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La legislazione statutaria dei
Comuni e, conseguentemente la loro autonomia normativa,
rappresentò un fenomeno di proporzioni vastissime e
raffigurò la più celebre forma di codificazione dello
“ius proprium” .
Ogni Comune fu il risultato
dell'evoluzione vissuta dalle singole collettività nei
secoli anteriori e presentò caratteri di originalità: il
Comune si poneva come ente autonomo, titolare di potere
normativo e lo statuto fu definito come il diritto
proprio di ciascun popolo.
In quanto elemento del sistema
delle fonti del diritto comune, lo statuto non fu messo
in discussione se non contestualmente con quest'ultimo,
tantoché continuò a trovare applicazione nella prassi
negoziale e contrattuale e fu oggetto di riforme ed
adattamenti ancora in pieno Settecento.
In seguito alla loro completa
abrogazione, attuata con l'introduzione dei codici
napoleonici, gli statuti riacquistarono efficacia,
almeno per brevi periodi, in alcuni stati italiani della
restaurazione, in particolare Regno di Sardegna e Stato
Pontificio.
La potestà statutaria scompare
dall'ordinamento giuridico italiano con il sorgere delle
grandi monarchie nazionali, caratterizzate da un forte
accentramento del potere negli organi centrali di
governo: l’assolutizzazione della forma politica dello
stato moderno, con la correlata concezione di un potere
unico, rendeva inconcepibile una sia pur limitata
autonomia, reputata capace di intaccare la sovranità
statale e di creare conflitti all'interno del processo
di unificazione delle strutture centrali.
Con l'avvento del regime fascista
si accentuano e si rafforzano le tendenze autoritarie
già latenti nell'ordinamento precedente pur senza
configurare una riforma propriamente fascista degli
ordinamenti locali.
Sintomatica la riforma podestarile
con la quale si colpisce il concetto di autonomia
locale, rivolgendosi contro il principio di democrazia
comunale, e soprattutto l'idea di autodeterminazione da
parte della comunità locale. La Carta costituzionale del
1948 determinerà la ripresa del lento cammino verso
l'autonomia locale, percorso che, però, vedrà la sua
definitiva consacrazione solo nel 1990, con la legge
n.142, la quale disciplinerà l'autonomia di comuni e
province alla quale seguirà un decennio prolifico di
riforme che culminerà con l'adozione del D.lgs.
267/2000.
Con riforma del Titolo V della
Costituzione, ad opera della Legge costituzionale n.
3/2001, per la prima volta, viene riconosciuta
espressamente agli enti locali un'autonomia statutaria:
l'art.114, infatti, la codifica esplicitamente,
assoggettandola solo ai principi fissati dalla
Costituzione: affermazione potenzialmente
rivoluzionaria. Va, comunque, osservato che anche nel
novellato testo costituzionale spetta al legislatore
statale disciplinare le funzioni fondamentali, gli
organi di governo ed i sistemi elettorali degli enti
locali, mentre la competenza legislativa regionale è
destinata a coprire molte materie di interesse locale.
Lo statuto dell'ente locale, quindi, pur soggetto ai
soli principi costituzionali, dovrà comunque coordinarsi
con la legislazione statale, regionale e, non ultima,
comunitaria.
INTRODUZIONE
Statutum si disse nel medioevo la
norma sancita dagli organi costituzionali a ciò preposti
dagli ordinamenti particolari, che riconoscono sopra di
sé l'autorità di un superior; in contrapposizione con la
lex, vocabolo tecnicamente riservato alla manifestazione
normativa emanata nell'ordinamento laico dall'autorità
suprema e universale: l'imperatore.
In quest'ottica lo statutum rivela
due caratteristiche fondamentali: ha un valore
particolare, poiché si esaurisce entro i confini
dell'ordinamento in cui è stato emanato, ed è
subordinato alla lex , rappresentò, inoltre, il simbolo
della libertà comunale: il bisogno di consolidare le
libertà conquistate e di garantirle di fronte
all'autorità imperiale, aveva fatto sentire per tempo
l'opportunità di mettere per iscritto le regole di
governo.
