La Voce.info
Le vicende di Mps e di Unicredit
confermano quanto sia opportuna la separazione tra
fondazioni e banche conferitarie. Le fondazioni
potrebbero perseguire i loro obiettivi statutari. E
migliorerebbe la governance delle banche, aprendo a
soggetti che hanno come obiettivo primario la
massimizzazione del loro valore. È una riforma degli
assetti proprietari del nostro capitalismo utile ora,
nell'immediato della crisi, e dopo, quando sarà finita.
Perché renderebbe più efficienti e più stabili le banche
italiane, contribuendo al rilancio di tutto il nostro
sistema produttivo.
Da tempo sosteniamo che è opportuno
che le fondazioni bancarie smettano di esercitare un
controllo sulle banche conferitarie e perseguano invece
strategie di gestione della loro dotazione mirate a
ottenere il massimo rendimento finanziario con il minor
rischio possibile. È questa la strategia di gestione che
meglio garantisce il perseguimento degli obiettivi
sociali delle fondazioni. È anche la strategia che
consentirebbe di migliorare la governance delle banche,
facendo posto a soggetti che hanno come obiettivo
primario la massimizzazione del loro valore anziché
altri fini.
UN PESSIMO INVESTIMENTO
Le fondazioni sono, infatti, dei
cattivi partecipanti al capitale delle banche perché,
portando con sé il bagaglio ingombrante della politica,
hanno incentivi distorti e finiscono spesso per
esercitare poco monitoring sugli istituti e per
indirizzarli verso strategie non compatibili con la
massimizzazione del valore. Come insegna il caso della
estromissione di Alessandro Profumo, quando Unicredit,
l’unica banca multinazionale italiana, fu lasciata senza
guida (e senza strategia).
Al tempo stesso, per una fondazione
detenere partecipazioni rilevanti nella banca
conferitaria comporta una eccessiva concentrazione del
rischio, esponendola alle fluttuazioni idiosincratiche
della profittabilità della banca stessa. Questo fa
perdere benefici di diversificazione senza ottenere un
compenso in termini di ritorno finanziario, dato che le
banche italiane non appaiono in grado di offrire, e non
lo saranno per molto tempo, dividendi (o comunque
dividendi di un certo rilevo) ai propri azionisti.
Un bell’esempio è offerto dalla
fondazione Mps. Ha un patrimonio di 5,4 miliardi di euro
al valore di carico, investiti all’89 per cento nel
Monte Paschi di Siena di cui detiene il 45 per cento
delle azioni ordinarie e quasi il totale di quelle di
risparmio e privilegiate. Nei due anni passati, stante
la crisi del settore, ha smesso di fare accantonamenti e
avuto un rendimento del patrimonio dell’1,87 per cento
nel 2009 e dello 0,68 per cento nel 2010. Nel 2011 andrà
peggio. Ai prezzi di mercato di oggi, il valore del
patrimonio è tuttavia intorno ai 300 milioni. Se nel
2007 avesse investito l’intero patrimonio nell’indice
Mib oggi il valore degli asset della fondazione
sarebbero intorno a 1,6 miliardi di euro – cinque volte
tanto il valore corrente. Ovviamente, questo minaccia di
compromettere la possibilità per la fondazione di
raggiungere i suoi obiettivi statutari.
Coerentemente con questi rilievi,
abbiamo sostenuto su questo sito che le fondazioni
bancarie dovrebbero investire su portafogli
diversificati anziché cercare in tutti i modi di
mantenere il controllo delle banche conferitarie.
L’obiezione allora mossa alla nostra proposta era che,
pur essendo in linea di principio corretta, avrebbe
privato le banche di capitali, rendendole ancora più
vulnerabili in una fase di grande difficoltà. A noi
sembra, invece, che le vicende Monte dei Paschi di Siena
e Unicredit delle ultime settimane dimostrino
esattamente il contrario: è proprio l’abbraccio mortale
tra banche e fondazioni che sta mettendo in seria
difficoltà sia le une che le altre. Partiamo dal caso
Mps, per poi occuparci di Unicredit.
IL CASO MPS
Fondazione Mps si è indebitata pur
di non diluire la sua quota nella banca conferitaria e
questo ha aggiunto ai problemi di patrimonializzazione
della banca senese quelli di un piano di rientro del
debito della fondazione che si annuncia molto complesso
e di difficile attuazione, tant’è che la scadenza per la
sua presentazione è stata recentemente prorogata,
prendendo atto dell’impossibilità di definirlo entro
gennaio come inizialmente previsto. La resistenza della
fondazione a diluire la propria quota e la ferma
intenzione di non scendere al di sotto del 33 per cento
che le garantisce la possibilità di esercitare il
controllo sulle assemblee straordinarie ostacolano la
ricapitalizzazione della banca e, al tempo stesso,
impediscono alla fondazione di varare un serio e
credibile piano di rientro del debito. Insomma,
l’abbraccio fra banca e fondazione è di quelli mortali.
