Come opera il principio nella
corruzione in atti giudiziari.
Tale problematica diventa piuttosto
pregnante nel reato di corruzione in atti giudiziari
(art. 319-ter c.p.), relativamente al quale dottrina e
giurisprudenza hanno intrapreso numerose disamine, tanto
sui criteri determinativi del tempus commissi delicti,
tanto sulle conseguenze della sua individuazione.
Occorre evidenziare come la
corruzione in atti giudiziari rivesta oggi un ruolo di
primo piano nel sistema penale, oltre ad essere una
fattispecie di grande attualità. Non è stato però sempre
così. Prima del 1990, infatti, la corruzione in atti
giudiziari non era una figura autonoma di reato, essendo
configurata solo come circostanza aggravante della
corruzione semplice (artt. 318-319 c.p.). In sostanza,
la pena prevista risultava aggravata dall’aver commesso
il fatto corruttivo nel corso di un processo,
compromettendo l’imparzialità della funzione
giudiziaria. Ebbene, con l’entrata in vigore della Lg.
n. 86/1990, quella che era una semplice aggravante si è
emancipata a figura autonoma di reato ed ha trovato
collocazione nel disposto dell’art. 319-ter c.p. Le
ragioni del cambiamento sono state essenzialmente due:
conformare la normativa italiana a quella degli altri
paesi europei, che già da tempo accordavano autonomia
alla corruzione in atti giudiziari; l’esigenza di
proteggere in modo pregnante l’esercizio della funzione
giudiziaria, valutando con particolare rigore le ipotesi
di sua compromissione. Ebbene il delitto in questione
ricorre attualmente in presenza di fatti di corruzione
(artt. 318-319 c.p.) posti in essere “per favorire o
danneggiare una parte in un processo civile, penale o
amministrativo”. È poi aggravato ove, in conseguenza dei
predetti fatti, taluno abbia subito un’ingiusta condanna
alla reclusione non superiore a cinque anni (si parla in
tal caso di delitto aggravato dall’evento). Ulteriore
aggravamento di pena è connesso alla comminatoria di
un’ingiusta condanna superiore a cinque anni di
reclusione. Nella versione originaria della Lg. 86/1990,
l’art. 321 c.p. non applicava tuttavia sanzioni al
corruttore, punendo il solo pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio che veniva corrotto. Di
seguito la Lg. 181/1992 ha modificato la norma in
questione, estendendo le suddette pene anche al
corruttore. Ne consegue che oggi rispondono del delitto
entrambi i soggetti: si tratta infatti, come per le
altre ipotesi di corruzione, di un reato plurisoggettivo
o a concorso necessario (perché sussista è necessaria la
presenza di almeno due soggetti, essi devono integrare
il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice).
Per quanto riguarda i profili di tipicità della
fattispecie in questione, il nucleo centrale del fatto
di reato è identico alle altre ipotesi di corruzione:
l’art. 319-ter c.p. richiama infatti sia la corruzione
impropria ex art. 318 c.p., che quella propria ex art.
319 c.p.
Omissis
3. Individuazione del tempus
commissi delicti.
(...)
Secondo dottrina e giurisprudenza
dominanti, infatti, l’elemento che in concreto
caratterizza il delitto di corruzione è il pactum
sceleris riguardante le attribuzioni del pubblico
ufficiale: le condotte del privato e del pubblico
funzionario non sono separate, né distinte, ma
speculari, indissolubilmente connesse e convergenti
nell’unico accordo inerente il mercimonio della funzione
pubblica e di quella giudiziaria (per questo si
definisce la corruzione delitto plurisoggettivo
bilaterale o a concorso necessario). Quanto detto è
attestato dal perfetto sincronismo tra il dare del
privato ed il ricevere del pubblico funzionario
(connessione logica tra la corruzione attiva, che anima
la vicenda, e la corruzione passiva) e dal dato
normativo dell’art. 321 c.p., che estende al corruttore
le pene previste per il corrotto, senza considerare
autonomamente il comportamento del primo. Se dunque il
pactum sceleris è elemento essenziale della fattispecie
corruttiva, sarà in relazione ad esso, e non ad altri
momenti, che andrà identificato il tempus commissi
delicti del reato. Dalla lettura degli art. 318 e 319
c.p. emerge come l’accordo corruttivo può perfezionarsi
in due modi: 1) con la contestuale ricezione della
retribuzione indebita da parte del pubblico ufficiale;
2) con l’accettazione della promessa, non essendo
necessaria l’esecuzione dell’impegno o la consegna del
compenso (ciò in quanto l’accettazione della promessa di
denaro o di altra utilità integra comunque un
compromesso illecito inerente la funzione pubblica). Il
dato legislativo suggerisce altresì come l’accordo
corruttivo possa scorrere avanti e indietro nel tempo,
collocandosi ora precedentemente all’esecuzione
dell’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio
(corruzione impropria e propria antecedente), ora
successivamente al compimento di quell’atto (corruzione
impropria e propria susseguente). Orbene, nella
corruzione antecedente, sia ordinaria, che in atti
giudiziari, il compimento dell’atto esecutivo della
stessa è estraneo alla fattispecie criminosa e non va ad
incidere sul tempo della consumazione (eventualmente
rileva in sede di verifica dell’elemento soggettivo che
anima i protagonisti della vicenda).
