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- Non manifesta infondatezza della
questione
L’art. 13 del decreto in esame,
nell’introdurre un nuovo comma all’art. 91, c.p.c.,
stabilisce che, nelle cause davanti al giudice di pace
di valore fino a mille euro, per le quali non è
obbligatoria l’assistenza di un legale (in virtù della
modifica dell’art. 82, primo comma, c.p.c., operata
dallo stesso decreto in esame, che ha elevato a mille
euro il limite per l’autodifesa), il giudice non può
condannare la parte soccombente alla refusione delle
spese, diritti ed onorari di lite in favore del
vincitore per una somma superiore al valore della
domanda.
La conseguenza pratica del predetto
limite è che ben può verificarsi l’ipotesi in cui, a
causa dell’esiguità del valore della domanda, il giudice
condanni il soccombente alla refusione delle spese
legali sostenute dalla parte vincitrice per un importo
insufficiente a risarcire completamente dette spese,
sicché la parte vincitrice, da un lato, non potrebbe
dolersi, in sede di impugnazione, dell’incongruità della
somma liquidata dal giudice a titolo di refusione delle
spese legali, avendo il magistrato operato in
applicazione di una norma di legge e, dall’altro,
dovrebbe corrispondere direttamente al proprio avvocato
la residua parte delle competenze legali, in forza
dell’art. 2, Capitolo 1, del decreto del Ministro della
giustizia n. 127/2004 (tariffario forense), a mente del
quale “Gli onorari e i diritti sono sempre dovuti
all'avvocato dal cliente indipendentemente dalle
statuizioni del giudice sulle spese giudiziali”.
La motivazione posta a base del
provvedimento di urgenza, desumibile dalla relazione
illustrativa, è che, nelle cause in cui la parte può
ricorrere all’autodifesa ai sensi dell’art. 82 c.p.c.,
sarebbe giusto, per l’ipotesi normale in cui il giudice
decida di applicare il principio della soccombenza,
porre un limite all’importo della condanna del
soccombente alla refusione delle spese legali sostenute
dal vincitore, in quanto quest’ultimo si sarebbe potuto
difendere da solo, evitando così tali spese.
Ebbene, la norma dà evidentemente
luogo ad una ingiustificata compressione e
mortificazione del diritto di difesa, violando così il
combinato disposto degli artt. 3 e 24, secondo comma,
Cost., essendo dichiaratamente finalizzata a sanzionare
la parte vincitrice, tramite il meccanismo della
compensazione delle spese di lite, ancorché operante in
modo indiretto, parziale ed eventuale, per il sol fatto
che essa abbia preferito, nella cause innanzi al giudice
di pace di valore fino a € 1.000,00, la difesa tecnica
all’autodifesa.
La norma qui censurata, in
sostanza, imputa alla parte vincitrice una colpa per il
sol fatto di aver nominato un avvocato e, quindi, di non
essere stata in grado di difendersi da sola.
La nomina di un difensore,
tuttavia, non è un mero capriccio, come pare intendere
il Governo nella motivazione ufficiale contenuta nella
relazione illustrativa, ma è l’espressione di un diritto
inviolabile finalizzato ad ottenere, tramite
l’intervento del professionista, una migliore difesa e,
quindi, maggiori probabilità di vittoria.
In altri termini, l’art. 82, primo
comma, c.p.c., pur concedendo alla parte la facoltà di
stare in giudizio di persona, le lascia comunque la
possibilità di nominare un avvocato, proprio al fine di
garantirle una miglior difesa, difesa a cui solo la
parte può rinunciare, e che nessuna legge può
sopprimere, stante l’inviolabilità del diritto alla
difesa tecnica anche nei casi in cui tale diritto è
rinunciabile, non sussistendo alcuna incompatibilità tra
rinunziabilità ed inviolabilità di un diritto, come è
confermato proprio dal fatto che, nelle predette cause,
la legge non elide il diritto di difesa.
In subordine, qualora si ritenesse,
in via meramente ipotetica, che, nelle cause innanzi al
giudice di pace di valore fino a mille euro, in astratto
non sia di per sé incostituzionale sanzionare la parte
vincitrice che opti per la nomina di un difensore, la
norma lederebbe comunque il diritto di difesa di cui
all’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto, prevedendo
sempre e comunque il rigido limite della liquidabilità
delle spese legali entro il valore della domanda, senza
alcuna possibilità di deroga, mostra di non aver operato
alcun contemperamento degli opposti interessi in campo,
non potendosi sanzionare allo stesso modo chi abbia
deciso di nominare un avvocato, pur non essendovi alcuna
necessità oggettiva o soggettiva di farlo, e chi sia
ricorso alla nomina di un legale per giuste ragioni (ad
esempio per la particolare difficoltà della causa, o per
la totale ignoranza delle materie giuridiche).