I Comuni, quindi, affrontarono il
delicato problema della conciliazione organica della
propria vita giuridica con quella del più vasto
ordinamento nella cui orbita essa doveva svolgersi;
avevano coscienza di essere elementi di un tutto e di
trovarsi racchiusi, con le proprie norme che si erano
dati liberamente, in un sistema normativo di cui questo
ius proprium, era un elemento.
Nel primo Rinascimento, definito
per antonomasia “l'età delle autonomie”, si ebbe una
incredibile fioritura del diritto statutario: tra gli
elementi costitutivi dello statuto non sono presenti
regole del governo centralizzato, per cui lo zoccolo
duro degli statuti comunali era costituito dalle regole
formatesi con la ripetizione di comportamenti analoghi
nel tempo, dagli ordini dell'autorità centrale oppure
dalle sentenze dei magistrati nonché dalle norme dettate
per l'ordinamento processuale privatistico ed
amministrativo del Comune specifico.
E', quindi, merito degli statuti
l'affermarsi della manifestazione più antica e genuina
dell'autonomia locale, nel senso letterale di produzione
normativa propria.
Gli statuti sono rimasti a lungo in
vigore, perdendo però progressivamente la loro
originaria incisività regolamentare, a misura del
perfezionamento della teoria della Sovranità dello
Stato, e con essa la legislazione centralizzata:
l'assolutizzazione della forma politica dello stato
moderno rendeva inconcepibile una sia pur limitata
autonomia normativa dei Comuni, reputata capace di
intaccare la sovranità statale e di creare conflitti
all'interno del processo di unificazione delle strutture
centrali.
A questa rigida concezione si era
riferito il legislatore italiano del 1865 quando ha dato
vita alle leggi sull'unificazione amministrativa del neo
stato italiano:la necessità di preservare l'unità della
Nazione ed il timore che l'autonomia statutaria potesse
in qualche modo tradursi in autonomia politica,
determina la scomparsa dai testi delle nascenti leggi
comunali e provinciali dello statuto quale fonte
tendenzialmente primaria dell'ordinamento locale.
I testi unici del 1915 e del 1934
rappresentarono, pertanto, la migliore espressione
dell'ideale autoritario e centralista, funzionale alla
sottomissione (ed al conseguente annientamento) degli
enti territoriali.
Nella nascente ideologia fascista,
infatti, solo attraverso un capillare controllo delle
amministrazioni locali si poteva arrivare alla creazione
di uno Stato totalitario. Ciò premesso Mussolini, salito
al potere nel 1922, non introdusse una vera e propria
riforma “fascista” degli ordinamenti locali, ma utilizzò
tutti gli strumenti a disposizione per sottomettere le
velleità di autonomia degli enti locali: furono sciolti
numerosi consigli comunali ed introdotta la figura del
commissario straordinario attraverso il quale il nuovo
regime affermò la sua capacità di controllo delle
istituzioni locali1. La riforma, in realtà, si collocò
in piena continuità con gli indirizzi dell'età liberale,
semmai apportandovi un perfezionamento tecnico2.
Più “fascista” fu l'istituzione del
podestà, intervenuta nel 1926: il nuovo assetto mirava a
colpire il cuore del concetto di “autonomia locale”,
l'idea stessa di democrazia comunale e di
autodeterminazione da parte della comunità locale.
In questo modo venne radicalmente
modificato l'intero impianto dei rapporti tra centro e
periferia così come era andato assestandosi nei primi
sessant'anni di vita unitaria: formalmente il Comune
restava un ente autarchico, dotato di personalità
giuridica, ma nella sostanza il regime podestarile
sanciva l'ingerenza diretta del potere centrale sulle
autonomie locali.
La compressione delle autonomie
locali raggiunse l'apice con la completa statizzazione
dei segretari comunali: un'accentuazione del sistema dei
controlli aggravò il processo in atto. I Comuni e le
Province così furono sempre più schiacciati nella loro
funzione di articolazione esecutiva di politiche
economiche decise al centro.
L'impianto centralistico e
verticistico, conseguenze del regime dittatoriale di
gestione amministrativa e politica, spogliò
definitivamente gli statuti della posizione di
indipendenza che nel corso dei secoli si erano
ritagliati nei confronti dei governi centrali.
Il passaggio dalla Stato
dittatoriale alla Repubblica democratica rappresenta
l'occasione storica per il superamento del modello
centralistico di potere che aveva caratterizzato lo
Stato italiano all'indomani della sua unificazione.
