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PREMESSA
Si è già visto che il tradizionale
concetto di «inabilità » si identifica con la riduzione
dell’attitudine generica al lavoro ed ha costituito per
decenni il caposaldo del sistema di assicurazione
obbligatoria (artt. 2, 68 e 74 T.U. 1965).L'art. 13
D.L.vo 23 febbraio 2000 n. 38 ha radicalmente modificato
il sistema di indennizzo dei danni a carattere
permanente conseguenti ad infortunio o a tecnopatia,
avendo introdotto per essi (ma non anche per quelli a
carattere temporaneo) il concetto di« danno biologico di
origine professionale », inteso come lesione
dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile
di accertamento medico legale e risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di
produrre reddito. Nel regime che emerge dagli artt. 68 e
ss. T.U. 1965 assumono rilievo, agli effetti
dell’indennizzo, solo le menomazioni di carattere
fisiopsichico che riducono o annullano del tutto
l’attitudine al lavoro del soggetto assicurato, cioè la
sua capacità « biologica » di guadagno. Nel TU 1124/1965
la inabilità al lavoro si identifica, secondo la legge,
con la perdita dell’attitudine al lavoro, ovvero con la
perdita della capacità dell’infortunato di espletare un
lavoro proficuo. La copertura assicurativa copre
esclusivamente i riflessi che la menomazione psicofisica
ha sull'attitudine al lavoro, e non anche ulteriori
danni ad esempio alla vita di relazione. Secondo il TU
1124/1965 art. 74
a) Inabilità permanente assoluta:
"toglie completamente e per tutta la vita l’attitudine
al lavoro" (art. 74 T.U.), è un’incapacità generica.
b) Inabilità permanente parziale:
"diminuisce in parte, ma essenzialmente e per tutta la
vita, l’attitudine al lavoro" (art. 74 T.U.), è
un’incapacità generica.
c) inabilità temporanea assoluta:
"impedisce totalmente e di fatto all’infortunato di
attendere al lavoro" (art. 68 T.U.), è un’incapacità
specifica.
Negli anni 70’ ancora la Corte
Costituzionale con decisione 28 gennaio 1970 n. 10
scriveva che la garanzia ivi sancita (dall’art. 38 ndr)
a favore dei lavoratori infortunati attiene piuttosto
all'adeguazione dei mezzi di carattere previdenziale
alle esigenze di vita dell'infortunato piuttosto che
alle modalità necessarie a conseguirli, a meno che esse
siano tali da comprometterne il conseguimento”. Sul
piano generale, nel valutare la risarcibilità del danno
alla persona la giurisprudenza limitava il proprio
interesse a due soli profili: il peggioramento delle
capacità produttive del soggetto (lucro cessante) ed i
patimenti sopportati in ragione della lesione (c.d.
danno morale). Al di fuori del 2059 c.civ. dunque, il
danno ingiusto di cui all'art.2043 del codice civile era
individuato nella limitazione della capacità lavorativa
generica, ossia l'astratta capacità di lavoro del
soggetto; venendo ad incidere negativamente su questa,
l'invalidità permanente comportava un danno di natura
patrimoniale proporzionale al reddito della persona lesa
e capitalizzato per il numero degli anni di lavoro a
venire. Tale sistema però non assicurava ristoro a
quanti, privi di un reddito proprio, si trovavano
comunque a subire un danno alla propria persona
(disoccupati, casalinghe ecc.) e non riusciva a
giustificare l'entità del risarcimento quando la lesione
non avesse un riflesso sul guadagno (come nel caso della
prevalenza del capitale sul fattore umano nell'ambito
dell'attività economica svolta). Un sistema di calcolo
tabellare fondato sul parametro del danno personale
aveva inoltre la iniqua conseguenza di indennizzare
diversamente menomazioni fisiche di eguale entità
favorendo le persone che guadagnavano di più.
E’stata l’evoluzione presente nella
giurisprudenza civilistica della nozione di danno alla
persona che determinando in qualche modo divaricazione
nella qualità e nella misurazione del danno
previdenziale ha poi determinato un mutamento di rotta
anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.
La nozione prettamente economicistica di danno
patrimoniale non è apparsa sufficiente alla
giurisprudenza che ha sottolineato che il danno alla
persona (inteso in senso ampio) contempla tutto
l'insieme dei danni, patrimoniali e non, che un soggetto
subisce in conseguenza di un evento illecito.
All'interno di questo insieme più ampio possiamo
ritagliare la categoria dei danni alla persona in senso
stretto (altrimenti definito danno biologico), intesi
quali danni subiti primariamente e direttamente sulla
sua persona dal soggetto leso da un illecito.