Si precisa, comunque, al fine di
evitare fraintendimenti, che queste ultime
considerazioni presuppongono l’adesione alla tesi
(assurda) secondo la quale il diritto di difesa, nelle
cause davanti al giudice di pace di valore inferiore a
1.000,00 euro, sorga solo se via siano buone ragioni per
farsi assistere da un legale, il che però
significherebbe negare la stessa natura costituzionale
ed inviolabile del diritto di difesa, il quale deve
sussistere sempre e comunque, a prescindere dal motivo
che ha indotto la parte a scegliere la difesa tecnica.
La norma introdotta dal
decreto-legge in discorso è illegittima anche per
contrasto con il principio di effettività della tutela
giurisdizionale, preservato dall’art. 24, primo comma,
della Costituzione.
Essa, infatti, limitando le spese
legali liquidabili in favore della parte vincitrice,
nelle cause davanti al giudice di pace per le quali non
è previsto l’obbligo di assistenza di un legale, ad un
importo non superiore al valore della domanda,
costituisce un possibile ostacolo alla soddisfazione del
diritto alla tutela giurisdizionale soprattutto in
quelle cause nelle quali la parte scelga di farsi
difendere da un avvocato ed il valore della domanda sia
talmente esiguo che il residuo importo delle spese
legali che la parte vincitrice dovrebbe corrispondere al
proprio avvocato per effetto del predetto limite,
sarebbe sicuramente maggiore del valore del diritto
sostanziale giudizialmente accertato, da cui
deriverebbe, paradossalmente, una sostanziale sconfitta
per il soggetto vincitore.
Questa situazione è gravemente
lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale,
costituzionalmente garantito, il quale “si estende anche
alle spese che devono essere sostenute per agire in
giudizio” (vedi sentenza Corte cost. n. 223/2001).
La disposizione qui censurata,
infatti, si applica indistintamente a tutte le cause di
valore fino a € 1.000,00, senza distinguere tra quelle
nelle quali il tetto alla liquidazione giudiziale delle
spese legali a carico del soccombente, ed il conseguente
onere del vincitore di corrispondere l’eventuale residua
parte delle spese legali al proprio avvocato, comporti
solo un affievolimento - e perciò costituzionalmente
irrilevante - del diritto accertato dalla sentenza in
favore della parte vincitrice, e quelle nelle quali il
predetto limite determini il sacrificio totale del
diritto consacrato dalla sentenza, pregiudicando così,
questa volta in maniera rilevante sul piano
costituzionale, il diritto alla tutela giurisdizionale
di cui all’art. 24, primo comma, Cost.
Se ad esempio Tizio agisce in
giudizio per ottenere la condanna di Caio al pagamento
di € 1.000,00, e preferisce, per qualsiasi ragione,
farsi assistere da un avvocato, potrebbe ottenere
comunque un beneficio dalla vittoria in giudizio, in
quanto, se il giudice accogliesse la sua domanda,
otterrebbe la condanna della controparte, oltre alla
predetta somma, anche ad una somma a titolo di rimborso
spese legali che, pur non potendo superare € 1.000,00,
sarebbe presumibilmente satisfattiva delle spettanze del
suo difensore e, comunque, laddove non lo fosse del
tutto, la corresponsione della residua parte di tali
spettanze troverebbe molto probabilmente ampia capienza
nella sorta capitale riconosciuta in sentenza a Tizio.
In sostanza, nell’esempio appena
fatto, Tizio, nella peggiore delle ipotesi, tariffario
forense alla mano, potrebbe subire dall’applicazione
della norma al vaglio una compressione soltanto parziale
del diritto sostanziale fatto valere in giudizio,
irrilevante sul piano costituzionale.
Ma se Tizio agisce fondatamente
contro Caio per sentirlo condannare ad € 50,00, e
preferisce farsi assistere da un avvocato, c’è la
sicurezza matematica che, in applicazione dell’impugnata
norma, il diritto fatto valere in giudizio patisca una
totale mortificazione per effetto dalla non ripetibilità
pressoché totale delle spese legali nei confronti del
soccombente, in quanto Tizio, nonostante abbia vinto,
dovrebbe sborsare in favore del proprio avvocato -
tariffario forense alla mano - più di quanto otterrebbe
da Caio in virtù dell’esecuzione della sentenza (appena
€ 100 = 50 + 50).
La norma in questione, pertanto,
appare illegittima anche per contrasto con il primo
comma dell’art. 24, Cost., non operando alcun
contemperamento degli interessi in gioco, ma dando
prevalenza assoluta all’esigenza di tutelare la parte
soccombente nelle cause in cui non è necessaria
l’assistenza di un legale, giustificando tale prevalenza
con l’assurda considerazione che detta parte non avrebbe
alcuna colpa se la parte vincitrice preferisca farsi
difendere da un avvocato, senza preoccuparsi minimamente
del fatto che la tutela indiscriminata del menzionato
interesse della parte soccombente può comportare, in
determinati casi, la lesione del diritto della
controparte alla effettività della tutela
giurisdizionale, protetto dall’art. 24, primo comma,
Cost..
