con finanze pubbliche migliori
si esporrebbero alla possibilità che gli stati più
deboli, una volta protetti dai meccanismi impliciti di
solidarietà forniti da una qualche unione politica, non
portino avanti riforme strutturali e misure di
austerità. Il risultato è che finora sono davvero pochi
gli Stati interessati a cedere sovranità per creare
un’Eurozona più unita politicamente.
L’accordo del 9 dicembre propone un
maggiore coordinamento delle politiche fiscali europee
tramite una maggiore disciplina fiscale e un assetto
istituzionale per fronteggiare crisi di liquidità
tramite lo European Stability Mechanism (Esm), che
ricalca la governance di istituzioni come l'Fmi e che
potrebbe diventare il futuro modello di una politica
economica comune. Anche con quest’assetto, non c'è però
nessuna intenzione di cedere sovranità politica a
un’Europa più federale. Le decisioni saranno guidate
dagli stessi equilibri nazionali che guidano le scelte
di oggi. Pertanto, la paura di perdere controllo sulle
decisioni politiche dell’Eurozona determina una
successione di scelte razionali (ma) sub-ottimali, che
non affronta i nodi della questione e porta a un
equilibrio che nessuna delle parti vorrebbe (ex post),
ovvero la rottura totale o parziale dell'Eurozona.
CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO
COMPETITIVITÀ
I nodi sono principalmente due. Il
riequilibrio della competitività tra i sistemi economici
dell’area euro, che permetta agli Stati meno competitivi
di investire in produttività e riforme strutturali per
una maggiore crescita e sviluppo. È certamente una
costosa azione di lungo termine che si può fare solo con
un’Eurozona federale che redistribuisca anche parte del
surplus dei paesi più competitivi a sostegno degli
investimenti in produttività in quelli più deboli. È
indubbio che l’euro abbia aiutato molto chi partiva da
una condizione di produttività migliore, avendo bloccato
i tassi di cambio. È stata un’implicita svalutazione
monetaria (si è bloccata l’evoluzione naturale dei tassi
di cambio che tendono in maniera dinamica a rispecchiare
l’effettiva realtà politica ed economica del paese nel
tempo), che ha ampliato ancor più le originarie
differenze di competitività tra gli Stati europei.
La Germania, ad esempio, con
l’introduzione dell’euro si è ritrovata negli ultimi
nove anni con un surplus di partite correnti pari al 5
per cento circa in media del Pil. (1) Il sistema
economico tedesco ha così potuto reinvestire (a valori
correnti) circa 100 miliardi di euro l’anno, che hanno
alimentato ancor più investimenti in produttività e
crescita. I divari in termini reali tra paesi membri,
che partivano con livelli di competitività differenti,
si sono pertanto allargati e non ridotti con la moneta
unica. Questa realtà va ben oltre gli effetti delle
sciagurate decisioni di molti paesi di non portare
avanti riforme strutturali negli ultimi dieci anni. (2)
GESTIRE L'EMERGENZA
Il secondo elemento riguarda i
meccanismi di liquidità per far fronte all’emergenza. Se
la Bce non è autorizzata a intervenire, l’intero sistema
è soggetto alle spinte centrifughe dei mercati
finanziari. con queste condizioni economiche, i mercati
scontano che alcune aree dell’Eurozona da sole non
saranno in grado di generare ricchezza tale da ripagare
nel tempo il proprio debito. Inoltre, il fondo
salva-Stati (European Financial Stability Facility)
possiede risorse limitate, poiché le garanzie implicite
degli Stati membri di cui gode verrebbero gradualmente
meno qualora alcuni degli stati avessero bisogno di
accedere al fondo. Questa situazione ridurrebbe
l’ammontare effettivo di risorse richiedibile al
mercato. Il fondo inoltre potrebbe a breve perdere la
tripla A. (3) L'iniezione di liquidità della Bce nel
mercato interbancario e i 150 miliardi di euro messi a
disposizione dalle banche centrali europee
(singolarmente) nelle mani del Fondo monetario
internazionale potrebbero far guadagnare un po' di tempo
ai paesi dell’Eurozona, ma sono insufficienti a
fronteggiare la situazione in cui il contagio accelera
al rialzo il costo del debito.