Consapevole che il danno alla persona dovesse essere
ancorato ad un riferimento alla lesione di interessi
umani che prescindessero dalla capacità lavorativa, la
giurisprudenza iniziò così un lungo cammino verso
l'elaborazione del concetto di danno biologico. I primi
tentativi si rivolsero a sfere diverse di danno come il
danno alla sfera sessuale, il danno estetico, il danno
alla vita di relazione alle quali tutte si cercò di
offrire ristoro in via equitativa fondandosi sul
disposto dell'art.1223 del codice civile.
Il presente contributo è
finalizzato ad offrire un quadro di sintesi
del’evoluzione della giurisprudenza della Corte
Costituzionale sul punto.
IL DANNO MORALE
E’il danno morale a fare per primo
il suo ingresso nella elaborazione civilistica inteso
come ripercussione patrimoniale indiretta del dolore .
Ad oggi il danno morale è normalmente definito dalla
giurisprudenza come “l'ingiusto turbamento dello stato
d'animo del danneggiato o anche il patema d'animo o
stato d'angoscia transeunte generato dall'illecito”
(Cass. n. 10393/2002). Con il danno morale si va dunque
ad intaccare quello che è lo stato d'animo del
lavoratore, consentendo il ristoro di tutti quei
turbamenti, quali ansie ed angosce, che derivano al
prestatore dall'aver subito un illecito da parte del
proprio datore di lavoro. Grazie alla ricostruzione
giurisprudenziale affermatasi nel corso degli anni, il
danno morale viene direttamente ricondotto all'art. 185
codice penale, e quindi al danno risarcibile nei
confronti delle vittime di un reato, le quali possono
chiedere il ristoro per il turbamento dello stato
d'animo derivante dall'aver subito un reato. secondo una
interpretazione strettamente letterale dell'art. 2059
c.c.. In base a quest'ultima norma infatti “il danno non
patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi
determinati dalla legge”. Questo significa “tipicità”
del danno non patrimoniale, quindi soltanto se la legge
per il caso particolare che interessa riesce a
configurare un danno non patrimoniale, è possibile
chiederne il risarcimento.
Il concetto di “legge” lo s'intende
onnicomprensivo di tutte le fonti, quindi anche della
Costituzione. Pertanto, se una condotta illecita del
datore di lavoro è lesiva di un bene costituzionalmente
garantito, l’art.2059 c.c. risulterà rispettato e quindi
potrà essere chiesto il risarcimento. Deriva da ciò che
il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno
morale soltanto se il comportamento illecito del datore
di lavoro sia ascrivibile agli estremi di un reato. Ciò,
in particolare, avviene nelle ipotesi di mobbing, di
demansionamento talmente prolungato da integrare la
fattispecie di lesioni colpose ovvero nelle ipotesi di
licenziamento ingiurioso o diffamatorio.
LA SENTENZA 87/1979 DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
Con questa sentenza la Corte
dichiaro' infondata la questione di legittimità
costituzionale posta dal Tribunale di Padova
rappresentando in un inciso fondamentale che ha sorretto
tutta la evoluzione giurisprudenziale successiva che
rientra nella discrezionalità del legislatore adottare
un trattamento differenziato, ove non vengono in
considerazione situazioni soggettive costituzionalmente
garantite. L'art. 2059 c.c. non pone limitazioni
all'esercizio di un diritto, prevedendo invece che il
diritto al risarcimento del danno non patrimoniale sorge
solo nei casi espressamente previsti dalla legge; e
quindi affermo' si' che l'art. 2059 c.c. non contrasta
col principio di eguaglianza, essendo lecito al
legislatore operare trattamenti diversificati di
situazioni non identiche per presupposti e gravita', ma
indico' espressamente, tuttavia, come limite alla
facolta' discrezionale del legislatore, l'ipotesi in cui
vengano in considerazione situazioni soggettive
costituzionalmente garantite.
LA SENTENZA 88/1979 DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
In questa sentenza la Corte
Costituzionale riconduce il danno alla salute al
carattere precettivo dell’art. 32 Cost e così statuisce
:” invero gli artt. 2059 del codice civile e 185 del
codice penale, nel loro combinato disposto,
espressamente stabiliscono che, ove un reato sia
commesso, il colpevole é tenuto anche al risarcimento
dei danni non patrimoniali. L'espressione "danno non
patrimoniale", adottata dal legislatore, é ampia e
generale e tale da riferirsi, senza ombra di dubbio, a
qualsiasi pregiudizio che si contrapponga, in via
negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato dalla
economicità dell'interesse leso. Il che porta a ritenere
che l'ambito di applicazione dei sopra richiamati artt.