(...)
4. La corruzione in atti
giudiziari susseguente.
Ebbene, se questi sono i criteri
generali che orientano l’individuazione del tempus
commissi delicti nelle ipotesi di corruzione in atti
giudiziari antecedente, ben più complessa è la questione
riguardante la corruzione susseguente. In particolare,
in merito alla collocazione temporale “successiva” del
pactum sceleris, buona parte di dottrina e
giurisprudenza ne ha di recente escluso la
conciliabilità con la fattispecie ex art. 319-ter c.p.
Ciò ha prodotto conseguenze non trascurabili, se si
pensa che l’esclusione della sussistenza della
corruzione in atti giudiziari determina la reviviscenza
delle forme ordinarie di corruzione, con sanzioni più
tenui e termini di prescrizione differenti. In
particolare, come evidenziato da autorevoli opinioni, il
nocciolo della critica consta nell’inconciliabilità tra
i fatti corruttivi commessi allo scopo di mutare in
peius o in melius la posizione di una parte processuale
e la mera retribuzione o promessa di retribuzione di
atti funzionali già compiuti: il tutto in assenza di un
preventivo accordo idoneo a compromettere la terzietà ed
imparzialità della funzione giudiziaria. La
giurisprudenza, dapprima di merito poi di legittimità,
ha rafforzato tale critica precisando che la corruzione
in atti giudiziari, caratterizzata dalla proiezione
finalistica verso l’obiettivo futuro (“per favorire o
danneggiare una parte…”), non è compatibile con la
tensione verso il passato e con l’interesse già
soddisfatto, che caratterizzano il modello della
corruzione susseguente. Ivi infatti, la retribuzione o
promessa di retribuzione riguardano un atto funzionale
(dell’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio)
pregresso, mentre dalla fattispecie ex art. 319-ter c.p.
emerge chiaramente come la dazione dell’utilità o
l’accettazione della relativa promessa rilevino solo
riguardo ad un atto ancora da adottare o alla cui
adozione il pubblico ufficiale s’impegna. Contro tali
argomentazioni si è scagliata tuttavia l’opinione
favorevole all’interpretazione letterale dell’art.
319ter c.p.: la norma in questione richiama infatti,
espressamente, entrambe le fattispecie corruttive ex
artt. 318 e 319 c.p., sia in forma antecedente che in
quella susseguente, non prevedendo limitazioni in tal
senso. Ne deriva che il legislatore ha già risolto
positivamente i problemi di compatibilità tra corruzione
in atti giudiziari e schema susseguente, senza che
residuino dubbi di configurabilità di tale tipologia
delittuosa. Peraltro, nella fattispecie di corruzione in
atti giudiziari susseguente si ha una causalità
invertita rispetto alla corruzione in atti giudiziari
antecedente, nel senso che l’atto conforme o contrario
ai doveri d’ufficio costituisce presupposto strutturale
indispensabile della condotta, la quale assume rilievo
penale solo in forza del contributo causale dell’atto
stesso. All’argomento letterale, dottrina e
giurisprudenza favorevoli all’inconciliabilità, hanno
obiettato che il richiamo apparentemente indiscriminato
dell’art. 319-ter c.p. a tutte le ipotesi di corruzione,
è in realtà circoscritto alla sola corruzione
antecedente. Ciò poiché l’espressione “per favorire o
danneggiare una parte in un processo civile, penale
amministrativo” non anche seguita dall’espressione “per
aver favorito o danneggiato (...)” suggerisce
espressamente che nell’ambito di tipicità dell’art.