Queste soluzioni sono una sequenza
di equilibri sub-ottimali non cooperativi del dilemma
del prigioniero, frutto di non avere aspettative
(probabilità) certe sui reali payoffs di un equilibrio
cooperativo.
Quale potrebbe essere invece
l’equilibrio ottimale di questo gioco? È indubbio che la
questione vada affrontata dagli Stati membri con una
maggiore disponibilità a cedere sovranità all’Eurozona,
la cui governance non può riflettere un mero rapporto di
forza tra debitori e creditori.
La soluzione nel breve sarebbe
pertanto l’intervento della Bce a garanzia illimitata
del mercato secondario dei titoli di Stato, soggetto al
vincolo di adozione delle misure di stabilità per gli
Stati beneficiari dell'intervento. (4)
Nel medio-lungo periodo sarebbe
quella della convergenza verso una comune politica
economica, tramite una governance gestita dall’Esm, e
una parziale unione fiscale, che preveda un budget
europeo capace di redistribuire risorse secondo criteri
di ripartizione basati su crescita e riduzione delle
disparità dei sistemi economici. (5)
Il processo andrebbe poi
accompagnato dall’emissione di titoli europei (Eurobond)
e dallo swap di parte dei debiti nazionali con debito
europeo, per mettere in condizione l’Europa di iniziare
un processo di ristrutturazione dei debiti nazionali
(tramite le Collective Action Clauses, già nello statuto
dell’Esm). Ristrutturazione dei debiti e crescita
dovrebbero essere l’obiettivo finale del processo di
deleveraging (riduzione del debito) in atto nel sistema
economico e finanziario pubblico e privato.
L’Eurozona unita avrebbe anche un
enorme peso politico. Basti pensare che deterrebbe una
quota dell'Fmi pari al 21 per cento, mentre gli Stati
Uniti oggi si fermano al 16 per cento. Il “no” della
Gran Bretagna assume in questa luce un aspetto molto più
interessante di una semplice querelle sulla tassazione e
regolazione delle transazioni finanziarie, temi sui
quali può comunque esercitare un forte potere persuasivo
o di veto (almeno in materia fiscale) nel Consiglio
europeo. (6) L’Eurozona unita può cambiare i futuri
equilibri politici globali. Basterebbe rompere la miopia
di scelte, sì razionali nel breve, ma che non si fanno
carico di raggiungere un equilibrio ottimale per tutti
nel lungo periodo. Quell’equilibrio cooperativo che
eviti di farci sentire davvero “prigionieri”
dell’Eurozona.
(1) Va anche riconosciuto alla
Germania di aver fatto delle riforme strutturali
importanti negli anni precedenti all’entrata nell’euro,
ma questo a mio avviso giustifica solo in parte
l'esplosione delle partite correnti.
(2) Basti considerare come la
Spagna abbia fatto riforme importanti nel mercato del
lavoro e promosso enormi investimenti in infrastrutture
e sviluppo, ma ha perso comunque competitività e ha
incrementato solo parzialmente la produttività. È anche
vero che nazioni come l’Italia hanno beneficiato di
tassi d’interesse molto bassi, ma senza utilizzare
queste risorse per investire su produttività e crescita.
(3) La probabile decisione a breve
di declassamento del debito francese potrebbe far
perdere la tripla A al fondo salva-Stati.
(4) Ci sono interventi a sostegno
del mercato secondario che la Bce potrebbe fare senza
intaccare di molto le politiche sull’inflazione.
Chiaramente, più tempo passa e più il costo degli
interventi cresce. Meriterebbe maggiore attenzione il
tipo di intervento che la Bce dovrebbe fare: l’attuale
Securities Markets Programme, merito della metodologia
di intervento, lascia molto a desiderare.
(5) Si potrebbe arrivare al 10-20
per cento del Pil europeo, contro il quasi 2 per cento
di oggi (che rimane quasi lo stesso ammontare stabilito
a fine anni Cinquanta).
(6) “Divide and rule” è stato il
motto della politica estera inglese dai tempi delle
colonie. |