2059 del codice civile e 185 del codice penale -
contrariamente a quanto affermato nell'ordinanza di
rimessione - si estende fino a ricomprendere ogni danno
non suscettibile direttamente di valutazione economica,
compreso quello alla salute. Il bene a questa afferente
é tutelato dall'art. 32 Costituzione non solo come
interesse della collettività, ma anche e soprattutto
come diritto fondamentale dell'individuo, sicché si
configura come un diritto primario ed assoluto,
pienamente operante anche nei rapporti tra privati. Esso
certamente é da ricomprendere tra le posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e
non sembra dubbia la sussistenza dell'illecito, con
conseguente obbligo della riparazione, in caso di
violazione del diritto stesso. Da tale qualificazione
deriva che la indennizzabilità non può essere limitata
alle conseguenze della violazione incidenti
sull'attitudine a produrre reddito ma deve comprendere
anche gli effetti della lesione al diritto, considerato
come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da
ogni altra circostanza e conseguenza. Ciò deriva dalla
protezione primaria accordata dalla Costituzione al
diritto alla salute come a tutte le altre posizioni
soggettive a contenuto essenzialmente non patrimoniale,
direttamente tutelate. Appare evidente, allora, che
ricorrendo nella fattispecie in esame i presupposti per
l'applicabilità dell'art. 2059 del codice civile (il
Capenti era stato condannato, in sede penale, per il
reato di cui all'art. 582 cod. pen.), vi é la
possibilità di accordare agli attori il risarcimento per
tutti i pregiudizi di carattere non patrimoniale da essi
subiti in dipendenza dell'illecito, compresi quelli
corrispondenti alla menomazione della loro integrità
fisica in sé considerata. Non é quindi ipotizzabile
alcun contrasto con gli artt. 32 e 24 della Costituzione
- in quanto la tutela del diritto alla salute,
riconosciuto dalla Costituzione come diritto
fondamentale dell'individuo oltre che come interesse
della collettività, riceve, nella particolare ipotesi
esaminata (che é la sola che in questa sede può venire
in considerazione), concreta applicazione. Del pari
insussistente é poi la dedotta violazione dell'art. 3
della Costituzione - fondata sulla differente entità del
risarcimento a seconda del reddito e delle condizioni
economiche del danneggiato - poiché, per quanto si é
detto, la lesione del diritto alla salute, autonomamente
considerato, può trovare, nel caso di specie, congrua
riparazione, a prescindere da ogni riflesso di ordine
economico.”
LA SENTENZA N.184/1986 DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
L'esperienza giurisprudenziale ha,
nella propria evoluzione, il proprio fondamentale
spartiacque nella pronuncia sulla legittimità
costituzionale dell'art.2059 del codice civile
intervenuta nel 1986 (sentenza numero 184) in cui la
Corte ebbe modo di precisare che il danno biologico è
distinto dal danno morale di cui all'art.2059 ed è
fondato sulla lesione diretta del diritto alla salute
tutelato dall'art.32 della Costituzione
offrendo,peraltro, una lettura costituzionale dell’art.
2043. La Corte distinse in particolare il danno evento,
che è intrinseco al fatto illecito in quanto costituito
dalla lesione (la menomazione dell'integrità psico
fisica del soggetto), dal danno conseguenza, ossia dalle
conseguenze dannose del fatto collocandoli tuttavia
entrambi nell'ampio genus del danno patrimoniale,
soluzione accolta proprio per non limitare la
risarcibilità del danno biologico. L'art. 2043 c.c. e'
una sorta di "norma in bianco": mentre nello stesso
articolo e' espressamente e chiaramente indicata
l'obbligazione risarcitoria, che consegue al fatto
doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici
la cui lesione e' vietata: l'illiceita' oggettiva del
fatto, che condiziona il sorgere dell'obbligazione
risarcitoria, viene indicata unicamente attraverso
l'"ingiustizia" del danno prodotto dall'illecito. E'
stato affermato, quasi all'inizio di questo secolo
(l'osservazione era riferita all'art. 1151 dell'abrogato
codice civile ma vale, ovviamente, anche per il vigente
art. 2043 c.c.) che l'articolo in esame "contiene una
norma giuridica secondaria, la cui applicazione suppone
l'esistenza d'una norma giuridica primaria, perche' non
fa che statuire le conseguenze dell'iniuria, dell'atto
contra ius, cioe' della violazione della norma di
diritto obiettivo".
