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La questione giuridica in esame
attiene alla configurabilità del concorso esterno in
associazione mafiosa a carico dell’avvocato penalista
Tizio, il quale rende edotti i propri assistiti,
appartenenti ad un clan mafioso, dell’eventualità di
imminenti procedimenti giudiziari nei loro confronti;
valutate tali informazioni, i clienti decidono di darsi
alla fuga e, pertanto, si sottraggono alla misura
cautelare disposta.
La fattispecie della partecipazione
eventuale al reato associativo risulta integrata dalla
combinazione fra l’art. 110 c.p. e le norme di parte
speciale che prevedono ipotesi di reato a partecipazione
plurisoggettiva necessaria, come nel caso di specie
l’art. 416-bis c.p.
La ratio sottesa a tale fattispecie
incriminatrice è quella di rendere punibili condotte
che, pur essendo atipiche rispetto al reato associativo
di parte speciale, si palesano meritevoli di sanzione
per il loro rilevante disvalore sociale; invero, tale
forma di contiguità all’organizzazione criminale è tale
da consentire la sopravvivenza, il consolidamento o il
rafforzamento dell’associazione malavitosa.
Se la configurabilità di un
concorso morale nel reato associativo è pacifica, appare
discussa, invece, l’ammissibilità di un concorso
materiale esterno nell’associazione mafiosa.
I sostenitori della tesi
negazionista affermano che chi contribuisce alla vita
dell’associazione con un’azione tangibile ha posto in
essere tutti i requisiti per annoverarsi tra i
concorrenti necessari e, pertanto, non potrebbe più
dirsi esterno alla stessa. Ne deriva che un contributo
materiale che abbia un certo spessore potrà far
qualificare come associati anche quei soggetti esterni
all’associazione mafiosa, poiché il loro comportamento,
pienamente voluto sul piano psicologico, ha
oggettivamente avvantaggiato il sodalizio. A sostegno di
tale indirizzo si adduce, inoltre, una ritenuta
esaustività della normativa diretta alla
regolamentazione repressiva dei fenomeni di contiguità
mafiosa.
A tale orientamento si è opposta la
tesi favorevole all’ammissibilità del concorso eventuale
nel reato associativo, confermata dalla giurisprudenza
ormai consolidata delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, in particolare con le sentenze n. 22327/2002
e n. 33748/2005.
Quanto all’elemento materiale del
reato, si sostiene che la partecipazione cui ha riguardo
l’art. 416-bis c.p. postula l’esistenza di un intenso
grado di compenetrazione tra il soggetto e la struttura
criminale tale che il primo possa reputarsi “parte”
della seconda; viceversa, il concorrente eventuale,
lungi dal porre in essere la condotta tipica descritta
dall’art. 416-bis c.p., quella cioè consistente nel far
parte, in qualità di membro stabile del sodalizio, si
limita a contribuire dall’esterno al mantenimento o al
rafforzamento dell’organizzazione.
Sul versante soggettivo, inoltre,
il concorrente esterno è sprovvisto dell’affectio
societatis, diversamente dal partecipe che vuole far
parte dell’associazione, e fornisce un contributo dotato
di effettiva rilevanza causale ai fini della
conservazione o del consolidamento dell’associazione,
che “sa” e “vuole” sia diretto alla realizzazione, anche
parziale, del programma criminoso del sodalizio.
Applicando le argomentazioni di
quest’ultimo orientamento al caso di specie, occorre
valutare la rilevanza penale della condotta tenuta
dall’avvocato penalista Tizio in favore dei propri
assistiti, appartenenti ad una cosca mafiosa.
Dall’analisi delle evidenze
fattuali, emerge che Tizio ha esercitato il proprio
mandato difensivo senza travalicare i limiti impostigli
dalla deontologia professionale e, quindi, la sua
condotta non può configurarsi come contributo penalmente
rilevante ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p.,
poichè trattasi di attività rientrante nell’ambito del
diritto alla difesa tutelato dall’art. 24, co. II, Cost.
Invero, nel bilanciamento tra il
dovere di difesa e quello di obbedienza all’ordinamento
giuridico prevale il primo, dal momento che il rapporto
fiduciario postula la polarizzazione esclusiva
dell’attività del difensore sull’interesse
dell’assistito. A tal proposito, occorre sottolineare,
però, che l’acquisizione di informazioni sull’attività
di indagine che potrebbe interessare il cliente di un
difensore deve essere svolta nel rispetto dei limiti di
liceità delineati dall’art. 329 c.p.p. Dovranno, quindi,
essere ritenute favoreggiatrici o integranti il concorso
esterno in associazione mafiosa quelle condotte
asseritamente difensive che, per le modalità o il
momento di attuazione, debbano considerarsi non
giustificate dal diritto di difesa. Infatti, in queste
ipotesi il ruolo del difensore si snatura e si verifica
una “solidarietà anomala” con l’indagato o imputato.
Pertanto, la successiva
divulgazione ai clienti delle informazioni apprese senza
violare le regole sulla segretezza degli atti di
indagine, come è avvenuto nel caso di specie, non
integrerebbe la fattispecie incriminatrice ex artt. 110
e 416-bis c.p.
Tale conclusione interpretativa
risulta avvalorata anche dall’insussistenza sia
dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo
previsti dal concorso esterno in associazione mafiosa.
Sotto il primo profilo, l’attività
di assistenza professionale prestata non integra affatto
un “contributo” al sodalizio, essendo la stessa
piuttosto consistita in un ausilio soltanto per alcuni
soggetti appartenenti alla cosca mafiosa, nè vi sono
elementi per ritenere che, nel particolare momento in
cui è intervenuta la divulgazione delle informazioni
riservate da parte di Tizio, la condotta di quest’ultimo
assumeva particolare rilevanza ai fini della vita
dell’associazione malavitosa.
Non ricorre poi in capo a Tizio la
consapevolezza e volontà di coadiuvare con il proprio
intervento l’intera associazione: egli, infatti, pur
essendo consapevole del ruolo rivestito dai propri
clienti, ha orientato la sua azione al fine esclusivo di
espletare il proprio mandato difensivo.
E’ significativo, peraltro, che le
Sezioni Unite richiedano per l’integrazione della
fattispecie del concorso esterno il dolo diretto,
reputando insufficiente il mero dolo eventuale,
configurabile allorchè il soggetto, pur rappresentadosi
la possibilità che il suo contributo possa sortire
l’effetto di aiutare l’intera associazione, agisca
ugualmente, accettando il rischio che tale risultato,
ancorchè non voluto, effettivamente si realizzi.
Alla luce delle argomentazioni
suesposte, nel caso di specie l’attività di consulenza
prestata da Tizio sembra rientrare nei limiti di un
corretto svolgimento del proprio mandato difensivo e,
pertanto, non è penalmente rilevante. |