Innanzitutto bisogna screditare
qualche punto saldo, così da operare un’analisi onesta e
più utile del fenomeno: gli utenti di Facebook non sono
ragazzini imberbi, rintanati nelle loro stanzette, ma
sono, per lo più, adulti; questi adulti, edonisticamente
consapevoli, scelgono di rinunciare alla privacy ed
offrono momenti della propria vita, per fare nuove
amicizie o riscoprirne di vecchie, per evadere dalla
martellante ripetitività quotidiana ma, soprattutto, per
vivere 5 minuti di celebrità.
La possibilità di essere
conosciuti, riconosciuti, taggati, condivisi da amici,
amici di amici e sconosciuti di tutto il mondo, soddisfa
l’aspirazione, tutta contemporanea, a sentirsi noti. Non
un semplice surrogato di affetto mancato, né placebo per
la solitudine dell’uomo moderno, ma vero e proprio
desiderio di apparire, di esserci, di dire la propria su
politica, ambiente ed attualità: quasi che l’indecisione
o il non aver, semplicemente, una opinione, sia
pericoloso sintomo di anonimato. E, se sei anonimo, chi
chiederà mai la tua amicizia? Una cugina lontana o il
solito ciccione americano che condivide il tuo cognome!
Data la premessa, parrebbe superfluo parlare di legge
sulla privacy, diritto alla reputazione e tutela
dell’onore; ma siccome credo nell’esistenza di qualche
sparuto amante della riservatezza, timido esemplare di
sanità spirituale votato al riserbo crepuscolare, ecco
alcuni spunti giuridico-virtuali interessanti.
Internet non è un’entità fisica, ma
una estesa rete che connette un numero infinito di altre
reti, non è finanziata da istituzioni o governi, non è
un servizio commerciale. In ciò è la forza e la
debolezza del sistema: da un lato, la rete non può
essere soggetta a nessuna influenza esterna, conservando
un’indipendenza assoluta; dall’altro, quest’anarchia
digitale comporta la mancanza di un effettivo controllo
e la comparsa di molteplici fattispecie criminose. È un
fatto che i contenuti creati dagli utenti e resi
pubblici in via telematica, integrino potenziali
violazioni degli interessi di terzi e dei diritti
individuali all’immagine ed alla riservatezza.
Se la nostra critica ledesse
l’immagine di un collega? Se le nostre chiacchiere
minassero la riservatezza di un amico? Se la foto della
nostra nipotina al mare venisse utilizzata da
sconosciuti? Basti pensare ai casi più celebri: tempo
fa, sono apparse su Facebook foto di pazienti intubati:
l’infermiera che le aveva pubblicate non si era accorta
che fossero alla portata di tutti; nel 2009, un gruppo
di discussione intitolato “Uccidiamo Berlusconi” si è
sperticato in una serie variopinta di ingiurie e
minacce; nel2010,Pakistan eBangladesh hanno oscurato
Facebook e Youtube per evitare la diffusione delle
caricature del profetaMaometto; senza contare i vari
gruppi che inneggiano alla gloria di delinquenti mafiosi
e movimenti neonazisti. Si è ben oltre la classica
dicotomia tra libertà di manifestazione del pensiero e
tutela della reputazione: il sistema connette una
quantità infinita di persone ad una velocità
inarrestabile. Ma allora dov’è il limite?
L’ordinamento italiano offre un
vasto panorama di norme a tutela delle libertà
fondamentali dell’individuo. Secondo la Corte di
Cassazione, il diritto di critica può essere esercitato
da chiunque, nel rispetto dei criteri di utilità sociale
dell’informazione, verità della notizia, forma civile
dell’esposizione. D’altro canto,il limite naturale al
diritto di critica risiede nella tutela della
reputazione dell’individuo, principio che ogni buon
utente dovrebbe tenere in dovuta considerazione, prima
di lanciarsi in rete. In materia di abuso d’immagine
altrui, l’art. 10 del Codice Civile dispone: qualora
l’immagine di una persona o dei suoi parenti sia esposta
o pubblicata fuori dei casi consentiti dalla legge, con
pregiudizio al decoro ed alla reputazione, l’autorità
giudiziaria può ordinare che l’abuso cessi.Che dire,
poi, del decreto legislativo n. 196/03, il famigerato
“Codice in materia di protezione dei dati personali”?
Una delle più complete e commoventi elaborazioni
normative degli ultimi anni, che riconosce il diritto
dell’individuo ai propri dati personali e disciplina le
operazioni di raccolta, elaborazione, raffronto,
cancellazione, modificazione, comunicazione e diffusione
dei dati stessi. A ciò si collegano principi
nobilissimi, quali il diritto alla riservatezza ed il
consenso al trattamento dei dati personali, fulgidi
brocardi in difesa costante della privacy dell’individuo.Ma
la vera questione è che fattispecie tipiche, come la
minaccia, l’abuso di immagine altrui, la violazione
della privacy, si realizzano in termini del tutto nuovi,
rispetto alle previsioni cristallizzate nei nostri
inappuntabili codici. Una volta in rete, i contenuti
sono riprodotti in streaming un numero infinito di volte
dagli stessi utenti: è chiaro che non vi può essere
alcuna tutela se i soggetti tutelati sono i primi ad
evadere le norme di tutela in questione (mi si permetta
il gioco di parole)! Si pensi alla musica online: in
assenza di un accordo con i titolari dei diritti, si è
teorizzata l’illiceità dei download promossi dai social
network o via peer to peer.
Ebbene, nell’incertezza del dato
normativo, milioni di persone continuano a “scaricare”
musica da Internet, incidendo profondamente sulle regole
di mercato: ad oggi, le pop star traggono fonte di
guadagno dalle performance live, più che dalla vendita
di cd e file musicali (ecco spiegato il repentino
aumento del costo dei biglietti per i concerti).
Utenti a parte, è possibile
individuare una responsabilità in capo ai prestatori di
servizi, ai cosiddetti “intermediari”, ai vari Google,
Facebook, MySpace? L’art. 17 del decreto legislativo
70/03, in attuazione della direttiva 2000/31/CE,
sostanzialmente, ribadisce l’assenza di un generale
obbligo di sorveglianza, da parte degli intermediari,
sulle attività degli utenti.
D’altro canto, considerato che il
responsabile del sistema ha la possibilità di
controllare i contenuti, il prestatore è sempre tenuto
ad informare l’autorità di vigilanza, in caso di
presunte attività illecite, ed a fornire, a richiesta
delle autorità competenti, le informazioni che
consentono l’identificazione dell’utente in questione.
In realtà, una volta elaborata la
qualificazione giuridica di Internet, sarebbe utile
avvalersi della collaborazione degli operatori e dei
tecnici del settore, così da pragmatizzare i principi di
diritto alla velocità dei gigabyte. Questo, unito al
buon senso degli utenti, ai quali sta, comunque, la
scelta di barattare la propria vita in rete, per
guadagnare 5 minuti di notorietà.
È ipotizzabile il ritorno ad una
vita riservata, sussurrata a pochi intimi? Per ora,
scommetto che, appena finito di leggere l’articolo,
controllerete se su Facebookci sono anch’io !
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