Il riconoscimento del diritto alla
salute, come fondamentale diritto della persona umana,
comporta il riconoscimento che l'art. 32 Cost. integra
l'art. 2043 c.c., completandone il precetto primario. E'
il collegamento tra gli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. che
ha permesso d'affermare che, dovendosi il diritto alla
salute certamente ricomprendere tra le posizioni
subiettive tutelate dalla Costituzione, "non sembra
dubbia la sussistenza dell'illecito, con conseguente
obbligo della riparazione, in caso di violazione del
diritto stesso". L'ingiustizia del danno biologico e la
conseguente sua risarcibilita' discendono direttamente
dal collegamento tra gli artt. 32, primo comma, Cost. e
2043 c.c.; piu' precisamente dall'integrazione di
quest'ultima disposizione con la prima. mentre rientra
nella discrezionalità del legislatore adottare
discipline differenziate per la tutela risarcitoria di
situazioni diverse, tale discrezionalità è invece
esclusa allorquando vengano in considerazione situazioni
soggettive costituzionalmente garantite. Per queste
ultime, cioè, la garanzia costituzionale implica
logicamente l'obbligo del legislatore di apprestare una
tutela piena , ed in particolare - ma non esclusivamente
- una piena tutela risarcitoria. Il riconoscimento del
diritto alla salute come diritto pienamente operante
anche nei rapporti di diritto privato, non e' senza
conseguenza in ordine ai collegamenti tra lo stesso art.
32, primo comma, Cost. e l'art. 2043 c.c La vigente
Costituzione, garantendo principalmente valori
personali, svela che l'art. 2043 c.c. va posto
soprattutto in correlazione agli articoli dalla Carta
fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che,
pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a
compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono
a causa dell'illecito. L'art. 2043 c.c., correlato
all'art. 32 Cost., va, necessariamente esteso fino a
comprendere il risarcimento, non solo dei danni in senso
stretto patrimoniali ma (esclusi, per le ragioni gia'
indicate, i danni morali subiettivi) tutti i danni che,
almeno potenzialmente, ostacolano le attivita'
realizzatrici della persona umana.
Ed e' questo il profondo
significato innovativo della richiesta di autonomo
risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: tale
richiesta contiene un implicito, ma ineludibile, invito
ad una particolare attenzione alla norma primaria, la
cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043 c.c.,
al contenuto dell'iniuria, di cui allo stesso articolo,
ed alla comprensione (non piu' limitata, quindi, alla
garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento
della lesione di beni e valori personali.
Se e' vero che l'art. 32 Cost.
tutela la salute come diritto fondamentale del privato,
e se e' vero che tale diritto e' primario e pienamente
operante anche nei rapporti tra privati, allo stesso
modo come non sono configurabili limiti alla
risarcibilita' del danno biologico, quali quelli posti
dall'art. 2059 c.c., non e' ipotizzabile limite alla
risarcibilita' dello stesso danno, per se' considerato,
ex art. 2043 c.c. Il risarcimento del danno ex art. 2043
e' sanzione esecutiva del precetto primario: ed e' la
minima (a parte il risarcimento ex art. 2058 c.c.) delle
sanzioni che l'ordinamento appresta per la tutela d'un
interesse.
Questa impostazione radicalmente
innova rispetto all’assetto proprio dell’assicurazione
obbligatoria con particolare riferimento all’articolo 10
che esonera il datore di lavoro dalla responsabilità
civile con riferimento alla sola componente patrimoniale
del danno alla persona.
LA SENTENZA 6 GIUGNO 1989 N. 319
DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Quando la Corte Costituzionale ha
pronunciato detta sentenza, valeva la tripartizione del
danno risarcibile, in danno patrimoniale, danno
biologico, danno morale, costituente ognuno un genus
diverso dall’altro. L’Inail indennizzava, non il danno
alla persona in sé considerato (danno biologico,
corrispondente al danno non patrimoniale biologico
civilistico), ma il danno alla “attitudine al lavoro”,
costituente un danno di natura sostanzialmente
patrimoniale (Corte cost. n.356/1991).Era ovvio allora
che la “prelazione o prededuzione” in favore dell’ente
gestore dell’assicurazione sociale, su quanto dovuto
dall’assicuratore della responsabilità civile, si
risolveva, in caso di insufficienza del massimale, in un
“esproprio” del diritto del lavoratore danneggiato
all’integrale risarcimento del danno alla persona,
costituzionalmente rilevante. Il ragionamento svolto
dalla Corte costituzionale era il seguente: le ragioni
della surroga non possono prevalere e pregiudicare
valori costituzionalmente garantiti della persona, per
cui, in caso di incapienza del massimale, occorre,
anzitutto, che il lavoratore veda integralmente e
prioritariamente ristorati i danni alla “integrità
personale”, configurata come “fondamentale diritto
dell’individuo”.Se, in caso di insufficienza del
massimale, avesse prevalso l’interesse al recupero di
quanto erogato da parte dell’ente gestore di
assicurazione sociale, il lavoratore danneggiato avrebbe
visto pregiudicato il suo diritto al pieno ristoro dei
danni alla persona subiti.