Il 1948, che nelle intenzioni
dell'assemblea costituente doveva essere l'anno
dell'attuazione dell'ordinamento regionale segnò,
invece, soltanto il punto di partenza di un lungo e
faticoso processo involutivo: oltre all'istituzione
delle Regioni ad autonomia speciale, assai poco
significativi furono, infatti, gli interventi
legislativi in materia di autonomie territoriali: la
Carta costituzionale, all'art. 5, “riconosceva” e
“promuoveva” la loro esistenza, in particolare
riferendosi a Comuni e Province, in quanto comunità
locali preesistenti il costituirsi della Repubblica.
Tale riconoscimento non ebbe, però,
alcun seguito: nell'immediato dopoguerra lo Stato
italiano si trovò ad affrontare più gravi problemi che
misero in secondo piano quelli afferenti la scelta fra
la struttura accentrata e decentrata dello Stato.
La vera e propria svolta si avrà
solo nel 1990 con l'adozione della legge n. 142 che
fisserà i principi generali dell'ordinamento delle
autonomie locali: venne notevolmente ampliato il
carattere autonomistico degli enti locali, attribuendo
ad essi esplicitamente un'autonomia statutaria in
precedenza inesistente.
A partire, dunque, dal 1990 e per
l'intero decennio successivo, si assiste ad un più
coerente disegno di riforma delle autonomie territoriali
e più in generale del sistema amministrativo:
fondamentale l'adozione della Legge n. 59/1997, la c.d.
Legge Bassanini, ricordata come “federalismo
amministrativo a Costituzione invariata”, con la quale
venne introdotto il principio di sussidiarietà, alla
luce della quale la generalità dei compiti andava
collocata al livello di governo territorialmente e
funzionalmente più vicino ai cittadini interessati: il
Comune. Tuttavia, anche la semplice riallocazione delle
funzioni e compiti amministrativi ha trovato seri
ostacoli alla sua attuazione in diverse norme
costituzionali, aggirate in più occasioni grazie ad
interpretazioni evolutive, sostanzialmente accolte dalla
stessa Corte costituzionale.
Gli anni 2000 si aprono con
l'emanazione del D.Lgs. 267/000, il Testo Unico
sull'ordinamento degli Enti locali, il quale codifica la
decennale opera del legislatore di promozione e di
recupero del connotato di politicità ed autonomia degli
enti locali le cui basi erano state gettate dieci anni
prima con le legge n.142.
Il percorso di revisione
costituzionale, a questo punto non più rinviabile, si è
finalmente concretizzato nelle leggi costituzionali n. 1
del 1999 e n. 2 e 3 del 2001 anche se, rispetto al
processo di riforma degli anni precedenti, i testi
costituzionali effettivamente approvati appaiono
comunque modesti e lacunosi: la loro funzione è
prevalentemente quella di stabilizzare le conquiste
raggiunte ed aprire la strada ad ulteriori innovazioni.
Breve storia degli Statuti
comunali, e delle autonomie locali,
a dieci anni dalla riforma
costituzionale
Il principio autonomista, che il
Costituente fissava all'art.5 della Carta
costituzionale, intendeva assicurare alle collettività
territoriali una forte autonomia dallo Stato con
conseguente attribuzione di poteri normativi ed
amministrativi propri.
Traspare la volontà del
Costituente, che aveva vissuto la tragica esperienza
dell'oppressione nazi-fascista e della guerra di
liberazione, di prendere le distanze non solo dal regime
dittatoriale, ma anche dal precedente modello di Stato
liberale, le cui contraddizioni e incertezze avevano
consentito l'instaurazione della dittatura.
La Costituzione ha affermato,
quindi, il principio del pluralismo territoriale, il
riconoscimento cioè di centri di potere, diversi dallo
Stato, dotati di una più o meno ampia autonomia, pur
entro i limiti del mantenimento dell'unità politica e
della indivisibilità della Repubblica che si identifica
come ordinamento complessivo cui si contrappongono le
comunità territoriali quale che sia la formula
organizzativa nella quale si esprimono3.
