Nel merito.it
riforma mercato lavoroHa davvero
ragione chi si oppone ad una riforma dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori, o le priorità sono altre, come
la lotta al precariato?
Prima di rispondere sulla base di
pregiudizi ideologici nell’uno e nell’altro senso, come
troppo spesso accade, potrebbero risultare utili alcune
considerazioni tratte dall’ esperienza empirica, senza
alcuna pretesa di completezza, in assenza di dati
statistici sul numero dei procedimenti per
licenziamento, sulla loro durata, sugli esiti ecc.
E, per inciso, stupisce che forze
politiche chiamate a ragionare sul mantenimento o non
della disciplina dell’art. 18 non abbiano sentito la
necessità di dotarsi di strumenti di analisi un minimo
sofisticati, continuando a privilegiare approcci
astratti, con il risultato di ridurre il dibattito ad
una contrapposizione tra favorevoli e contrari,
lasciando che esso scorra sulla superficie di una realtà
invece molto complessa.
I termini licenziamento e
precarietà nascondono infatti realtà complesse e spesso
banalizzate.
I licenziamenti non sono tutti
uguali: differiscono per le ragioni - soggettive
(licenziamento per giusta causa o per giustificato
motivo soggettivo) o economiche -; per il numero di
lavoratori coinvolti (licenziamento individuale o
collettivo, quest’ultimo soggetto ad una disciplina
propria); perché diverso può essere il datore di
lavoro: solo se il datore di lavoro supera la soglia dei
15 dipendenti trova applicazione la sanzione della
reintegrazione prevista dall’art. 18; negli altri casi
il licenziamento è nella sostanza libero con il solo
temperamento della corresponsione di una somma di
denaro.
Vi sono però anche differenze meno
immediate.
I licenziamenti possono essere
diversi per la durata del procedimento. In alcuni
Tribunali (pochi) nel giro di due anni o poco più è
esaurita anche la fase dell’appello; in altri a mala
pena si arriva al termine del primo grado di giudizio. E
la durata non è un costo irrilevante, per l’impresa
(specie se di non grandi dimensioni) che può trovarsi a
dover affrontare ingenti oneri economici per un
licenziamento riconosciuto illegittimo dopo diversi
anni, dovendo corrispondere le retribuzioni nel
frattempo maturate; e per il lavoratore, costretto ad
una situazione di incertezza per un lungo arco di tempo.
Oppure per il luogo in cui sono
stati disposti. In un’ interessante ricerca di oltre
dieci anni fa condotta da A. Ichino e M. Polo si
dimostra come le decisioni del Giudici in ordine alla
giustificatezza del licenziamento disciplinare siano
influenzate dalle condizioni del mercato del lavoro
locale: la stessa mancanza è valutata con occhio più
rigoroso se le condizioni del mercato sono buone; e con
occhio più benevolo in condizioni di difficoltà. Ed è
sufficiente avere un po’ di pratica con le riviste di
giurisprudenza per rendersi conto di come i margini di
opinabilità nella valutazione delle cause di
licenziamento siano molto alti, con valutazioni
marcatamente soggettive e fortemente variabili da
Giudice a Giudice.
Ancora: le imprese di grandi e
grandissime dimensioni non ricorrono mai al
licenziamento individuale per ragioni economiche (il
singolo lavoratore può sempre essere ricollocato in
un’organizzazione di ampie dimensioni); vi ricorrono
invece le altre imprese, ma alcune sono al di sotto
della soglia dei quindici dipendenti, altre invece no, e
sono appunto queste ad essere investite
dall’applicazione dell’art. 18 in caso di licenziamenti
individuali per ragioni economiche.
Le grandi imprese, in caso di
licenziamenti per ragioni economiche, sono interessate
dalla disciplina sui licenziamenti collettivi, che è
però difficilissimo rispettare tenuto conto degli
orientamenti della giurisprudenza e della farraginosità
della disciplina. Mentre le imprese grandissime spesso
riescono a ribaltare i costi delle riduzioni di
personale in tutto o in parte sulla finanza pubblica
utilizzando la mobilità incentivata o, in passato, i
prepensionamenti.
Adottando strumenti di analisi più
sofisticati, il quadro potrebbe essere ancora più
complesso, ma tanto basta.
Anche il termine precarietà
racchiude molti equivoci.