Di qui la pronuncia di
illegittimità costituzionale dell’art.28 L. n.990/1969.
LA SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE 15 FEBBRAIO 1991 N. 87
In questa sentenza assicurazione
infortuni e danno alla salute si incontrano. Il danno
biologico non rientra nella copertura Inail e deve
essere pertanto risarcito dal datore di lavoro secondo
le regole ordinarie della responsabilità civile.
Indubbiamente,scrive la Corte, l'esclusione
dell'intervento pubblico per la riparazione del danno
alla salute patito dal lavoratore in conseguenza di
eventi connessi alla propria attività lavorativa non può
dirsi in sintonia con la garanzia della salute come
diritto fondamentale dell'individuo e interesse della
collettività (art. 32 Cost.) e, ad un tempo, con la
tutela privilegiata che la Carta costituzionale
riconosce al lavoro come valore fondante della nostra
forma di Stato (artt. 1, primo comma, 4, 35 e 38 Cost.),
nel quadro dei più generali principi di solidarietà
(art. 2 Cost.) e di eguaglianza, anche sostanziale (art.
3 Cost.).È vero che il danno biologico, in sé
considerato, deve ritenersi risarcibile da parte del
datore di lavoro secondo le regole che governano la
responsabilità civile di quest'ultimo. Tuttavia, le
stesse ragioni, che hanno indotto a giudicare non
soddisfacente la tutela ordinaria e ad introdurre un
sistema di assicurazione sociale obbligatoria contro il
rischio per il lavoratore di infortuni e malattie
professionali capaci di incidere sulla sua attitudine al
lavoro, inducono a ritenere che anche il rischio della
menomazione dell'integrità psico-fisica del lavoratore
medesimo, prodottasi nello svolgimento e a causa delle
sue mansioni, debba per sé stessa, e indipendentemente
dalle sue conseguenze ulteriori, godere di una garanzia
differenziata e più intensa, che consenta, mediante
apposite modalità sostanziali e procedurali, quella
effettiva, tempestiva ed automatica riparazione del
danno che la disciplina comune non è in grado di
apprestare. Un simile ampliamento della tutela sarebbe
pure in linea, per un verso, con la tendenza
all'espansione della copertura assicurativa dei rischi
del lavoratore, rivelata, per esempio, dall'abbandono
del c.d. sistema tabellare delle malattie professionali
(v. sentenza n. 179 del 1988); per altro verso, con il
crescente impegno di meccanismi solidaristici per la
reintegrazione di danni alla persona, autonomamente
considerati (v. sentenze nn. 560 e 561 del 1987).
Tuttavia, deve ammettersi che il rafforzamento della
tutela del lavoratore qui considerato comporterebbe una
innovazione legislativa, e quindi la specificazione di
modalità procedurali e tecniche, la cui effettuazione
spetta al legislatore. Di conseguenza, la questione deve
essere dichiarata inammissibile. Non senza ricordare,
però, come l'esigenza di adeguata tutela delle malattie
professionali abbia indotto la Corte - di fronte alla
prolungata inerzia del legislatore, ed in presenza di
determinate condizioni - a pervenire alla declaratoria
di illegittimità costituzionale del c.d. sistema
tabellare, la cui revisione abbisognava anch'essa di
specificazioni. Il caso concerneva un lavoratore che
,per effetto del lavoro, aveva contratto una azospermia
con impotentia generandi, per sé non indennizzabile
perché non incidente sull’attitudine al lavoro.