L'art.5 nella formulazione
originaria del 1948 introduceva il sistema delle
autonomie locali esprimendo un principio rivoluzionario:
non esiste uno Stato centrale basato su un unico centro
di potere, ma nasce una Repubblica capace di cederlo a
livelli diversi ed il più possibile vicini ai cittadini.
La previsione dell'art.5, però, non si spinge fino al
punto di riconoscere nuovamente ai Comuni anche
un'autonomia normativa, la quale avrebbe portato nuova
dignità agli statuti comunali.
La prima, vera, fondamentale svolta
rispetto alla situazione di stallo nella quale si
trovava la concreta attuazione del principio autonomista
si ha nel 1990 con l'adozione della Legge n. 142 che ha
rappresentato il momento dell'inversione di tendenza:
gli enti territoriali italiani vedono il loro
ordinamento interessato da un processo riformatore di
ampia portata, diretto a realizzare una significativa
modernizzazione del sistema amministrativo locale.
A sollecitare da tempo il
cambiamento dell'organizzazione pubblica era intervenuto
il mondo della politica, del lavoro e della produzione,
latore di specifiche richieste: da un lato il bisogno di
snellire la burocrazia dell'azione politica, dall'altro
la crescente insofferenza verso il centralismo
istituzionale dello Stato.
L'autonomia statutaria attribuita
ai Comuni rappresentò il perno ed il cuore della riforma
dell'ordinamento degli enti locali: consentire a ciascun
ente la deliberazione del proprio statuto significò
consacrare il principio secondo cui non è lo Stato che
regola autoritativamente ed uniformemente la vita delle
amministrazioni elettive ma sono queste che, nell'ambito
loro riconosciuto, si dotano di strumenti di autogoverno
adattando la propria struttura organizzativa alle
peculiarità della realtà sociale che sono chiamati ad
interpretare: il legislatore utilizzando il concetto di
“autonomia” allude al riconoscimento, in capo agli enti
locali, di potestà pubbliche nel perseguimento di
finalità ed interessi propri della collettività, secondo
il proprio indirizzo politico-amministrativo, distinto e
relativamente indipendente da quello statale, pertanto
agli enti locali viene riconosciuta la possibilità di
darsi un proprio ordinamento, conformandolo ai caratteri
ed alle esigenze delle proprie comunità4.
La potestà statutaria, quindi, è
stata una vera e propria “restituzione” di autonomia e
autogoverno ai Comuni: lo statuto diventa la carta
fondamentale della comunità locale, attraverso tale
strumento si introduce nell'ordinamento la possibilità,
unica per la comunità di passare gradualmente da una
forma di democrazia rappresentativa ad una forma di
democrazia partecipata. E' evidente, così, che proprio
attraverso lo strumento statutario è possibile
realizzare in concreto quell'autonomia degli enti locali
solennemente proclamata dalla Costituzione, ma rimasta
per lo più a livello di enunciazione di principio.
Nella realtà, purtroppo, non sembra
che gli enti locali abbiano saputo cogliere a pieno
questa leva di autonomia e gli statuti non danno, in
generale, l'impressione di essere frutto di una grande
scelta di autogoverno.
Nell'anno 2000, nel pieno fermento
dell'attività di semplificazione amministrativa viene
adottato, il D.Lgs. n. 267, il testo unico degli enti
locali (TUEL): l'obiettivo era la riorganizzazione e la
razionalizzazione in un unico codice dell'ingente
attività di riforma intervenuta nel decennio precedente.
Il TUEL, che si pone come legge
organica di sistema, riproduce le disposizioni previste
dalla Legge n.265/1999 la quale, oltre ad ampliare il
contenuto necessario dello statuto, ha disposto che la
legislazione in materia di ordinamenti dei Comuni e di
disciplina delle funzioni ad essi conferite enunci
espressamente i principi che costituiscono limite
inderogabile per l'autonomia normativa dei Comuni.
Le Sezioni Unite Civili della Corte
di Cassazione5, in una sentenza fondamentale dell’anno
2005, evidenziano la portata innovativa del Testo Unico,
il quale pone come unici limiti all'autonomia statutaria
i soli principi espressamente enunciati come
inderogabili nella legislazione in materia di
ordinamento degli enti locali.