Non tutti i rapporti atipici
costano di meno di quello standard: è così per il lavoro
a progetto, ma non per tutti gli altri (per il vincolo
di parità di trattamento imposto per legge) e la
somministrazione (e cioè il lavoro interinale) costa
addirittura di più. Ai costi diretti si aggiungono
quelli indiretti: l’esasperato soggettivismo giudiziale
nella valutazione delle ipotesi di ricorso al lavoro
atipico (incrementato da una legislazione che negli anni
non ha certo aiutato a fare chiarezza) ne rendono
l’utilizzo incerto, e dunque costoso a causa del
contenzioso che ad esso spesso si accompagna.
Così come non è vero che il
fenomeno della precarietà sia indotto dalla
moltiplicazione dei tipi contrattuali: magari fosse
così, e fosse possibile cancellare il fenomeno con un
tratto di penna del legislatore. Il lavoro a chiamata
non nasce nel 2003 allorché il legislatore introduce il
relativo tipo contrattuale, ma esiste da sempre nei
settori del turismo e della ristorazione; e solo chi
ragiona come Don Ferrante può pensare che esso nasca da
una scelta del legislatore e non dalle particolari
caratteristiche del mercato del lavoro in questi
settori. E poi occorre sfatare l’equazione lavoro non
standard uguale lavoro precario. Chi sostituisca un
lavoratore assente è un lavoratore che ha un impiego
temporaneo e non un precario, tale diventa solo se le
occasioni di lavoro che gli si presentano sono tutte
discontinue. Scatta allora la trappola della precarietà,
che spesso è in realtà la trappola della segmentazione
del mercato del lavoro: il lavoratore a progetto del
call center spesso finisce per avere un orizzonte di
occupabilità limitato alle sole imprese che svolgono
questa attività e ciò riduce le sua possibilità di
reperire altre occasioni di lavoro.
Ora, le imprese ricorrono ai lavori
atipici a volte per fare fronte a contingenze
organizzative o di mercato (ed è la fisiologia); altre
volte come succedaneo di rapporti a tempo indeterminato
(ed è la patologia), o per i vincoli alle assunzioni o
per le incertezze che si ricollegano proprio alla
disciplina sui licenziamenti.
Nel primo caso il ricorso al lavoro
non standard dovrebbe essere reso il più possibile
semplice, attraverso una normativa agile e chiara che
riduca i margini di incertezza, ma che non penalizzi l’
offerta di occasioni di lavoro che se pur temporanee
sono comunque fonti di reddito e che corrispondono ad
esigenze oggettive della produzione. Chi propone
ambiziosi e risolutivi piani di stabilizzazione dei
precari non tiene conto che molto spesso le esigenze
alla base dei rapporti atipici sono transitorie e
rendono impossibile la loro trasformazione in rapporti a
tempo indeterminato.
Nel secondo, la limitazione del
ricorso a forme di lavoro non standard come ricetta per
ridurre la precarietà, è vecchia ed inutile. Qui c’è un
punto di collegamento con l’art. 18. Anche quest’ultimo
infatti offre una protezione di stampo tradizionale: se
il licenziamento è illegittimo il rapporto è
ripristinato; ma se è invece valido, il lavoratore è
lasciato solo sul mercato del lavoro, coerentemente con
un’ impostazione tradizionale, attenta alle tutele nel
rapporto di lavoro, ma disinteressata alla
ricollocazione del lavoratore.
Il problema, tanto nel caso del
licenziamento che dei rapporti atipici non è nel
rapporto di lavoro, ma fuori di esso, nel reperimento di
strumenti che agevolino la collocazione del lavoratore
una volta che il rapporto di lavoro si interrompe.
Prevedere un contratto unico con licenziamento libero
nel primo triennio, rischia di essere una pseudo
soluzione, che non tiene conto del quadro che si è
sopra abbozzato, innesca contenzioso, non risolve il
dualismo del mercato del lavoro e non incrementa le
possibilità di reperimento di una nuova occupazione. È
quest’ultimo il punto centrale: solo muovendo da esso si
può trovare il bandolo per risolvere il problema della
precarietà; avviato a soluzione questo, il problema
dell’art. 18 si sdrammatizza, riducendosi a quello che
in realtà è, il tassello di un mosaico molto più vasto e
complesso. |