LA SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE 356 DEL 18 LUGLIO 1991
Con questa sentenza la Corte si
pronuncia specificamente sul danno biologico
nell’assicurazione infortuni precisando che la suddetta
copertura assicurativa non ha per oggetto il danno
biologico di per sé stesso e nella sua integralità.Le
indennità previste dal d.P.R. n. 1124 del 1965 sono
collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che
la menomazione psico-fisica ha sull'attitudine al lavoro
dell'assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli
svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la
menomazione comporta con riferimento agli altri ambiti e
agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua
personalità nella propria vita. Certamente - come è
stato affermato nella citata sentenza n. 87 del 1991 -
le stesse ragioni che hanno indotto ad introdurre un
sistema di assicurazione sociale obbligatoria in materia
di infortuni sul lavoro e di malattie professionali,
inducono a ritenere che il rischio della menomazione
dell'integrità psico-fisica del lavoratore medesimo,
collegato allo svolgimento delle sue mansioni, debba
godere di una garanzia differenziata e più intensa, che
consenta quella integrale ed automatica riparazione del
danno biologico che la disciplina comune non è in grado
di apprestare in modo effettivo. Il danno all'integrità
fisica deve essere oggetto di piena tutela assicurativa
per finalità che trovano consacrazione nell'art. 32 ed
anche - come è stato rilevato in dottrina - nel senso di
solidarietà sociale che permea di sè l'intera
Costituzione. In questo senso la Corte ha rivolto al
legislatore un chiaro invito - che viene qui ribadito -
ad un intervento diretto ad una riforma del sistema
assicurativo idonea ad apprestare una piena ed integrale
garanzia assicurativa rispetto al danno biologico
derivante da infortunio sul lavoro o da malattia
professionale. L'art. 1916 cod. civ. - che non esclude
dal regresso dell'assicuratore le somme dovute dal terzo
danneggiante per titoli di danno diversi da quelli che
costituiscono oggetto del rischio assicurato-deve quindi
essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
violazione dell'art. 32 della Costituzione, nella parte
in cui consente all'assicuratore di avvalersi, a tal
fine, anche delle somme che il terzo deve al danneggiato
a titolo di risarcimento del danno biologico che non
formi oggetto della copertura assicurativa. La Corte,
richiamando la sequenza concettuale delineata dalla
propria giurisprudenza sul tema della tutela
risarcitoria del diritto alla salute, ha ribadito che il
principio costituzionale della integrale e non
limitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute
riguarda prioritariamente e indefettibilmente il danno
biologico in sé considerato, che sussiste a prescindere
dalla eventuale perdita o riduzione di reddito e che va
riferito alla integralità dei suoi riflessi
pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le
situazioni e i rapporti in cui la persona esplica sé
stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con
riferimento alla sfera produttiva, ma anche con
riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva,
sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui
il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte
"le attività realizzatrici della persona umana".
Sulla base di tali principi, la
Corte - chiamata a giudicare la legittimità
costituzionale dell'art. 1916 cod. civ. - ha affermato
che "allorquando la copertura assicurativa, in virtù
delle norme di legge o di contratto che la disciplinano,
non abbia ad oggetto il danno biologico, oppure si
limiti ad indennizzare la perdita o riduzione di alcune
soltanto delle capacità del soggetto (come avviene per
l'attitudine al lavoro nel regime dell'assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali), consentire che l'assicuratore,
nell'esercizio del proprio diritto di surroga nei
confronti del terzo responsabile, si avvalga anche del
diritto dell'assicurato al risarcimento del danno
biologico non coperto dalla prestazione assicurativa,
significa, appunto, sacrificare il diritto
dell'assicurato stesso all'integrale risarcimento di
tale danno, con conseguente violazione dell'art. 32
della Costituzione".
SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE, 27 DICEMBRE 1991, N. 485
Sulla base della via ormai
tracciata con i precedenti pronunciamenti la Corte
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 10,
sesto e settimo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n.
1124, nella parte in cui prevede che il lavoratore
infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei
confronti delle persone civilmente responsabili per il
reato da cui l'infortunio è derivato, al risarcimento
del danno biologico non collegato alla perdita o
riduzione della capacità lavorativa generica solo se e
solo nella misura in cui il danno risarcibile,
complessivamente considerato, superi l'ammontare delle
indennità corrisposte dall'I.N.A.I.L. Dichiara, altresì,
l'illegittimità costituzionale dell'art. 11, primo e
secondo comma, del d.P.R. 30 giugno 1964, n. 1124, nella
parte in cui consente all'I.N.A.I.L. di avvalersi,
nell'esercizio del diritto di regresso contro le persone
civilmente responsabili, anche delle somme dovute al
lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del
danno biologico non collegato alla perdita o riduzione
della capacità lavorativa generica.