In questo modo viene affidato allo
stesso legislatore, sottraendolo all'interprete, il
compito di individuare i principi segnati da
inderogabilità. Ciò, evidentemente, a tutto vantaggio
dell'autonomia degli enti locali, che vedono così
ampliato il proprio ambito di intervento normativo, con
la possibilità di modulare la propria organizzazione e
le proprie funzioni in base alle peculiarità del
contesto sociale ed economico di riferimento.
Le S.U. affermano, infatti, che le
innovazioni introdotte dalla legge delega n.265/1999 e
dal D.lgs. 267/2000, da un lato, hanno realizzato una
sostanziale delegificazione in ordine all'organizzazione
ed al funzionamento dell'ente territoriale, mediante il
trasferimento della relativa disciplina dalla legge
nazionale allo statuto e, dall'altro, hanno
profondamente inciso nei rapporti tra fonti normative
statali e locali.
In passato, come abbiamo visto, le
disposizioni di legge costituivano limite invalicabile
all'attività statutaria, mentre nella nuova disciplina
lo statuto può derogare alle disposizioni di legge che
non contengano principi individuati espressamente dal
legislatore come inderogabili: il rapporto tra legge e
statuto si configura ora in termini di gerarchia
limitatamente ai principi, mentre per le restanti
materie si pone in termini di competenza: i principi
messi in luce dalla sentenza delle S.U., riaprono la
stagione degli statuti che potranno essere predisposti
dai Comuni con un'ampiezza di possibilità mai
sperimentate.
Finalmente nel 2001 la legge
costituzionale n. 3 che, modificando il titolo V della
Costituzione, ha ridisegnato completamente il sistema
delle autonomie e dei rapporti tra enti, rivisto i
meccanismi di finanziamento, ricostruito la rete di
relazioni tra privati, enti locali e Stato, definisce
quella riforma che oramai non poteva più essere
rinviata: ampliamento delle competenze amministrative ed
autonomia finanziaria di regioni ed enti locali,
elevazione a fonte costituzionale dello statuto di
Comuni, Province e Città metropolitane, potestà
legislativa più ampia alle Regioni, eliminazione dei
controlli esterni su atti legislativi ed amministrativi
sono alcuni degli aspetti fondamentali della riforma.
Il quadro, quindi, è profondamente
cambiato sotto il profilo costituzionale e diverso è
anche il concetto di autonomia: gli statuti prima della
riforma costituzionale del 2001, infatti, non avevano
assunto una collocazione nella gerarchia delle fonti
diversa da quella propria delle fonti secondarie, anche
se atipiche.
L'elaborazione dei nuovi statuti
costituisce, quindi, una vera e propria sfida per gli
amministratori locali chiamati ad interpretare le
vocazioni del territorio e ad organizzare l'ente in
forma moderna e partecipata: lo statuto è espressione di
un'identità territoriale6.
Il nuovo art. 114 della
Costituzione, infatti, pone i Comuni sullo stesso piano
di Stato e Regioni e li definisce enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi
fissati dalla Costituzione: nella nuova definizione
dell'articolo le leggi dello Stato non sono più
“napoleoniche” ma devono riconoscere e favorire le
autonomie locali ed il principio autonomista.
Con l'abrogazione, inoltre,
dell'art. 128 la competenza esclusiva della legislazione
statale rimane circoscritta alla materia della
legislazione elettorale, degli organi di governo e delle
funzioni principali: il fondamento delle funzioni degli
enti locali non trova più le sue radici nello Stato, ma
direttamente nella Costituzione stessa.
La riforma costituzionale ha, in
sostanza delineato un sistema istituzionale costituito
da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma
autonomi, nel quale le esigenze unitarie si coordinano
con il riconoscimento e la valorizzazione delle
istituzioni locali.
Successivamente la L. n.131 del
2003, operando una ricognizione delle modifiche
legislative intervenute precedentemente, ha enunciato
esplicitamente che i Comuni hanno potestà normativa,
attraverso l'adozione di statuti e regolamenti, secondo
i principi fissati dalla Costituzione.
La potestà statutaria,
naturalmente, non può esplicarsi senza limiti o vincoli,
già l'art.114 infatti la sottopone all'ovvio limite dei
principi fissati dalla Costituzione, mentre la legge La
Loggia, (L. n.131/2003), rincara la dose: dopo aver
specificato che la potestà normativa degli enti locali
consiste nella potestà statutaria e regolamentare,
prevede che lo statuto, in armonia con la Costituzione e
con i principi generali in materia di organizzazione
pubblica, stabilisce i principi di organizzazione e
funzionamento dell'ente.