IL CASO UNICREDIT
Il caso Unicredit è diverso, ma
comunque eloquente riguardo al ruolo perverso giocato
dalle fondazioni nella ricapitalizzazione delle nostre
banche. Unicredit ha perso da inizio 2012 quasi il 60
per cento della propria capitalizzazione di borsa.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’avvocato
d’ufficio delle fondazioni, Massimo Mucchetti, non si
tratta di movimenti speculativi che andrebbero bloccati
proibendo le vendite allo scoperto (LINK ad articolo
corriere Tutto fuori scala). Il fatto è che le
fondazioni sono chiamate a fare la parte del leone
nell’aumento di capitale, dovendo contribuire con più di
700 milioni. E in questi giorni non hanno certo favorito
l’operazione di rafforzamento del capitale, non
lesinando critiche al chief financial officer di piazza
Cordusio, Marina Natale, per il modo in cui l'aumento è
stato strutturato. Per sopravvivere, le fondazioni hanno
poi dovuto liquidare posizioni nel momento peggiore per
la banca conferitaria. La Fondazione Cariverona, ad
esempio, ha ceduto sul mercato pacchetti consistenti (si
parla dello 0,7 per cento del capitale). Altre
fondazioni minori (Fondazione Manodori e Carimonte), per
crearsi la liquidità necessaria a partecipare
all’aumento di capitale, avrebbero venduto una fetta
consistente dei diritti d'opzione, approfittando
dell'elevato valore di questo strumento all'avvio delle
contrattazioni. E hanno comunque annunciato che
sottoscriveranno solo in parte l’aumento di capitale
dando un pessimo segnale ai mercati. Tutto questo indica
le grandi difficoltà in cui si trovano le fondazioni
bancarie a seguito della forte concentrazione del loro
portafoglio sulla banca conferitaria. Ma conferma anche
che le fondazioni sono una “passività” per la banca
perché vendono proprio nel momento peggiore rischiando
di compromettere un’operazione delicata quanto
fondamentale per le sorti di una banca, quale l’aumento
di capitale.
AL DI LÀ DEI CASI SPECIFICI
La lezione generale da trarre da
questi episodi è che la presenza determinante delle
fondazioni nel capitale di rischio delle banche rende
più difficile la ricapitalizzazione di queste ultime,
proprio in un momento in cui agli istituti di credito
viene richiesto di aumentare i requisiti di capitale. Il
fatto è che le fondazioni sono, per definizione,
utilizzatrici di reddito anziché generatrici di flussi
di cassa. Il reddito che utilizzano per il conseguimento
delle finalità statutarie è lo stesso che produce la
banca in cui investono; se quest'ultima ha bisogno di
nuovi apporti, questi non possono certo arrivare dalle
fondazioni che non hanno fonti alternative di
generazione di cash flow. Di conseguenza, le fondazioni
non possono intervenire per salvare il proprio
investimento e, se lo fanno usando parte della propria
dotazione, rischiano di affondare assieme alla banca che
vorrebbero salvare compromettendo le finalità sociali
per cui erano state create.
Al tempo stesso le fondazioni, per
evitare di essere diluite e perdere l'unica cosa che
loro interessa – potere e controllo all'interno della
banca – possono ritardare e bloccare l'apporto di
capitale esterno; oppure è la stessa presenza delle
fondazioni e la natura degli interessi da loro
rappresentati a scoraggiare l'arrivo di investitori
privati, con disponibilità di capitale, che, in assenza
di azionisti ingombranti e poco interessati alla
massimizzazione del valore della banca, avrebbero
probabilmente contribuito all’aumento di capitale.
Per tutti questi motivi, la
separazione fra banche e fondazioni non è più
rinviabile. È una di quelle riforme degli assetti
proprietari del nostro capitalismo che serve tanto
nell’immediato della crisi che quando sarà finita. Il
ministro Passera, che conosce per esperienza diretta i
problemi, dovrebbe impegnarsi a fondo in questa riforma
essenziale per rendere al tempo stesso più efficienti e
più stabili le banche italiane, contribuendo al rilancio
di tutto il nostro sistema produttivo. |