L’esonero del datore di lavoro da
responsabilità civile viene per tal via interpretata
come riferente si al solo danno patrimoniale oggetto
dell’assicurazione obbligatoria , con esclusione del
risarcimento del danno da lesione del diritto alla
salute.La corte statuisce quanto precede in relazione
allo status quo del tempo e sottolinea parimenti come
anche il danno biologico debba in prospettiva essere
ricondotto alla tutela ex art. 38 Cost. e quindi
all’intervento pubblico.
LA SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE 17 FEBBRAIO 1994, N. 37
Con questa decisone la Corte
considera infondata la questione di legittimità
costituzionale degli art. 10 comma 6 e 7 e 11 comma 1 e
2 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, sollevata, con
riferimento agli art. 2, 32 e 38 cost.,dal Tribunale di
Ravenna in base al presupposto interpretativo che le
citate norme, consentendo all'INAIL, in sede di regresso
per indennizzo corrisposto al lavoratore per infortuni
sul lavoro ed addebitabili al datore di lavoro, di
avvalersi di somme da questo dovute al danneggiato per
danni morali ex art. 2053 c.c., sottrarrebbe al
danneggiato quanto gli spetta a titolo di risarcimento,
per danni non collegati ad una diminuzione della
capacità lavorativa e quindi non rientranti nel rischio
assicurato. Per tal via la Corte Costituzionale supera
una volta per tutte i, principio interpretativo secondo
cui il danno risarcibile anche se comprende diverse
componenti , costituisce un complesso unitario e
sostanzialmente indifferenziato.
LA SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE 27 OTTOBRE 1994, N. 372
Di non facile comprensione è poi il
confronto, instaurato ai fini dell'art. 3 Cost., con la
disciplina delle prestazioni previdenziali per
infortunio sul lavoro, modificata dalle sentenze nn. 356
e 485 del 1991 di questa Corte, ulteriormente sviluppate
dalla sent. n. 37 del 1994, in relazione all'ipotesi di
infortunio inabilitante. Da tali pronunce non si può
argomentare che in caso di infortunio mortale la rendita
corrisposta dall'INAIL ai superstiti include il
risarcimento del danno biologico derivato al lavoratore
per la parte "riconducibile alla mera attitudine a
produrre reddito": questo tipo di danno non è
configurabile proprio perchè l'assicurato è morto. La
rendita spetta iure proprio ai superstiti indicati
dall'art. 85 del d.P.R. 30 giugno 1965, n.1124
(modificato dalla legge 10 maggio 1982, n. 251), giusta
una regola analoga a quella dell'art. 1920, terzo comma,
cod.civ. (estranea all'istituto della responsabilità
civile), ed è destinata a indennizzare forfettariamente
il pregiudizio patrimoniale sofferto a ragione del loro
rapporto di dipendenza economica col defunto, mentre il
danno biologico ad essi eventualmente derivato dalla
morte del familiare è disciplinato dal diritto comune.
L'ostacolo a riconoscere ai
congiunti, di persona deceduta a seguito di
comportamento colposo altrui, un risarcimento "iure
successionis" della lesione del diritto alla vita e alla
salute non proviene dal carattere patrimoniale dei danni
risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì da un
limite strutturale della responsabilità civile afferente
sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere
se non in una perdita cagionata dalla lesione di una
situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione
del danno, che non può riferirsi se non a perdite; e,
pertanto, la tutela risarcitoria del diritto alla
salute, ex art. 2043 c.c. a cui va esteso il limite di
cui sopra, non è in contrasto con gli art. 2 e 32 cost.
Il danno biologico è la conseguenza
della violazione del diritto alla salute e, quindi,
postula necessariamente la permanenza in vita del
soggetto leso, mentre in caso di morte è violato il
diritto alla vita, che è bene giuridico completamente
diverso dal diritto alla salute. Principi poi ripresi
dalla Cassazione Civile che ad esempio in Sez. III del
17 gennaio 2008 n. 870 statuisce:
“Il danno all’integrità
psico-fisica, trasmesso "iure hereditatis" dalla persona
deceduta ai suoi stretti congiunti, va risarcito anche
quando la sopravvivenza della vittima è limitata ad uno
spazio temporale molto breve; non risulta stabilito in
linea generale quale durata debba avere la sopravvivenza
perché possa essere ritenuta apprezzabile, ai fini del
risarcimento del danno biologico, ma è del tutto
evidente che non può escludersi in via di principio che
sia apprezzabile una sopravvivenza che si protrae per
tre giorni (nella specie la Corte ha cassato con rinvio
la sentenza della Corte D’Appello che aveva negato ad
una coppia di genitori - che aveva perso il giovane
figlio in un incidente stradale – il danno biologico
"iure hereditatis" perché il ragazzo era sopravvissuto
solo per tre giorni)”.