Il diritto di agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi,
sancito dal predetto 24, primo comma, infatti, non è da
intendersi soltanto nella sua accezione formale, cioè
quale diritto di agire in giudizio, ma anche nella sua
valenza sostanziale, vale a dire quale diritto di
ottenere una tutela effettiva della situazione giuridica
accertata dalla sentenza: in questo senso la Corte
costituzionale, in numerose sentenze, parla di
“principio di effettività della tutela giurisdizionale”.
Ebbene, la parte che vedesse
accolta la sua domanda non sarebbe effettivamente
tutelata se, per il sol fatto di non essersi difesa da
sola in una causa di esiguo valore, fosse costretta a
versare al proprio legale, quale residua parte delle sue
competenze professionali, un importo uguale o
addirittura maggiore di quanto, in base alla sentenza,
essa potrebbe ottenere dal soccombente.
Anche la Cassazione ritiene,
peraltro, con orientamento costante, che l’esiguo valore
della controversia non può essere un buon motivo per
compensare le spese di lite (Cfr., tra le tante, Cass.
n. 26580/11; 12893/2011; n. 8114/2011), proprio perché,
diversamente opinando, il diritto di tutela
giurisdizionale ed il diritto di difesa subirebbero un
sostanziale ed intollerabile svuotamento di contenuto.
La fattispecie qui in esame, del
resto, è molto simile a quella vagliata dalla Consulta
nella sentenza n. 223/2001, più sopra citata, nella
quale, analogamente, la norma veniva dichiarata
incostituzionale, in quanto, nel prevedere la fondatezza
delle pretese azionate contro un ente pubblico da una
moltitudine di utenti e la conseguente estinzione dei
giudizi in corso, aveva disposto indiscriminatamente la
compensazione delle spese di lite, senza operare alcun
discrimine al fine di bilanciare gli opposti interessi
in gioco.
In essa, infatti, si legge che “Il
legislatore, nell'introdurre fattispecie di estinzione
ex lege di giudizi in corso, può anche eccezionalmente
prevedere la compensazione delle spese legali, in un
quadro di bilanciamento dei contrapposti interessi in
gioco.
Ma tale bilanciamento non è stato
effettuato. La rigidità della regola della compensazione
sacrifica sempre e comunque il diritto della parte, che
abbia fondatamente adito il giudice, di ottenere il
rimborso delle spese processuali”.
Tornando al nostro caso, dunque,
può affermarsi, alla luce di quanto appena osservato,
che, ove la parte decida, per qualsiasi motivo, di
optare per la nomina di un difensore in una causa
innanzi al giudice di pace di valore fino a mille euro,
essa, in caso di vittoria, dovrebbe poter ottenere dal
soccombente il rimborso delle spese legali almeno nella
misura necessaria a preservare in capo ad essa
un’utilità economica, ancorché minima, e ciò vale
soprattutto in quelle ipotesi in cui il limite
quantitativo alla condanna alle spese disposto
dall’impugnata norma non le consenta, a causa del valore
modesto della controversia, di trarre alcun vantaggio
economico dalla vittoria giudiziale, o addirittura le
procuri un nocumento, dovendo essa parte vincitrice
corrispondere al proprio avvocato la residua parte delle
competenze professionali per un importo addirittura
maggiore di quanto abbia complessivamente ricevuto dal
soccombente.
Questo appena fatto è solo un
esempio di come si potrebbe realizzare un equo
contemperamento degli interessi coinvolti dalla norma, e
non si chiede affatto che la Consulta lo approvi, poiché
ciò significherebbe chiederle di introdurre una norma
eccezionale, il che è riservato al legislatore.
Esclusa la praticabilità di un
intervento manipolativo della Corte costituzionale,
dunque, l’unico modo per eliminare il contrasto con la
Costituzione è una pronuncia di accoglimento totale
della questione, che annulli radicalmente la norma.
In conclusione la norma introdotta
dal decreto-legge in esame appare in contrasto con gli
artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione.
- Rilevanza della questione nel
giudizio a quo
L’eventuale giudice che intendesse
rimettere la questione alla Consulta dovrebbe premurarsi
di indicare nell’ordinanza di remissione:
- la data di notifica della
citazione, che dovrebbe essere successiva all’entrata in
vigore della norma, pena l’inammissibilità della
questione;
- che trattasi di controversia di
valore non superiore a mille euro;
- che, essendo la causa giunta alla
precisazione della conclusioni, o essendo stata
riservata a sentenza, il giudice si è convinto della
fondatezza della domanda;
- che il giudice non intende
compensare le spese di lite, ma intende applicare
pienamente il principio della soccombenza, ma che non è
in grado di liquidare tali spese, dipendendo tale
liquidazione dalla legittimità o meno del limite
previsto a tal fine dall’impugnata norma;
- che trattasi di controversia di
valore talmente esiguo che, in base al tariffario
forense, l’applicazione del limite alla liquidazione
delle spese legali a carico del soccombente
implicherebbe il sacrificio totale del diritto accertato
dalla sentenza in favore della parte vincitrice, dovendo
quest’ultima corrispondere al proprio avvocato, quale
residua parte delle competenze legali, una somma
maggiore di quanto otterrebbe complessivamente dal
soccombente in forza dell’esecuzione della sentenza. |