319-ter c.p. non rientra la retribuzione o la promessa
di retribuzione di atti funzionali già compiuti (la
suddetta tecnica di redazione normativa è utilizzata
anche dall’art. 319 c.p. che, relativamente alla
corruzione propria, richiama tanto l’atto già compiuto
che quello ancora da compiere - cfr. “per omettere o
ritardare (…) o per aver omesso o ritardato (…) per
compiere o per aver compiuto”). Dunque, se non si vuole
violare il principio di tassatività, si dovrà concludere
per l’inconciliabilità della corruzione in atti
giudiziari con lo schema susseguente. A ritenere il
contrario si rischierebbe di forzare in malam partem il
dato normativo, creando una fattispecie delittuosa di
per sé non prevista e più grave di quella configurabile
in concreto (corruzione semplice ex artt. 318 co. 2 o
319 c.p.). Compatibilmente con le considerazioni svolte,
la Suprema Corte di Cassazione nel 2006, è arrivata a
circoscrivere l’ambito applicativo della corruzione in
atti giudiziari alle sole ipotesi antecedenti propria ed
impropria, precisando come il solo patto corruttivo
anteriore all’atto sia idoneo ad incidere
sull’imparzialità e la trasparenza della funzione
giudicante e ad integrare il disvalore del reato ex art.
319-ter c.p. Il modello susseguente è al contrario,
assolutamente incapace di influenzare un’attività
giudiziaria già esercitata ed esaurita. Tuttavia, per la
gravità del loro comportamento, i protagonisti della
vicenda corruttiva saranno comunque suscettibili di
punizione nelle forme ordinarie (art. 318, 319 c.p.).
Di recente, l’orientamento
giurisprudenziale prevalente tende però a sposare la
tesi della compatibilità tra le figure. Sostiene infatti
che: 1) se il legislatore avesse voluto lasciar fuori la
corruzione in atti giudiziari susseguente l’avrebbe
fatto senza mezzi termini, escludendo in modo espresso
la fattispecie susseguente dall’ambito operatività
dell’art. 319-ter c.p.;
2) ai fini della configurabilità
del delitto di corruzione in atti giudiziari ciò che
rileva è la natura dell’atto compiuto, nel senso che lo
stesso deve essere funzionale ad un procedimento
giudiziario e porsi quale mezzo diretto ad vantaggiare o
danneggiare una delle parti in un processo civile,
penale o amministrativo. Ebbene ciò può valere tanto per
un atto che il giudice andrà a compiere, tanto
eventualmente per un atto già compiuto, come previsto
dall’art. 319-ter c.p., che non crea distinzioni sul
punto. Non è dunque rilevante che la retribuzione o la
relativa promessa giunga ad attività funzionale
esaurita, poiché ciò che conta è la non genuinità
dell’atto e l’avvenuta compromissione della funzione
giudiziaria (in passato la Corte di Cassazione aveva
ritenuto che il delitto di corruzione in atti giudiziari
si configurasse anche in caso di ripetuta dazione di
utilità economiche al giudice delegato ai fallimenti da
parte di singoli professionisti privati, in vista di
vantaggi patrimoniali rappresentati dal conferimento di
incarichi da curatore nelle successive procedure. Ciò
anche ove la dazione risultasse successiva al compimento
degli atti del giudice fallimentare). Orbene, per quanto
riguarda il tempus commissi delicti v’è da dire che in
tema di corruzione in atti giudiziari susseguente
valgono le stesse conclusioni esposte per la corruzione
antecedente. Il reato, infatti, si colloca temporalmente
in corrispondenza del perfezionamento dell’accordo
corruttivo. L’unica differenza è che nella fattispecie
susseguente la dazione-ricezione del compenso ovvero
l’accettazione della promessa avanzano nel tempo e
s’inseriscono a seguito dell’esercizio della funzione
giudiziaria. Con effetti rilevanti quanto a
prescrizione, successione di leggi nel tempo ed altri
profili di rilevanza del tempus commissi delicti. |