LA REAZIONE DELLA DOTTRINA
In Italia non è mancato chi
(Persiani) ha rimarcato che la Corte nel suo percorso,
si sarebbe ispirata ad una logica di tipo assicurativo
propria della responsabilità civile, che esige
l’integrale risarcimento del danno alla persona,
estranea invece alla tutela previdenziale di cui al 38C
che vale per i fini dell’assicurazione Inail a sostegno
del lavoratore infortunato che ha bisogno dal
risarcimento in sede civilistica.
La dottrina italiana prevalente ha
comunque condiviso le conclusioni della Corte secondo
cui la tutela previdenziale sarebbe in qualche modo
monca ove mai non tenesse conto della lesione
dell’integrità psico fisica del lavoratore rendendo
centrale la tutela globale della persona del lavoratore
infortunato non più solo la tutela del fatto lesivo in
sé considerato(Giubboni, La Peccerella)
E d’altronde le valutazioni circa
le attenzioni e le limitazioni, cui inevitabilmente va
incontro un soggetto che contrae il virus HCV
(particolarità del regime alimentare, cautele nei
rapporti con i terzi, diminuita intensità della vita
lavorativa), fra l'altro in presenza di malattia
silente, non attengono in linea di principio alla tutela
antinfortunistica, perché estranee alla nozione
dell'attitudine al lavoro nella sua espressione della
capacità lavorativa generica, quest'ultima riferita alla
diminuzione della concreta capacità di lavoro
dell'assicurato in rapporto alla produzione del reddito.
Lo ha stabilito la Sezione lavoro
della Corte di Cassazione, con la sentenza 1° marzo 2004
n. 4165, ricordando che , anche a voler prevedere una
qualche incidenza della malattia sulla predetta capacità
lavorativa generica, giammai potrebbe derivarne una
riduzione della capacità lavorativa generica nei limiti
minimi della sua indennizzabilità.
Al tempo stesso se si pensa al
lavoro precario in cui è difficile determinare una
retribuzione che rispecchi l’intera vita lavorativa e
che non dia luogo a rendite minimali la considerazione
della lesione all’integrità psicofisica può aiutare a
ridurre le conseguenze negative sul versante
dell’assicurazione obbligatoria dell’espansione del
lavoro precario. Successivamente anche la giurisprudenza
di Cassazione ( su cui però andrebbe fatta più
approfondita riflessione) ha ispirato i propri
pronunciamenti al decisum della Corte Costituzionale
come è evincibile da Cassazione civile sez. III, 20
giugno 1992 n. 7577 in base alla quale in tema di
surrogazione dell'assicuratore nei diritti
dell'assicurato, ai sensi dell'art. 1916 c.c., opera il
principio - che impronta anche la giurisprudenza
costituzionale (sent. n. 319 del 1989, 356 del 1991 e
485 del 1991), - secondo il quale l'esercizio della
relativa azione non deve sacrificare, oltre i limiti
imposti dal contenuto del rapporto assicurativo, il
diritto dell'assicurato all'integrale risarcimento del
danno, con la conseguenza che non può estendersi anche
al danno non coperto dalla garanzia assicurativa, quale
il danno morale patito dal lavoratore - a cagione di un
infortunio sul lavoro imputabile a penale responsabilità
di terzi - e non compreso nell'indennizzo corrisposto
dall'INAIL. Per tal via si è pervenuti alla conseguenza
secondo cui l’esonero del datore di lavoro dalla
responsabilità civile opera solo nei limiti
dell’assicurazione obbligatoria e dei suoi presupposti
oggettivi e soggettivi. Al di fuori di questi limiti e
dove la copertura non interviene, non opera l’esonero e
la responsabilità civile del datore di lavoro è
disciplinata dal codice civile senza i limiti imposti
dall’art. 10 TU 1124/1965. L’azione di rivalsa ex artt.
1916 o 10 e 11 DPR 30 giugno 1965 n. 1124 non può
estendersi alle somme dovute per il risarcimento dei
titoli di danno che non siano oggetto della tutela
previdenziale.
Le indicazioni della Consulta sono
state definitivamente raccolte dal legislatore con la
legge delega 144/1999 art. 55 lett. s) prodromica
all’introduzione nell’assicurazione obbligatoria
dell’indennizzo per danno biologico ex art. 13 D. Lgs.
38/2000. |