Lo strumento statutario pur essendo
una fonte normativa subprimaria, presenta alcuni aspetti
di atipicità in quanto, in seno all'ordinamento
generale, ricopre una posizione particolare.
Lo statuto deve limitarsi ad
individuare le proprie regulae iuris entro i limiti di
una cornice ideale che è contrassegnata dalle leggi
dello Stato, intendendosi con tale termine sia le leggi
costituzionali che quelle ordinarie, come anche i
decreti legge, i decreti legislativi, le leggi regionali
ed i regolamenti emanati in forza di delegificazione, i
quali ultimi sono equiparati, quanto a forza, alle leggi
ordinarie; vanno rispettate, naturalmente, anche le
norme di rango comunitario che, impegnando lo Stato,
impegnano automaticamente tutte le sue articolazioni.
In linea di massima, inoltre,
nessun ostacolo si frappone ad una disposizione
statutaria praeter legem, non potendo lo statuto essere
considerato come un regolamento di esecuzione ma avendo
una sua natura tutta atipica e particolare, collegata
con l'esplicazione dell'autonomia degli enti locali.
Il rapporto tra la fonte statutaria
e la legge è quindi, un rapporto di competenza e non di
gerarchia, come emerge dal fatto che la legge ordinaria
non ha più valenza generale, ma riguarda soltanto
specifiche materie (c.d. competenza esclusiva dello
Stato).
Secondo il principio della
competenza, le norme degli statuti sono subordinate alle
norme di principio inerenti la materia, ma non alle
altre fonti primarie dello Stato e delle Regioni e non
sono vincolate alle norme regolamentari dello Stato.
Sono, invece, sopraordinate alle fonti secondarie
locali.
Nel nuovo quadro normativo, dunque,
lo statuto si configura come atto formalmente
amministrativo ma, sostanzialmente, normativo atipico,
con caratteristiche specifiche, di rango paraprimario,
posto in posizione di primazia rispetto alle fonti
secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di
principio, in quanto diretto a fissare le norme
fondamentali dell'organizzazione dell'ente e porre i
criteri generali per il suo funzionamento, da
svilupparsi in sede regolamentare: ora è possibile,
almeno in teoria, che ciascun ente locale, si
autodetermini normativamente, indicando in quella summa
normativa, che è appunto lo statuto, le regolae iuris
fondamentali del proprio ordinamento, rilevando
caratteristiche, peculiarità, tendenze, finalità e
quanto altro si ritiene essenziale alla propria
collettività, come estratto dalle esigenze e dalle
temperie sociale della comunità7.
Nella realtà, purtroppo, gli enti
locali non sembra abbiano saputo sfruttare a pieno
questa leva e gli statuti non danno l'impressione di una
grande scelta autonomistica: gli amministratori locali,
infatti, non sempre hanno avuto, nella fase
“ricostituente” per i Comuni, il coraggio per fissare in
modo effettivo il passaggio da una concezione gerarchico
– piramidale dello Stato ad una di sussidiarietà; non
sempre si è avuta la presenza di uno spirito costituente
fortemente unitario che avrebbe consentito di affermare
pienamente un quadro condiviso all'interno del quale i
Comuni avrebbero concretamente affermato la loro
autonomia.
Lo statuto rappresenta, in
definitiva, uno strumento di grande opportunità che se
effettivamente utilizzato potrebbe finalmente definire e
completare il lungo e complesso processo di riforma.
A prescindere, comunque, dalle
connotazioni critiche sulla scarsa impressione di
vitalità degli statuti, dovuta anche ad una più che
centenaria abitudine, da parte degli enti locali, a
cercare i propri riferimenti presso il potere centrale,
è indubbio che l'autonomia statutaria rappresenta, da un
punto di vista dei meccanismi ordinamentali, un sicuro
passo in avanti nella conferma della rinata autonomia
degli enti locali8.
