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DOCUMENTAZIONE “IN NERO” E SEQUESTRO TRIBUTARIO-Diego Conte

 

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Con la sentenza n. 24923 del 25 novembre 2011 la Suprema Corte offre una chiave di lettura molto interessante di una norma particolare, l’art. 52, commi 7 e 9, D.P.R. 633/1972, avente ad oggetto i poteri investigativi con riferimento alla documentazione aziendale.

 

A tal proposito, è bene evidenziare che lo stesso art. 52 prevede una diversa disciplina a seconda che la documentazione aziendale possa essere compresa nella categoria dei documenti e scritture piuttosto che in quella dei libri e registri: infatti, nel primo caso essa può essere asportata dai locali in cui veniva conservata se “non è possibile riprodurne o farne constare il contenuto nel verbale, nonché in caso di mancata sottoscrizione o di contestazione del contenuto del verbale”; nel secondo caso, invece, non vi può essere asportazione, essendo concesso agli accertatori unicamente “eseguirne o farne eseguire copie o estratti, […] apporre nelle parti che interessano la propria firma o sigla insieme con la data e il bollo d’ufficio e […] adottare le cautele atte ad impedire l’alterazione o la sottrazione dei libri e dei registri”.

 

Nell’art. 52, tuttavia, manca un qualsiasi accenno circa la possibilità di distinguere tra documentazione ufficiale e documentazione “in nero”, distinzione che, invece, ha accolto la giurisprudenza in rassegna.

 

Uno dei vari motivi di gravame proposto contro la sentenza impugnata, infatti, era proprio relativo all’asportazione dai locali aziendali di documentazione (agende e floppy disk) contenente, come dice la Corte, “una vera e propria contabilità parallela” e alla sua ispezione da parte degli organi ispettivi senza il contraddittorio con il contribuente.

 

A parere del ricorrente tale operazione avrebbe invalidato l’avviso di accertamento conseguente all’ispezione, in quanto lesiva del diritto di difesa garantito dal menzionato art. 52, co. 7, D.P.R. 633/1972.

 

La Corte ha rigettato l’impugnazione proposta, dando risposta al quesito relativo alla distinzione tra la contabilità ufficiale e “in nero”.

 

Il Collegio, infatti, ha affermato la necessità di distinguere tra le due diverse documentazioni, ritenendo che le tutele previste dall’art. 52, commi 7 e 9 richiamato dovessero essere assicurate soltanto con riferimento alla documentazione ufficiale: ciò perché soltanto con riguardo a questa vi è la “esigenza […] di non ostacolare l’esercizio della ordinaria attività d’impresa”.

 

Dietro il principio espresso dalla Corte si celano rischi gravi, in quanto parrebbe significare che l’attività d’impresa totalmente o parzialmente “in nero” non sia meritevole di tutela nei confronti di attività ispettive e possa da queste essere liberamente ostacolata.

 

La conclusione a cui è giunta la Cassazione, quindi, non pare affatto soddisfacente.

 

Innanzitutto, è facile osservare che il giudizio di ufficialità o meno della documentazione asportata non può essere dato che al termine della verifica e spesso del procedimento di opposizione, con la conseguenza che ben potrebbe ostacolarsi un’attività in realtà perfettamente in regola.

 

In secondo luogo, al di fuori dell’ambito strettamente tributario, le attività condotte in violazione degli obblighi fiscali godono generalmente delle stesse tutele di quelle che tali violazioni non commettono.

 

Inoltre, è facile osservare come la documentazione “parallela” ben potrebbe tenere nota e/o prova, ad esempio, di rapporti di credito oltre che di proventi “in nero” e non si vede perché questi non debbano essere protetti; tanto più se si vuole evitare il rischio di avvantaggiare paradossalmente un altro evasore: il debitore.

 

Infine, non pare corretta nemmeno l’idea di ostacolare le attività non in regola con i doveri tributari: queste, senza dubbio, devono essere sanzionate e ricondotte alla legalità fiscale, ma non certo ostacolate in fase di ispezione.

 

 

 

 

 

 

 

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