I contenuti degli statuti degli
enti locali, inoltre, non sono senza limiti: devono
operare entro i limiti fissati dalle leggi, in primis
quelle costituzionali, possono dettare solo le regole
generali dell'ordinamento locale, senza scendere in una
normativa di dettaglio, per la quale esistono i
regolamenti, conseguentemente lo statuto non può recare
disposizioni che, o per il loro oggetto o per la loro
eccessiva minuziosità, ne trascendono la funzione
fondamentale.
Si distingue, inoltre tra, un
contenuto obbligatorio ed un contenuto facoltativo dello
statuto.
Quello obbligatorio deriva da
precise disposizioni di legge che fanno riferimento alla
necessità che lo statuto disponga nella materia e
riguardano l'organizzazione dell'ente, le forme di
garanzia e di partecipazione delle minoranze, le
attribuzioni degli organi, l'ordinamento degli uffici,
la gestione dei servizi pubblici locali, la
collaborazione fra gli enti locali, gli istituti di
partecipazione, l'accesso dei cittadini agli atti
dell'ente, il decentramento.
Il contenuto facoltativo è
ovviamente collegato, con i limiti ricordati, a precise
indicazioni scaturenti dall'interno dell'ente e
destinate ad essere tradotte in norme al fine di
evidenziare particolarità, tendenze e operatività che un
singolo ente ritiene solennizzare in forma normativa.
Nella realtà, peraltro, tale
contenuto facoltativo si è dimostrato molto limitato,
essendo sempre o quasi le peculiarità ricomprese nelle
materie prima indicate, e si è risolto soprattutto in
affermazioni di principi generali ovvero in descrizioni
di singoli fatti che nulla aggiungono alla normazione
effettivamente operativa della fonte statutaria.
La caratteristica più importante,
in definitiva, dello statuto è quella di essere un atto
normativo. Tale qualificazione prescinde dal momento
genetico, nel quale si presenta come il risultato di una
contrattazione politica, e pone invece in luce lo
statuto sotto l'angolo visuale della sua natura
giuridica. Lo statuto non è un negozio giuridico oppure
un atto amministrativo: la sua natura normativa si
deduce sia dal riconoscimento costituzionale e del testo
unico, sia dalla considerazione che esso può avere
efficacia anche nei confronti di coloro che non li hanno
deliberati, né sono componenti dell'ente che lo ha
adottato, ma soggetti che vengono a trovarsi a contatto
con la sfera giuridica dell'ente stesso; lo statuto,
quindi, non è una disposizione interna.
Quanto sopra detto appare
confermato dall'altra caratteristica sostanziale degli
statuti comunali che è quella di rappresentare un quid
nuovo e diverso, rispetto alle regole dell'ordinamento
generale: disciplina l'organizzazione dell'ente con un
contenuto originale rispetto a quello stabilito dalle
regole di diritto comune pubblico (o anche privato) per
gli enti dello stesso genere9.
A distanza di dieci anni dalla
riforma costituzionale, si può osservare, che in gran
parte dei Comuni italiani ancora non è intervenuta una
riforma organica degli statuti comunali, così come era
invece avvenuto successivamente all’adozione della L.
n.142/1990. In questo modo si è persa l'occasione di
incidere in modo determinante in materia di
funzionamento e di organizzazione interna che, pur
essendo materie di dettaglio sono, comunque,
strettamente collegato al territorio che ha, oramai, con
i Comuni un rapporto analogo a quello dello Stato con il
proprio.
1 G. Melis, Storia
dell'Amministrazione italiana (1861 – 1993), Bologna,
1996, pp. 345 ss.
2 E. Rotelli, Le trasformazioni
dell'ordinamento comunale e provinciale durante il
regime fascista, Milano, 1978, pp. 177 ss.
3 F. Pizzetti, Il sistema
costituzionale delle autonomie locali, Milano 1979,
p.290.
4 A. Ghiribelli, La potestà
statutaria e regolamentare dei Comuni, in “Nuova
Rassegna”, Firenze, 2006.
5 Cass., S.U. Civ., sent. n. 12868
del 16 giugno 2005.
6 Atti del convegno: “La sfida dei
nuovi statuti per Comuni e Province”, AGES, 2005 - Fonte
FORMEZ.
7 E. Mele, Manuale di diritto degli
enti locali, Milano, 2010, p. 39
8 E. Mele, Ibidem
9 M. Esposito, Ibidem |